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Marco Paone intervista José Manuel Lucía Megías

José Manuel Lucía Megías (Ibiza, 1967) è Professore ordinario di Filologia Romanza, presso l’Università Complutense di Madrid. Presidente dell’Asociación de Cervantistas e coordinatore accademico del Centros de Estudios Cervantinos, è autore di numerosi articoli e saggi che spaziano dalla filologia romanza alla critica testuale, dalla storia e ricezione del libro all’uso e diffusione delle Digital Humanities. È anche poeta e traduttore. Il suo ultimo titolo è Se llamaban Mahmoud y Ayaz (Madrid, Amargord, 2012), libro che è stato portato in scena nell’adattamento teatrale Voces en el silencio, con la regia di Carlos Jiménez.

Professor Lucía Megías, quest’anno si celebra il quarto centenario dalla pubblicazione della “Segunda Parte del Ingenioso Caballero don Quijote de la Mancha”. Lei è il curatore dell’esposizione “Coleccionismo cervantino en la Biblioteca Nacional de España: del doctor Thebussem al fondo Sedó”, un modo per riaffermare il lascito materiale e simbolico dell’opera di Cervantes. Che cosa significa oggi «collezionare Cervantes»?

«Collezionare Cervantes» oggi non differisce molto da ciò che è stato collezionare Cervantes dalla metà del XIX secolo, quando nasce il cervantofilo, la persona che si dedica a tesaurizzare il maggior numero di edizioni e di altri esempi di ricezione dell’opera cervantina (incisioni, quadri, ephemera, etc.). Cervantes e la sua opera si sono diffusi ininterrottamente durante 400 anni in così tanti modi e geografie, che una collezione sulla sua ricezione significa fare una collezione sulla nostra cultura, sui nostri desideri. Una collezione illimitata (il sogno di qualsiasi collezionista), ma, allo stesso tempo, una collezione che giorno dopo giorno ci riempie di orgoglio per gli oggetti scovati, per il possesso di qualche rarità. «Collezionare Cervantes» è un omaggio a un autore che con pieno successo passeggia lungo i tempi e le culture. «Collezionare Cervantes» è un promemoria di tutto ciò che ci rimane da apprendere e di tutto ciò che ignoriamo dell’altro, di quest’altro che si guarda nel nostro specchio con la speranza di trovare le risposte a così tante domande.

Questa testimonianza è una testimonianza non solo della circolazione dell’opera cervantina, ma anche di uno dei tasselli chiave della storia della lettura e della letteratura mondiale, come si può evincere da una rapida consultazione del numero di traduzioni raccolte dall’Index Translationum. In che senso si può intendere il Quijote come romanzo globale?

Il Quijote è un romanzo globale da un doppio punto di vista. Un romanzo globale perché, partendo dal genere cavalleresco, realizza un modello letterario dove c’è posto per “tutto”. “Porque la escritura desatada destos libros da lugar a que el autor pueda mostrarse épico, lírico, trágico, cómico, con todas aquellas partes que encierran en sí las dulcísimas y agradables ciencias de la poesía y de la oratoria; que la épica también puede escrebirse en prosa como en verso” [Tanto più che la libertà della forma in cui questi libri possono esser redatti permette all’autore di mostrarsi volta a volta epico, lirico, tragico, comico , con tute le qualità contenute nelle gentili e piacevoli arti della poesia e dell’eloquenza, perché l’epica può scriversi egualmente bene in prosa come in versi (trad. di Ferdinando Carlesi, Milano: Mondadori – I Meridiani, 8ª ed., 1996, p. 536)], così si esprime il canonico nel capitolo 47 della prima parte. E questo “senso globale” del genere lo osserviamo già negli esperimenti di Feliciano de Silva e nella sua prosecuzione del ciclo di Amadís de Gaula, dove la poesia, la visione pastorale, quella comica, etc., avevano libero accesso alla narrazione cavalleresca. Senza dubbio, questa capacità letteraria, letta e avvalorata dai grandi autori inglesi, tedeschi e francesi del XVII, XVIII e XIX secolo, è ciò che ha reso il romanzo il re dei generi nell’attualità.

Tuttavia, dall’altro lato, il Quijote è globale perché è stato tradotto in tutte le lingue di cultura e, in modo frammentario o completo, è stato tradotto in 140 lingue diverse, il che non è poco. Non esiste un’altra opera di finzione che regga il confronto. E la traduzione presuppone un’appropriazione, l’adattarsi ai lettori di ogni epoca. Un adattamento che, fino al XX secolo, si realizzava più che altro come un adattamento globale, giungendo addirittura a modificare parte del testo per adeguarlo ai gusti di ogni epoca: chi potrebbe oggi dire che il Quijote francese di Florian (1799) è il Quijote di Cervantes con tutti i cambi, soppressioni e aggiunte che aveva apportato? Ma è proprio questo il testo che ha avuto successo nell’Europa del XIX secolo, che è stato letto in Francia e che è servito come punto di partenza per le traduzioni in altre lingue. Oggigiorno, anche quando la traduzione cerca d’essere fedele all’originale cervantino e si prende come punto di riferimento il testo spagnolo, nonostante questo, il linguaggio utilizzato nelle traduzioni è quello attuale e non un’imitazione di quello del XVII secolo. Ecco perché qualsiasi lettore colto che legga il Quijote in traduzione, lo sentirà più moderno e attuale dei lettori ispanici, che continuiamo a leggerlo nella lingua di Cervantes, nello spagnolo di 400 anni fa. Da un lato, è un vantaggio, ma, dall’altro, presuppone un distanziamento tra l’esperienza di lettura dell’epoca (quella del XVII secolo) e la nostra.

L’opera di Cervantes è un punto di riferimento per molti scrittori di tutte le letterature in spagnolo. In che autore e/o autrice della contemporaneità osserva il peso specifico dell’eredità cervantina?

Quest’influenza è evidente in quei narratori che puntano alla creazione di un romanzo globale, uno sforzo ambizioso nel momento in cui si scrive, il che ci allontana dalla gran maggioranza degli autori attuali, che, per l’ansia di persistere, si muovono più verso l’unità del romanzo e del racconto che verso il senso globale di un’opera narrativa. Per questo motivo, i due narratori in cui di più apprezzo l’impronta della lezione cervantina del “romanzo globale” sono Carlos Fuentes e Mario Vargas Llosa.

Stanno uscendo diversi studi critici sull’opera di Cervantes, ma è curioso come ancora si mantenga vivo il dibattito su altre questioni connesse alla figura dell’autore, come la sua provenienza e l’ipotetico ritrovamento del suo corpo nel Convento de las Trinitarias di Madrid. Per questa ragione, è necessario formulare la domanda più “difficile”: chi era Miguel de Cervantes y Saavedra?

Questa è la grande incognita, alla quale non potrei mai dare una risposta per due motivi: Cervantes è un essere del suo tempo, un essere senza documenti, che ha lasciato pochissime tracce documentate della sua vita: conserviamo solo cinque autografi e centinaia di documenti con la sua firma, per la maggior parte – per non dire nella sua totalità – hanno a che vedere con la tipica “vita amministrativa” dell’epoca: certificato di battesimo, documenti relativi al suo lavoro (richieste di licenze, contratti, commissario generale ai rifornimenti), procure familiari, affitti, testamento… E, dall’altro lato, i dettagli che si riferiscono alla sua vita privata, con alcuni dei pezzi più interessanti come il suo periodo ad Algeri, sono sempre contaminati con l’intenzione di offrire una determinata immagine di se stesso, sia attraverso documenti (le famose informazioni di Madrid, 1578, e di Algeri, 1580), sia attraverso riferimenti all’interno delle sue opere letterarie, che sin dalla biografia di Mayans i Siscar (1738) sono state prese come fonte per erigere la sua biografia. In questo modo, nonostante i grandi sforzi di magnifici studiosi come il succitato Mayans, Martín Fernández de Navarrete, Astrana Marín o Jean Canvaggio, l’unica certezza è che le biografie di Cervantes si costituiscono più di finzione che di realtà. Senza dubbio alcuno, “Miguel de Cervantes Saavedra” è stato uno dei migliori personaggi che abbia creato Miguel de Cervantes.

Parlando di corpi e di corpus, la critica testuale gioca un ruolo fondamentale nell’esumazione e riscoperta dei testi. Partendo dal palinsesto cervantino, lei è stato e continua ad essere uno dei propugnatori della relazione fra filologia e mondo digitale. Quali sono le prossime sfide nell’ambito dell’informatica umanistica?

L’informatica umanistica, le digital humanities, hanno come sfida la creazione di criteri standard che permettano l’edizione e diffusione di testi nella maniera più comune e facile possibile. Negli ultimi anni, ci siamo dedicati a due compiti necessari: da un lato, a dimostrare ai nostri colleghi umanisti che la tecnologia digitale non fosse un pericolo, ma un’opportunità (da questo presupposto è nata la necessità di scrivere “Elogio del texto digital”, Madrid: Fórcola, 2012); e dall’altro, alla creazione di strumenti per la diffusione dei nostri testi, tanto in corpus linguistici e iconografici, quanto all’interno di biblioteche ed edizioni digitali. Adesso è giunto il momento di cominciare a creare strumenti specifici, metodi di lavoro in gruppo e modelli standardizzati di risultati per poter così continuare ad avanzare ed evitare di creare isole digitali in un mondo globalizzato.

I mezzi informatici moltiplicano anche le vie del collezionismo e democratizzano la sua diffusione. José Francisco Ruiz Casanova e Yvette Sánchez hanno sottolineato la stretta relazione tra il collezionismo e l’atto di antologizzare. Lei è stato antologista e autore antologizzato, crede che abbia ancora la sua valenza l’antologia come libro in comparazione allo spazio aperto delle piattaforme virtuali? 

Internet, le piattaforme virtuali, i blog e le altre modalità di diffusione che si sono andate via via creando e consolidando in questi anni di espansione e diffusione dell’universo digitale, non fanno nient’altro che moltiplicare modalità di diffusione già esplorate, già sperimentate. Quando si critica la facilità nel pubblicare e nel credersi scrittori con l’edizione sottoposta alla domanda e a tutto il resto delle possibilità digitali, ci dimentichiamo del disprezzo espresso nel XIX secolo verso la cosiddetta “letteratura industriale”, verso la possibilità che qualsiasi persona potesse scrivere, pubblicare, arrivare a credersi scrittore… Le antologie sono un tipo di lettura. Le collezioni delle case editrici dovrebbero essere una lettura. Un catalogo di una casa editrice dovrebbe essere la tabella di marcia dove segnalare i propri interessi, le proprie scommesse, i propri grandi successi e, incluso, i propri più clamorosi fallimenti. Il mondo digitale permette una facile esposizione pubblica, forse la più facile a cui siamo giunti nella nostra cultura occidentale. Tuttavia, questa facilità non deve confondersi con la perdurabilità. E una delle sue chiavi è la mediazione, il trovare uno spazio di dialogo, in cui l’autore debba parlare con un editore (dialogare e discutere) per migliorare il testo che si è ricevuto prima di offrirlo al lettore. La grande crisi editoriale del XXI secolo non risiede nella facilità con cui adesso si può autopubblicare, bensì nel processo che ha portato i grandi gruppi editoriali ad abbattere i costi colpendo ciò che li rendeva unici: il curatore, il correttore, il tipografo… In questo modo, il XXI secolo è testimone della fine di un modello editoriale industriale che è sorto durante il XIX secolo (con il successo della stampa, a partire dalla fine del XVIII secolo, e dei nuovi mezzi di trasporto, specialmente della ferrovia) e che si è appoggiato nei mezzi di comunicazione, creando veri e propri trust (per non scrivere monopoli) dell’informazione e dell’opinione. Durante il XXI secolo non sparirà il libro, anzi tutto il contrario: è il secolo del testo, della seconda testualità e della creazione di un nuovo modello industriale attorno al libro, in cui si privilegerà la casa editrice che saprà offrire la miglior mediazione, quella che non si baserà sulla vendita di migliaia e migliaia di oggetti, senza che le importi la qualità di ciò che si pubblica. Forse dobbiamo continuare a credere che il nostro modello occidentale, come cercano di difendere nei mezzi di comunicazione globali, si basi nel best-seller, nel riuscire a mettere sul mercato milioni di esemplari di libri che così poco apportano alla cultura, all’arte come, per esempio, le “Cinquanta sfumature di grigio”? Questo è il modello editoriale che deve sparire e troppo sta tardando a farlo. Quando riusciremo a far smettere questi grandi empori editoriali – e in ogni paese ce ne sono vari – di controllare le corporazioni di editori, gli uffici governativi, tornerà a splendere il sole sul mondo dell’editoria nell’universo digitale in cui viviamo.

Come filologo romanzo, il suo lavoro non si limita semplicemente alla geografia culturale ispanica. Fra i suoi lavori spicca anche la Antología de la antigua lírica italiana (de los primeros textos al Dolce Stil Novo), pubblicata nel 2008 insieme a Carlos Alvar. Qual è il suo rapporto con l’Italia? Quali sono gli autori italiani che frequenta normalmente nelle sue letture?

Si può ben dire che l’Italia sia la mia seconda terra. E lo è a livello personale e a livello accademico. Da quando sono stato in Italia per i miei studi (prima a Pisa e poi a Roma) e dopo per lavoro (come professore a Trento), l’Italia è diventata un punto di riferimento. A Pisa ho scoperto la critica testuale e l’ho fatto nel migliore spazio possibile: la biblioteca della Scuola Normale, in Piazza dei Cavalieri; a Roma ho avuto l’opportunità di avvicinarmi a una delle scuole filologiche meglio formate e aperte, come quella creata da Aurelio Roncaglia, della quale molti siamo discepoli, sebbene non abbiamo mai frequentato le sue lezioni; infine, a Trento ho potuto conoscere l’accademia italiana da un altro punto di vista, non più come studente Erasmus, come borsista post-dottorato, ma come professore. Oltre a questi legami accademici e di formazione, durante questi anni, ho avuto la fortuna di fare buoni amici, con i quali condivido passioni e esperienze di ogni tipo. In questo senso, la letteratura medievale – dalla poesia delle origini fino allo stesso Petrarca – mi ha sempre accompagnato. Ho quasi terminato una traduzione della poesia comica realista, con Cecco Angiolieri in testa, che mi ha divertito tanto e alla quale spero di tornare appena termineranno le celebrazioni dell’anniversario cervantino… Oltre ai miei interessi professionali verso gli studi medievali e alle mie letture di Laura Mancinelli, che mi hanno profondamente giovato, ho letto anche molta poesia italiana del Novecento, soprattutto mi ha influenzato Lavorare stanca di Pavese, il cui concetto di poesia-racconto è alla base della mia stessa poesia. E questo vincolo così stretto con l’Italia ha lasciato una traccia nella mia poesia: la prima sezione di “Cuaderno de bitácora” è intitolato “Geografía de Roma” e nel 2009 ho pubblicato “Trento (o el triunfo de la espera) / Trento (o il trionfo dell’attesa)”, un’edizione bilingue con traduzione di Claudia Dematté e prologo di Pietro Taravacci.

Lei è anche un poeta di lungo corso. Che cosa metterebbe in rilievo del suo mestiere poetico rispetto al lavoro accademico? 

In realtà, il mio lato da poeta e quello da professore non li considero due aspetti distanti, come se non ci fosse nulla che li mettesse in contatto. In quanto studioso della letteratura, è importante poter entrare nella posizione occupata dall’autore e possedere questa prospettiva quando qualcuno realizza un’analisi o uno studio della tua propria opera (sicuramente la professoressa Caterina Ruta è la persona che si è avvicinata maggiormente e con più destrezza alla mia opera poetica); e, d’altro canto, le letture, le esperienze professionali che comporta la quotidianità del mondo accademico, alla fine finiscono per riflettersi nella poesia che uno scrive. Esistono vasi comunicanti non sempre oggettivi, non sempre identificabili fra creazione e docenza. Non smette di sorprendermi la quantità di echi che i critici scoprono accostandosi alla mia poesia. Sorprendenti come gli echi che riscontro, come professore, spiegando la novità della poesia trobadorica, il virtuosismo di Petrarca o il gusto per la metafora quotidiana dei poeti comici realisti. In realtà, tutti siamo lettere, tutti siamo fatti di carta, sia che uno sia professore, che scrittore.


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L'autore

Marco Paone
Marco Paone
Marco Paone è docente di lingua spagnola e codirettore del Centro di Studi Galeghi presso l’Università degli Studi di Perugia. Nelle sue ricerche si è interessato a questioni di storiografia letteraria, relative ad aspetti di circolazione, migrazione e traduzione nel contesto italiano e iberoamericano. È uno dei fondatori di Umbria Poesia e Ultramarinos (Follas Novas: Santiago de Compostela, 2014) è il titolo della sua prima raccolta di poesie.