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Paola Cadeddu intervista Lyonel Trouillot

Lyonel Trouillot, nato a Porte-au-Prince (Haiti) nel 1956, è uno scrittore, poeta, intellettuale impegnato nella vita culturale e politica del suo paese. Professore di letteratura presso l’Université Caraïbe, è considerato una delle voci più interessanti nel panorama letterario in lingua francese di questi primi anni del XXI secolo. La sua poetica è costruita attorno alle idee di rivolta, ascolto e condivisione. Tra i suoi romanzi ricordiamo Thérèse en mille morceaux (2000) pubblicato in traduzione italiana a cura di E. Volterrani per le edizioni Epochè nel 2008, Les Enfants des héros (2002) tradotto da M. V. Caredda per Atmosphere Libri nel 2011, Bicentenaire (2004) pubblicato nella traduzione italiana di M. Ferrara dalle Edizioni Lavoro nel 2005, Yanvalou pour Charlie (2009), La Belle amour humaine (2011) e il suo ultimo Parabole du Failli (2013). Questa intervista nasce da una chiacchierata avvenuta nell’àmbito del Festival di Letteratura e Traduzione Babel, tenutosi dall’11 al 14 settembre 2014 a Bellinzona, in Svizzera.

Benvenuto Lyonel Trouillot, lei è professore di letteratura francese. A suo parere, cosa possiamo e dobbiamo insegnare ai nostri studenti?

Non so se ci sia una risposta a questa domanda… Ciò che dobbiamo insegnare è il dubbio, e esplorare con loro questa tensione tra senso e forma, tra reale e immaginario che costituisce, ai miei occhi, la necessità della letteratura. Malauguratamente, gli studi letterari si sono fermati a delle categorie chiuse. Esiste una sorta di meccanica dell’insegnamento della letteratura che la separa dal mondo. Mi pare fosse Jean-Pierre Faye a dire che la letteratura parla sempre e solo di sé stessa, ma per parlare di sé deve parlare di altro. Insegnare letteratura è una sorta di utopia… quando diciamo che insegniamo letteratura in realtà si tratta sempre di un discorso che produciamo sulla pratica letteraria, ma per me l’interesse di questa utopia dell’insegnamento letterario risiede nell’esplorare l’eterna domanda della relazione della letteratura con sé stessa e con un sistema esterno a essa, cioè la vita vera.

Insegnare il dubbio significa rimettere in discussione l’insegnamento tradizionale, trasmettere agli studenti il senso della rivolta…

Profondamente! Dobbiamo uscire dai soliti cliché e dalle false certezze. Penso che sia urgente e essenziale ricordare agli studenti che le condizioni appunto non sono le stesse, che la letteratura è il luogo dell’espressione delle contraddizioni e delle differenze che costituiscono i rapporti umani… Andare oltre questi raggruppamenti spesso stabiliti a posteriori da critici che credono di essere specialisti. È interessante notare come la maggior parte degli specialisti stranieri di letteratura haitiana che ho incontrato non sappiano assolutamente nulla della realtà haitiana. È alquanto strano…

Contro cosa abbiamo il diritto e la necessità di ribellarci?

Questo non è il punto di vista di un universitario, ma il punto di vista di un cittadino di Haiti e del mondo. Perché se la letteratura non è portatrice di sovversione allora non vale la pena. È la sovversione che dobbiamo cercare. La letteratura che mi interessa è quella che tenta la via della sovversione; vale a dire far vedere ciò che non si vuole vedere, far sentire ciò che non si vuole sentire, mettere in discussione tutto ciò che viene dato come fatalità in questa esistenza odierna, porre ancora una volta la domanda del senso. In uno dei miei libri c’è un personaggio che si chiede: “Cosa dobbiamo fare di questo nostro stare al mondo?”. Ecco, credo che esplorare la letteratura significhi aiutare gli studenti a porsi questa domanda.

Nel suo romanzo La Belle amour humaine troviamo associazioni di parole e di idee alquanto interessanti come ad esempio viaggio e condivisione, turismo e neocolonialismo…

È così! Quando il mio personaggio dice che il turista è colui che ha un’opinione solo perché possiede un portafoglio bello pieno è per questo. Ho visto talmente tanti stranieri riassumere Haiti in una o due frasi solo perché avevano abbastanza denaro per pagarsi un viaggio. A me piace entrare nella realtà delle cose, tentare di esporre le pratiche che si nascondono dietro i paroloni… oggi siamo nell’epoca della terminologia che non è altro che un eufemismo inventato per non nominare quelle pratiche che vogliono sembrare positive. La letteratura è un’arma temibile per descrivere queste pratiche, e quando è lei stessa a volersi privare di quest’arma è come se stesse decretando la propria morte. Non pretendo che i miei libri siano necessari, non posso allo stesso tempo scriverli e commentarli. Le persone possono giudicarli. I libri appartengono ai lettori. Penso che oggi, malauguratamente, ci sia una tendenza, soprattutto nei paesi occidentali, presso i sedicenti scrittori di scambiare il pubblico per uno psicanalista. Anche a rischio di sembrare vecchio o outdated, se il neoliberalismo trionfante pensa che appartengo a un’altra epoca io lo rivendico. Non voglio appartenere a questa epoca della fine della storia, della fine dell’ideologia, della fatalità del mercato come nuovo dio. Quindi se le persone sono abitate da questo pensiero, che per me è un non-pensiero, se queste persone pensano che quello che dico appartiene al passato, rivendico quel passato! Anche se questo passato non morirà tanto presto… La letteratura che mi piace è quella che serve a smaliziarmi, che mi permette di uscire dal mio isolamento, dalla mia piccolezza. Un libro come, e lo cito spesso tanto mi ha segnato, un libro come Furore di Steinbeck mi comunica qualcosa; un libro come La vita davanti a sé di Gary mi comunica qualcosa. Potrei citare altri romanzieri contemporanei o poeti dove c’è umanità, dove c’è un obiettivo d’umanità al di là della loro persona. Faccio spesso laboratori di scrittura creativa, è una delle mie attività preferite, e talvolta è una noia mortale quando qualcuno arriva solo con sé stesso. Sono terrorizzato perché vedo spesso nei miei laboratori queste persone che vogliono scrivere e non conoscono nulla all’infuori di sé. Osservano lo specchio che hanno davanti ed è a partire da questo che vogliono fare letteratura…

Ha qualcosa da rimproverare agli Occidentali o agli haitiani stessi?

Una donna, dell’alta borghesia haitiana una volta mi disse : “Ma dove è andato a pescare tutti quegli orrori?”, e io le ho risposto: “Signora come fa a viverci e a non accorgersene?”. Le oligarchie haitiane hanno prodotto questo paese di disuguaglianza, di ingiustizia, questo paese del mal vivere, che la letteratura può ancora una volta mostrare. Spesso mi dico che dobbiamo fare libri brutti tanto quanto la realtà che ci circonda e allo stesso tempo metterci dentro l’idea che questa realtà possa essere trasformata. È un po’ ingenuo e molto realista al contempo. Era Éluard a dire che se noi volessimo ci sarebbero solo meraviglie; malauguratamente, però non abbiamo prodotto solo meraviglie. Bisogna porre l’ipotesi delle meraviglie a partire dalle brutture della realtà. Se il libro diventa insopportabile, forse anche la realtà diventerà finalmente insopportabile. Mi piace la frase di Cesaire che parlando della Martinica diceva che il suo paese perdeva tempo a cercare una ragione per accettare l’inaccettabile. Mi pare che oggi abbiamo perso il senso dell’inaccettabile e forse la letteratura può rimetterci, in un certo senso, sulla strada degli interrogativi.

Un’ultima domanda: qualche tempo fa lei disse che come Baudelaire le piaceva l’idea di prendere il fango per farne dell’oro. Questa visione del lavoro di scrittura è ancora attuale, per lei, in quanto scrittore?

Sì! È per questo che ho amato molto gli scrittori della beat generation, per parlare di un libro che mi ha segnato molto, Last Exit to Brooklin di Hubert Selby non è possibile che le persone vivano in quelle condizioni, è un orrore inaccettabile. Si tratta di uno dei più begli orrori che la letteratura americana abbia prodotto. Dobbiamo produrre begli orrori… belli nel senso in cui c’è una funzione estetica che non è per forza in contraddizione con il dubbio o gli interrogativi ai quali la letteratura può condurre. Io non credo a questa letteratura dell’individuo chino su di sé, non credo a questa letteratura dell’avvilimento, piatta, che non ha nulla da dire… il mondo ha prodotto più piaghe che gioie, e bisogna sfiorare le piaghe per sognare la gioia.


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L'autore

Paola Cadeddu
Paola Cadeddu
Paola Cadeddu è francesista, docente-formatrice per il MIUR, ha insegnato letteratura francese all’Università degli Studi di Sassari e traduzione presso l’ateneo di Cagliari. Autrice del saggio Variazioni sul ritmo. Da Paul Valéry ad Amélie Nothomb (2016) e di numerosi articoli pubblicati prevalentemente in volumi internazionali, si occupa di problematiche legate alla traduzione del testo letterario. Traduttologa di formazione, i suoi àmbiti di ricerca spaziano dalla traduttologia alla critica letteraria, dalla letteratura francese dell’estrema contemporaneità alle letterature postcoloniali. Ha collaborato con varie case editrici sia in Francia che in Italia come redattrice e traduttrice letteraria.