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Maristella Petti intervista Marcos Bagno

 

Marcos Bagno (21 agosto 1961), addottoratosi in filologia e lingua portoghese presso l’Università di San Paolo in Brasile, è ora professore del dipartimento di Lingue Straniere e Traduzione dell’Università di Brasilia, nonché traduttore e scrittore. Con diversi premi vinti per i suoi saggi di sociolinguistica e i libri di letteratura infantile, è riconosciuto come un’autorità nella teorizzazione del “preconcetto linguistico”.

 

L’Italia è un Paese storicamente poco incline all’apprendimento delle lingue straniere, concentrato sullo studio dei maggiori idiomi d’Europa, di cui il Portogallo è considerato ai margini sia geografici che economici. Forse per questo il nostro sistema scolastico ha sempre rivolto poca attenzione, per lo meno fino agli ultimi anni, alla sfera linguistica del portoghese. Come spiegherebbe quindi al nostro Paese, che a malapena distingue lo spagnolo dal portoghese, la differenza tra il portoghese e il brasiliano? 

Ho visitato l’Italia e, di fatto, vedo che la rappresentanza del “portoghese”, parlando in generale, è poco rappresentativa, nonostante possa contare su persone molto coinvolte in alcune università, come Bologna, Lecce, Perugia, ecc. Molte persone con cui ho dialogato in terra italiana mostrano la loro insoddisfazione per la mancata distinzione tra il portoghese europeo e il portoghese brasiliano. È molto poco produttivo, dal punto di vista pedagogico, che la stessa classe di studenti sia sottomessa ogni semestre a professori che parlano e insegnano ora l’europeo, ora il brasiliano. Significa imparare una serie di cose per poi disimpararle. Le differenze saltano all’orecchio subito nel piano più elementare e più concreto delle lingue, ovvero la fonologia. Il sistema fonologico del portoghese europeo presenta una serie di esclusività, di marche che sono assolutamente sconosciute nel brasiliano. Per esempio, la vocale atona [?], centrale e molto chiusa, non esiste nel portoghese brasiliano, così come noi qui non ammorbidiamo le consonanti [b], [d] e [g] quando sono in posizione intervocalica. E questi sono solo pochi esempi. Quando entriamo nel campo della morfosintassi, della grammatica propriamente detta, anche qui rileviamo tantissime differenze, soprattutto con caratteristiche grammaticali che sono esclusive del portoghese brasiliano. Per esempio, nella lingua parlata in Brasile i pronomi personali complemento di terza persona o/a/os/as (in italiano lo/la/li/le) semplicemente non esistono. Questi sono solo acquisiti a scuola, non fanno parte della lingua materna di nessuno. Anche nello scenario di tutte le lingue romanze prese nel complesso, questo fenomeno rimane una prerogativa del portoghese brasiliano. I pronomi personali hanno sofferto una totale riorganizzazione tra di noi, tanto che è totalmente indifferente l’uso di tu e você (forme di cortesia che in portoghese europeo corrispondono, rispettivamente, a “tu” e “Lei”, ma che in portoghese brasiliano indicano indistintamente, per l’appunto, la seconda persona singolare, N.d.T.), insieme agli altri pronomi. Diciamo tranquillamente “Você não ouve os conselhos que eu te dou” (che quindi in portoghese europeo suonerebbe un po’ come “Lei non ascolta i consigli che ti do”, N.d.T.). Il pronome gli può essere tanto oggetto indiretto quanto diretto. Le forme di cortesia in portoghese europeo obbediscono a una gerarchizzazione molto rigida, mentre nel brasiliano l’informalità è molto maggiore; l’uso delle forme di cortesia è molto più flessibile. Il modo imperativo nel portoghese brasiliano presenta una variazione regionale e non corrisponde per nulla a quanto previsto dalla “norma-padrão”, lo standard di riferimento tradizionale, ispirata agli usi portoghesi. Insomma, sotto tutti i punti di vista teorici, è possibile dire che ormai esistono due grammatiche distinte, ovvero due lingue diverse, e che è necessario tener conto di questa realtà per non cedere alla tentazione di continuare a cercare di vestire una lingua con i panni di un’altra.

La lingua italiana consiste in un’entità convenzionale che viene insegnata nelle scuole, utilizzata dai media e impiegata da coloro che si trovano a uscire dalla propria comfort-zone linguistica. Quest’entità è volta a unificare la vastissima diversificazione dialettale regionale (a volte addirittura provinciale) dell’Italia: la nostra varietà ha a che fare con la dimensione geografica, orizzontale. In Brasile la variazione linguistica riguarda la dimensione verticale: riflette, cioè, le profonde differenziazioni sociali del Paese. Ciò cosa comporta?

Il Brasile è un Paese nato da un lungo e doloroso processo coloniale, con tutto ciò che questo implica, incluse le questioni di lingua. La lingua maggioritaria tra di noi, il portoghese brasiliano, è una lingua relativamente giovane, se comparata alle lingue europee. Nessuno può dire che il portoghese brasiliano ha 500 anni, solo perché i primi colonizzatori arrivarono qui 500 anni fa. Il portoghese impiegò più di tre secoli a imporsi come lingua maggioritaria in Brasile. Questo avvenne alla fine del XVII secolo e soprattutto durante il XVIII secolo, a causa della scoperta dell’oro a Minas Gerais, cosa che fece confluire in quell’area molte persone, che parlavano svariate lingue, tra cui mezzo milione di portoghesi che vennero a cercare di fare fortuna con l’oro e le pietre preziose. Durante la maggior parte del secolo coloniale, le lingue più usate erano le cosiddette “línguas gerais”, di base indigena, tupi nel litorale sudorientale e tupinambá in Amazzonia. Anche i figli dei portoghesi, in genere meticci, parlavano solo lingue indigene. I nostri più importanti linguisti mostrano che il portoghese brasiliano passò ad avere una grammatica propria, caratteristica, solo a partire del XIX secolo, quando si affermarono nella nostra lingua una serie di cambiamenti importanti, avvenuti principalmente grazie al contributo di coloro che parlavano le lingue africane, i milioni di esseri umani schiavizzati che furono sequestrati dalle loro terre natali e portati in Brasile, per più di 300 anni. Queste persone dovettero imparare il portoghese in maniera irregolare e asistematica, facendo sorgere un portoghese che possiamo definire afro-brasiliano e che presenta una serie di influenze delle principali lingue africane portate qua, soprattutto del gruppo bantu. Come uno dei Paesi più diseguali del pianeta, anche il Brasile presenta un panorama sociolinguistico segnato dalla disuguaglianza. È quanto il linguista Dante Lucchesi ha mostrato nel suo libro Língua e sociedade partidas: a polarização sociolinguística do Brasil, pubblicato nel 2015, e che ha vinto da poco il premio letterario più prestigioso del paese, il Jabuti. Abbiamo, da una parte, un ridotto ceto urbano che ha ampio accesso al reddito e, quindi, alla conoscenza dei beni culturali e può di conseguenza permettersi di entrare in contatto con le norme più prestigiose della lingua; dall’altra parte, troviamo la stragrande maggioranza della popolazione che non ha accesso alla cultura letteraria e che quindi segue dei modelli linguistici che soffrono di un profondo stigma sociale.

Cos’è a imporre la norma colta brasiliana? Le reminiscenze dell’antica colonizzazione portoghese o nuovi poteri politici interni alla nazione?

Dobbiamo prima definire cosa si intende per “norma colta”. Per i ricercatori brasiliani, “norma colta” è un insieme di varietà autentiche, empiricamente imponibili, usate dai parlanti urbani più colti. In contrapposizione a questa esiste quella che chiamiamo “norma-padrã”, modello idealizzato di lingua, anacronistico, ispirato agli usi letterari portoghesi del passato. Tra la norma colta reale e la norma-padrão tradizionale esiste un abisso grande e profondo. Addirittura gli stessi abitanti di città più colti presentano nella lingua parlata (e anche nella lingua scritta, come dimostro in diversi lavori) usi che non obbediscono a ciò che è previsto dallo standard. Noi linguisti abbiamo rivendicato una rielaborazione dello standard, affinché si avvicini di più alla norma colta reale, affinché si smetta di considerare come “errori” usi che sono diffusi tra di noi da più di un secolo e mezzo, presenti anche nei nostri migliori scrittori, e affinché si permetta la convivenza pacifica tra la vera norma urbana colta e lo standard classico. Non sostituire una cosa con un’altra, ma accettare senza problemi le forme alternative già opportunamente impiantate negli usi urbani più letterari.

Qual è il potere dei mass media in generale e della televisione in particolare nella divulgazione di una norma linguistica in Brasile?

I grandi mezzi di comunicazione nel Brasile di oggi rappresentano quanto esiste di più conservatore, elitista e reazionario nello spettro ideologico. Tutte le grandi imprese, a cominciare dall’onnipotente rete televisiva Globo, che sorsero durante la dittatura militare (1964-1985) e l’appoggiarono allegramente, hanno fatto una pesante propaganda contro il governo della presidente eletta Dilma Rousseff e hanno apertamente patrocinato il colpo di Stato promosso dalle forze più retrograde del Paese. Politici notoriamente corrotti, criminali comprovati, difensori di idee fascistoidi, hanno assaltato il potere e ora tentano di disarcionare tutti i programmi sociali che sono stati creati negli ultimi tredici anni dai governi riformisti di Lula e Dilma. Questa caratteristica reazionaria dei grandi mass media brasiliani si verifica anche nelle loro posizioni rispetto alla lingua. Tutte le grandi imprese mediatiche hanno i loro “manuali di redazione”, che sono più conservatori e rigidi delle buone grammatiche prodotte dai nostri filologi più rinomati. Nel frattempo, esiste una grande distanza tra il discorso e la pratica. La difesa di uno standard linguistico anacronistico non si conferma nella pratica testuale degli stessi giornalisti che, pressati dall’urgenza, lasciano entrare nei propri testi le principali regole del portoghese brasiliano colto contemporaneo. Io ho una grande banca dati con soli esempi di come i giornalisti non rispettano le regole grammaticali che presumibilmente dovrebbero seguire, così come appaiono nei manuali di redazione. È l’antico proverbio: “fate qual che dico, non quel che faccio”. Uno dei miei principali passatempi è proprio vedere, in testi che tentano di “difendere la lingua”, usi linguistici che la grammatica normativa condanna!

Cosa nasce prima, l’uomo o la lingua? Ogni uomo è sottomesso al potere della propria lingua e alla forma mentis che questa gli conferisce, o è l’individuo che plasma la lingua secondo le proprie esigenze?

Queste sono questioni che intrigano i pensatori da che mondo è mondo. Già nella Grecia classica, i filosofi del linguaggio dibattevano se le parole venissero dalla “natura” o dalla “convenzione”. Gli sviluppi più recenti della linguistica sociocognitiva hanno dimostrato che esiste un’interazione profonda, un intreccio complesso, tra linguaggio, cognizione e cultura, tanto che è praticamente impossibile scindere una cosa dall’altra. La tesi classica del “relativismo linguistico”, degli anni Cinquanta e Sessanta, è stata abbandonata perché presentava una serie di lacune teoriche, ma è stata ripresa e rielaborata da molti ricercatori, che hanno mostrato in che modo la lingua che parliamo può, ebbene sì, influenzare in una certa misura la nostra visione del mondo.

La linguistica è una disciplina che si ripropone di arginare in regole scientifiche un organismo vivo e umano come la lingua, cosa che suona assurda all’orecchio di chi non appartiene al campo. In cosa consiste fare ricerca in quest’ambito?

La linguistica ha a che fare con un oggetto molto particolare, che è la lingua o, più ampiamente, il linguaggio umano in tutte le sue manifestazioni. Lingua e linguaggio sono quindi impregnati in noi, fa parte tanto profondamente del nostro essere fisico, psichico e sociale che la stragrande maggioranza delle persone neanche si ferma a riflettere su questa facoltà impressionante che la natura ci ha dato. Siamo esseri fatti di carne, ossa e linguaggio. Viviamo tanto immersi nel linguaggio quanto il pesce nell’acqua, è impossibile essere umani senza essere nel linguaggio. Una delle maggiori difficoltà dei linguisti è esattamente mostrare che lingua e linguaggio sono oggetti di investigazione scientifica, che possono essere descritti, applicati, teorizzati, ecc. La linguistica scientifica risente della concorrenza sleale della tradizione grammaticale, una dottrina che ha più di 2500 anni, più vecchia del cristianesimo. Quando pensano alla lingua, le persone nella loro maggioranza si rifanno subito a ciò che hanno appreso a scuola, alle regole del “giusto” e dello “sbagliato”, al “buono” e al “brutto”, alle lingue “primitive” e “avanzate”, e altri concetti che non hanno il minimo senso dal punto di vista della scienza contemporanea. Dimostrare che la lingua può essere vista sotto altri angoli, che tutte le manifestazioni del linguaggio hanno ragione di essere e meritano di essere studiate è una sfida per i linguisti.

Entrando nello specifico: la sociolinguistica è una materia ancora giovane, delineata da uno statuto controverso. Qual è la sua importanza relativamente alla ricerca linguistica?

La sociolinguistica cerca di spiegare i fenomeni della lingua correlandoli ai fenomeni sociali. Se le società umane, tutte, sono stratificate, se presentano differenze di classe, di distribuzione sociale del lavoro attribuito a uomini e donne, differenze di fasce d’età, di etnie, di livelli di scolarizzazione formale ecc, tutte queste differenze devono essere riflesse anche negli usi che le persone fanno della lingua. E di fatto lo sono. La sociolinguistica è venuta a provare, grazie al raccoglimento empirico nell’uso autentico, che tutte le varietà hanno una ragione d’essere, che le persone che dicono “x” al posto di “y” non stanno sbagliando, ma semplicemente seguono una grammatica diversa. È impossibile parlare senza seguire regole. Ogni lingua è un insieme di varietà: lingua è un termine collettivo, una parola unica per designare una costellazione di “sotto”-lingue, che sono le varietà sociolinguistiche. Ciò che provoca una qualche reazione negativa al lavoro dei sociolinguisti è esattamente la difesa che noi facciamo del fatto che non c’entra niente attribuire etichette peggiorative alle varietà usate dalle classi sociali meno prestigiose, meno scolarizzate, più povere, ecc. Le élites urbane erudite si rifiutano di ammettere che il loro modo di parlare non è l’unico “giusto”, per questo è così frequente, soprattutto nei media conservatori, l’attacco al discorso della sociolinguistica. Un altro contributo fondamentale della sociolinguistica è quello di dimostrare che proprio nella variazione degli usi sta il germe del cambiamento: le forme varianti, alternative, di dire la stessa cosa sono preannuncio di un possibile cambiamento futuro.

Lei è, tra l’altro, professore universitario e i suoi interessi riguardano anche l’insegnamento del portoghese in Brasile. A partire dall’analisi delle inclinazioni dei suoi allievi, che rappresentano la speranza del futuro della nazione, può darci un pronostico su questo futuro? La norma linguistica continuerà a dettare leggi e preconcetti sociali? O ci sarà un’apertura del sistema alle tendenze della lingua parlata?

In questo esatto momento è difficile rispondere. Con l’elezione e rielezione del presidente Lula, usuario di una varietà linguistica molto distante dalla norma urbana colta di prestigio, abbiamo avuto un avanzamento nella qualificazione della variazione linguistica, tanto più che, durante i suoi governi, decine di milioni di famiglie povere sono uscite dalla povertà e sono entrate nei ceti medi, hanno avuto accesso ai consumi, ai beni culturali e, soprattutto, all’educazione. Mai prima nella storia del Brasile tante persone venute da famiglie umili avevano potuto avere accesso alle università. Questo certamente ha provocato un cambiamento nel paesaggio linguistico brasiliano, con molti usi – considerati fino a poco tempo prima “brutti” e “sbagliati” – ammessi in ambienti fino ad allora chiusi. Poiché questo governo golpista capitanato da un fulgido esempio di criminalità organizzata non ha modo di rimanere al potere per molto tempo, a meno che non si voglia distruggere completamente la nostra società, credo che a breve questo movimento di ascensione delle varietà popolari sarà ripreso, anche perché questi cambiamenti sono proprio inevitabili in qualunque lingua umana viva.

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L'autore

Maristella Petti
Maristella Petti
Maristella Petti, classe 1992, è nata e cresciuta a Bolsena. È formata in lingue (inglese, spagnolo e portoghese), letterature comparate e traduzione. È dottoranda in critica letteraria dialettica presso l'Universidade de Brasília. Tra le sue pubblicazioni, il saggio La resistenza nella poesia nera femminile brasiliana contemporanea (Sensibili alle foglie, 2018) e la traduzione dell’antologia poetica bilingue Encontros com a poesia do mundo II / Incontri con la poesia del mondo II (Editora da Imprensa Universitária, 2018).