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Gabriel Antunes Ferreira de Almeida intervista Teresa Forcades


Teresa Forcades (Barcellona, 1966) è monaca benedettina, medico, teologa femminista e attivista politica; si è specializzata in Medicina Interna a Buffalo (Stato di New York), ottenendo poi un Master of Divinity a Harvard. Ha conseguito un dottorato in Salute pubblica e un dottorato in Teologia Fondamentale a Barcellona; successivamente, un post-dottorato presso la Humboldt-Universität di Berlino, dove ha insegnato Teologia della Trinità e Teologia queer. Nel 2012 ha fondato il movimento politico Procés Constituent per l’indipendenza della Catalogna. La sua popolarità si è imposta all’attenzione internazionale per la sua critica alle industrie farmaceutiche e le sue coraggiose posizioni sia all’interno della Chiesa che nel dibattito politico contemporaneo. Nel 2016 è uscito in Italia il volume Siamo tutti diversi. Per una teologia queer, a cura di Cristina Guarnieri e di Roberta Trucco (http://www.castelvecchieditore.com/siamo-tutti-diversi/)



Quando propone il legame tra amore e libertà, Lei dice che Dio risiede in un spazio creativo. Dunque non siamo in grado di sapere come Dio possa rivelarsi a noi. Nell’esperienza mistica in realtà questi esempi ci sono, anche tra quelli che possiamo annoverare fuori della Chiesa “istituzionale”. Ci sono poi i tentativi di nominare Dio, come fa la teologia. Come vede questo rapporto tra mistica e teologia?

‘Le nostre parole su Dio sono sempre insufficienti, ma mai indifferenti’. Non è la stessa cosa dire che Dio è ‘una madre amorevole’ piuttosto che ‘un giudice implacabile’. Non è la stessa cosa. In entrambi i casi, le nostre parole sono molto lontane dall’ ‘incapsulare Dio’, ma l’effetto che hanno su di noi individualmente e socialmente è molto diverso. E qui la ragion d’essere della teologia. Essendo soggetti fatti di linguaggio, il modo in cui usiamo il linguaggio per parlare della realtà è fondamentale, anche se ci rendiamo conto che la realtà è sempre al di là di ogni parola o concetto. Questo accade con la realtà nel suo complesso e, in particolare, con quella parte della realtà che noi chiamiamo esperienza di Dio. Ciò si verifica anche e soprattutto con l’esperienza dell’amore, della bellezza, della bontà… sono tutti nomi di Dio. Le realtà che danno senso alla nostra vita, che ti danno la pace e ti rendono felice, non possono essere ridotte a parole o concetti. In questo senso la teologia è per definizione una riflessione necessariamente ‘aperta’, una riflessione che usa la ragione senza assolutizzarla. ‘Di ciò di cui non si può parlare correttamente, è meglio tacere’. No, dice la teologia: c’è un tempo per tacere e ve n’è uno per parlare; tuttavia, non dovrebbe esistere nessun momento di assolutizzazione della parola. Teresa di Gesù è una mistica o una teologa? Entrambe le cose contemporaneamente. La buona teologia ha sempre un’ispirazione mistica (aperta, innamorata).

Definire amore come “fare posto” implica perdere la propria individualità? Quale sarebbe il rischio al quale lei fa riferimento?

‘Fare posto’ non significa perdere la propria individualità, ma farla fiorire, sebbene questo sia vero solo se l’atto di ‘fare posto’ è un atto libero. Quando è fatto ‘per dovere’, la persona non fiorisce anzi la sua vitalità si spegne e può diventare rancorosa e triste. ‘Dio ama chi dona con gioia’. ‘Con gioia’ è la chiave. Non si tratta solo di ‘dare’, ma di ‘dare con gioia’. Liberamente. Gioiosamente. Senza nessun obbligo. Ciò è particolarmente importante per le donne, dal momento che ancora prevale in molte società un modello sacrificale dell’amore femminile verso il coniuge, i genitori, i bambini… come se le donne avessero l’obbligo di dare, di darci qualcosa. Ciò che non può essere dato con gioia è meglio non darlo.

Lei dice che nella relazione dobbiamo comprendere il desiderio che abita in noi e che non possiamo essere il centro di questa relazione né assoggettare l’altro allo spazio del proprio. Con questo Lei intende dire che l’elemento più importante della relazione è la relazione stessa?

La teologia trinitaria classica definisce la ‘persona divina’ come ‘relazione sussistente’. La relazionalità, la relazione, rimane vuota se non si aggiunge ‘la sostanzialità’. Così ho capito che non si può ridurre una persona, sia divina o umana, alle loro relazioni. C’è sempre un’irriducibilità personale non trasferibile espressa solo nella relazione, ma che non si esaurisce in essa.

Il movimento che lei propone nasce dalla relazione? Prima dobbiamo sapere ciò che vogliamo per metterci in relazione?

No. Credo di scoprire me stessa nella relazione, nella relazione sprigiono il mio potenziale, cresco come persona, sorprendo me stessa.

Cambiamento e creatività nella vita e nella tradizione. Come giocare all’interno di questa dinamica? Come non tradire nessuno?

Noi la chiamiamo ‘fedeltà creativa’ e penso che sia qualcosa naturale quando non si cerca di essere originali e innovativi tanto per esserlo, ma solo perché autentici. Quando ci incontriamo e discutiamo a cuore aperto su cosa bisogna mantenere e su cosa cambiare, lo spirito di Dio è presente e ci ispira. La comunione ecclesiale è un buon riferimento. Ma succede anche che un profeta si trovi da solo a difendere qualcosa per cui la comunione ecclesiale ci metterà cinquecento anni per arrivare al suo riconoscimento.

Come possiamo non usare la categorizzazione quando parliamo della persona? Come possiamo renderlo più trasparente?

Utilizziamo sempre categorie e concetti, questo è inevitabile, ma ci sono forme di uso che sono chiuse e forme che sono aperte. Ad esempio, la mistica spesso usa un linguaggio paradossale, (‘muoio perché non muoio’) o poetico (Dio si esprime in un rovo che arde senza estinguersi). Gesù ha usato parabole. Il problema non sono le categorie e i concetti, ma i sistemi concettuali chiusi in se stessi.

Dichiarare la centralità nell’unicità non rischia di fare della differenza un assoluto?

L’espressione ‘unità nella diversità’ non vuol dire per me che si parte con la differenza per finire nell’unità, ma a maggiore diversità, ancor più unità potenziale. Il contrario dell’unità non è la differenza ma la divisione. La divisione è il rifiuto della differenza. L’unità non può essere fusione della differenza. Questa sarebbe l’uniformità. No. L’unità nella diversità implica la natura simultanea di entrambe. Più diversa è da te, più ricca e interessante può essere la nostra unione e ancor più forte e solida se si verifica (se superiamo la paura del diverso e avviene un’apertura reciproca). Così una coppia, una famiglia, una comunità o un gruppo umano qualsiasi è più solido e dura più a lungo se l’unità si basa sul diverso, altrimenti è pura uniformità.

Quando lei parla di mettere al posto dei diritti le necessità ci si chiede se ci siano limiti per la necessità? Come conciliare le necessità diverse e conflittuali?

I desideri soggettivi possono essere infiniti e irrealizzabili, le necessità possono essere bisogni insoddisfatti, ma non sono mai infiniti. Sono oggettivi e sono comuni a tutti gli esseri umani. Ci sono bisogni materiali (cibo, bevande, aria respirabile, temperatura compatibile con la vita, protezione dalla violenza …) e poi ci sono i bisogni dell’anima, che sono anche oggettivi e comuni a tutti (libertà, sicurezza, necessità di non essere ingannato, la necessità di avere responsabilità…). I conflitti possono essere impossibili da risolvere a livello individuale se esiste un’ingiustizia strutturale. Per esempio, come posso risolvere il conflitto tra la necessità di rimanere a prendermi cura di mia figlia malata e la necessità di andare a lavorare in un sistema lavorativo che non permette assenze per malattia dei figli?

Quali sono gli altri interlocutori che Lei ritieni importanti per il dialogo contemporaneo con il cristianesimo?

L’interlocutore principale del cristianesimo è il cuore umano alla ricerca del senso. Non mi interessa il cristianesimo come un sistema di pensiero contrapposto ad altri. Mi interessa solo come tradizione viva in grado di rispondere al cuore inquieto: che senso ha la mia vita? Io chi sono?

Nel momento in cui diventiamo adulti mi sembra che Lei dica che manchi un punto d’arrivo, ma d’altro canto avremo un punto di partenza. Cosa fa perdere questo punto d’arrivo nel passaggio dall’infanzia all’età adulta? Con questo salto nel vuoto, l’essere per Lacan è sprovvisto di una teleologia?

Sì, penso che ci sia un punto di arrivo, ma non è uno spazio chiuso, è la comunione con Dio, che è già possibile sperimentare nel tempo e nello spazio in modo rudimentale. Per esempio, ogni esperienza di amore autentico, per quanto breve, è un punto di arrivo ed è vissuto come tale, come qualcosa da essere prolungato in maniera indefinita. Lo stesso vale per l’esperienza della bellezza. Per Lacan, il salto nel vuoto non si trova nell’abbraccio amorevole di un Dio che crea uno spazio di libertà, ma nella capacità umana di creare se stessi. Credo che il cristianesimo possa dialogare con la prospettiva lacaniana in quanto l’abbraccio di Dio è proprio, a mio avviso, ciò che rende possibile che io riesca a creare me stessa, nel senso della frase di Agostino: ‘oh, uomo, sei stato creato senza di te, ma non ti salverai senza di te’. Il Dio in cui credo non potrà mai sostituire la mia libertà. La sostiene.

Mi sembra che Lei intenda eliminare una linearità nel processo di soggettivazione indicando l’opzione queer. Ma nel momento in cui Lei indica l’opzione queer, non sta già indicando una linea da seguire?

Per me ‘queer’ non è un’etichetta che si può accostare alla comunità LGTB. È limitata, come qualsiasi parola e concetto, ma ciò che indica non è una linea da seguire ma proprio la sua assenza. È come la parola ‘originalità´. Non indica una struttura, ma la sua assenza.

Lei fa riferimento alla Lettera ai Galati 3,28. Se Dio guarda l’unicità nostra ma non guarda se siamo maschio e femmina, ebreo o greco… Queste aggettivi non farebbero anche parte della nostra unicità? Come possiamo concepire questa persona davanti a Dio se non anche con gli aggettivi che porta con sé?

Gli aggettivi sono importanti, ma non si può identificare una persona con nessuno di essi né con la loro somma. Se li eliminiamo, la persona scompare, ma non la si può identificare solo con essi. La persona deve respirare sempre, deve essere consapevole che esiste uno spazio sacro tra ciò che conosce di se stessa e può nominare e ciò che è all’interno di essa stessa.

Il metodo del 7×7 è molto interessante. Lei ritiene che esso non sarebbe possibile per un paese di dimensioni continentali. Dunque, come vede questo aspetto di democrazia partecipativa in paesi con grandi dimensioni? Internet può essere una soluzione per questi casi, o allontana le persone dalla possibilità di guardare le altre in faccia e di deliberare?

L’efficacia o la fattibilità del 7×7 non dipende dalle dimensioni di un paese o continente. È realizzabile su larga scala, ma comporta un cambio di mentalità. Significa accettare che i problemi sono e rimarranno complessi e non avranno alcuna soluzione ideologica. Non ci sono ricette. Solo l’assunzione di una responsabilità condivisa verso la vita collettiva (la democrazia partecipativa e le sue nuove forme istituzionali) può creare le condizioni che consentono un futuro migliore. Si sta già iniziando a vedere qualcosa con il movimento delle ‘città di transizione’, per esempio.

Lei rivolge tante critiche all’Europa perché presenta due velocità. Da quello che ho capito, la Sua Europa è una Europa disuguale. Disuguale in quale termini?

Bisogna evitare che in Europa si verifichi il sequestro della democrazia. Evitare che le decisioni siano prese nelle istituzioni senza un adeguato controllo democratico, che è ciò che accade ora. Evitare che il potere economico sia più potente del potere politico.

Potrebbe spiegare meglio la risignificazione del nazionalismo? Non è xenofobo, ma come entrerebbe nella dinamica del multilateralismo? Unità più piccole, dunque più numerose, non hanno più difficoltà di risolvere i problemi che sono globali?

In Europa esiste la paura di un nazionalismo violento perché abbiamo una lunga storia di guerre nazionali. Tuttavia, abbiamo vissuto in pace non quando le identità nazionali sono scomparse (questo non è mai accaduto), ma quando hanno rispettosamente dialogato tra di loro, partendo dalla diversità e dalla volontà di costruire un progetto comune. Questo è ciò che è successo nel contesto della guerra fredda, che ovviamente non era una situazione ideale, ma ha permesso un certo equilibrio di forze. Con la caduta del muro di Berlino, piuttosto che la pace annunciata è sopraggiunta in pratica la terza guerra mondiale. No, non credo che l’indebolimento dell’identità nazionale differenziata porti ad un mondo più pacifico. Credo che coltivare le differenze culturali e politiche nel contesto della democrazia partecipativa e della democrazia economica (cooperativismo, evitare il lavoro salariato senza una reale partecipazione al processo decisionale) può creare legami di fraternità e di solidarietà più forti. Anche a livello politico, credo nell’unità nella diversità e rifiuto l’uniformazione.

Lei afferma che l’aborto non è giusto, ma essendo un male minore lo difende. Perché difendere una cosa che non ritiene giusta?

Non sostengo l’aborto. Sostengo la depenalizzazione dell’aborto. La depenalizzazione (fino a 14 settimane) credo che sia giusta, perché nelle prime settimane è spesso impossibile distinguere un aborto spontaneo da un aborto provocato. Se l’aborto è considerato reato, si dovrebbe perseguire le donne che lo realizzano e coloro che le coprono. Ciò crea una pressione sociale insopportabile sulle donne che abortiscono in modo spontaneo. In El Salvador queste donne finiscono in carcere perché qualcuno le denuncia, spesso il medico per evitare che a suo volta lo denuncino.

Perché vede la maternità surrogata come una mercificazione del corpo della donna e non vede l’aborto come mercificazione del corpo del bambino? Il bambino non dovrebbe avere la necessità di nascere? Perché la necessità della madre è più importante della necessità del bambino di nascere? Lei ha detto che considera doveroso porre un limite a chi non ha rispetto per l’umano. Ma chi è l’umano, la madre o il bambino?

Io sono contro la maternità surrogata per molte ragioni che hanno a che fare con la commercializzazione e gli abusi, ma c’è una ragione che si applica a tutti i casi, compresi quelli in cui nessun caso intermedia il denaro: penso che non si debba spezzare in modo volontario il legame tra la madre biologica e il bambino. Per quanto riguarda l’aborto, le ho già detto che non mi sembra giusto. Mi sembra giusta la depenalizzazione come male minore.

Lei sostiene che la morale non si fonda. Non si tratta di un’apertura al relativismo?

Dove l’ho detto? Forse mi riferivo a Simone Weil quando afferma che il fondamento della morale è divino, vale a dire che non possiede nessun fondamento razionale, deduttivo. Si basa sul rispetto per la sacralità della vita e dell’altro che tutte le principali religioni sostengono.

Nelle società plurali attuali, la morale è spesso basata sulla regola d’oro: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso. E sulla sua formulazione positiva: fa’ agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te. Anche questo ha i suoi limiti perché ci sono persone che volontariamente desiderano che si faccia loro danno o che li si sottometta (ad esempio, il masochismo).

Mi sembra che Lei si allinei sulle orme di una teoria post-coloniale, dove viene enfatizzata flessibilità, sradicamento, nomadismi, ibridismi, flussi. Dunque, anche se allontaniamo della vecchia eurocentrica filosofia del soggetto, propria dell’umanesimo moderno, e ci avviciniamo ad una filosofia dell’anti-umanesimo postmoderno, il rischio non sarebbe quello di fare una apologia del tardo capitalismo globale?

Mi identifico con la tradizione della contestualità morale cristiana piuttosto che con la teoria post-moderna che, per inciso non è più ‘una teoria’ ma molteplici e spesso contrastanti. Secondo la tradizione della contestualità morale cristiana la verità e la bontà oggettivamente esistono, ma non è permesso alla gente conoscere la verità e la bontà nella loro assolutezza; da qui la necessità di contestualizzare, se non relativizzare, sempre il proprio punto di vista e la necessità di non renderlo mai assoluto.

Lei non ammette che le tre Persone della Trinità siano complementari. Mi sembra effettivamente giusto pensare che il Padre sia incompleto perché è Dio a pieno titolo. E così per il Figlio e lo Spirito Santo. Ma il Padre, anche nel linguaggio, è Padre perché deve avere un Figlio per esserLo. Come vede questo tipo di relazione? È complementare? E come arriva a passare da affermazioni di teologia trinitaria ad affermazioni sull’uomo? C’è qualche giustificazione per pensare che il modo di concepire le persone divine e le loro relazioni possa avere un impatto sul modo di concepire le persone umane e le loro relazioni?

Il rapporto tra il Padre e il Figlio non è complementare, nel senso che a uno manca ciò che l’altro ha. Entrambi sono persone divine e perciò, come ho detto sopra, sono ‘relazioni sostantive’: il Padre non è senza il Figlio, né il Figlio è senza il Padre, né sono entrambi concepibili senza lo Spirito. La loro forma di relazionarsi è costitutiva, ma lo è in un senso personale che non può essere classificato come ‘complementarità’: il loro vincolo non è strumentale, è personale, gratuito. Il loro rapporto è reciproco, ma non complementare. Tutto quello che il Padre possiede, lo possiede il Figlio. Il Figlio è immagine del Padre, cosicché nel Vangelo di Giovanni, Gesù dice: ‘Chi ha visto me, ha visto il Padre ‘ (Gv 14,9). Gesù non dice: ‘A chi mi ha visto, gli manca qualcosa, perché il Padre ha qualcosa che non ho e mi è complementare’. Per quanto riguarda il rapporto tra le persone divine e le persone umane, ci si basa sulla richiesta che Gesù rivolge al Padre in preghiera prima della Passione (Gv 17). Non solo una, ma quattro volte intercede Gesù verso suo Padre per ‘poter essere noi una cosa sola, come lui e il Padre sono una cosa sola’ (Gv 17, versetti 11, 21, 22 e 23).

(traduzione di Marco Paone)

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L'autore

Gabriel Antunes Ferreira Almeida
Gabriel Antunes Ferreira Almeida
Gabriel Antunes Ferreira de Almeida è dottorando in filosofia all’Università degli Studi di Perugia. Suo progetto lavora con il pensatore Michel de Certeau e il problema dell’intersoggettività. Ha fatto la sua laurea magistrale nell’Istituto Universitario Sophia (FI) in Fondamenta e Prospettive per una Cultura dell’Unità con Specializzazione in Ontologia Trinitaria con il professore Piero Coda. Ha condotto la sua tesi sull’intersoggettività con enfasi nel problema dello “Straniero”.
Ha collaborato con il network United World Project e oggi collabora con il Dipartimento di Ontologia Trinitaria dell’Istituto Universitario Sophia.