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Roberta Alviti intervista Francisco Rico

Francisco Rico (Barcellona, 28 aprile 1942) è Professore Emerito di Literaturas Hispánicas Medievales dell’Universitat Autònoma di Barcellona e, dal 1986, membro della Real Academia Española. Si è dedicato principalmente allo studio della letteratura medievale e del Siglo de Oro, con una particolare attenzione a Petrarca, il primo Umanesimo in Spagna e in Italia, il Lazarillo de Tormes e il Quijote.
Dirige la collana “Biblioteca Clásica” della Real Academia Española, nata in seno alla casa editrice Crítica di Barcellona. Nell’ambito di questa collana è stata pubblicata, nel 2015, la sua edizione de El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha. Nel maggio dell’anno successivo, il professor Rico ha fatto parte della delegazione accademica che ha presentato i due volumi a papa Francesco in Vaticano.

Oltre che della Real Academia Española, è membro, fra le altre, l’Institut de France en la Académie des Inscriptions, la British Academy, della Accademia dei Lincei e Socio Corrispondente dell’Accademia della Crusca; ha ricevuto la laurea honoris causa dalle università di Bordeaux, Napoli, Valladolid e Bologna. Nel 1998 ha vinto il XII Premio Internacional Menéndez Pelayo, nel 2004 il Premio Nacional de Investigación Ramón Menéndez Pidal, nel 2006 il Premio di storia letteraria “Natalino Sapegno”, nel 2013 il Premio Internacional de Ensayo “Caballero Bonald” e il Premio Internacional “Alfonso Reyes” del Colegio de México; nel dicembre del 2015, è stato insignito, dal Consiglio dei Ministri del Governo Spagnolo, della Medalla de Oro al Mérito en las Bellas Artes e nell’aprile del 2016 ha ricevuto, a Roma, il Premio De Sanctis, per I venerdì del Petrarca (Adelphi, 2016). Oltre ai lavori citati, tra le sue innumerevoli pubblicazioni ricordiamo: La novela picaresca y el punto de vista, (Seix Barral, 1970), El pequeño mundo del hombre, (Castalia, 1970; Alianza, 1986 e Destino, 2005), Breve biblioteca de autores españoles (Seix Barral, 1990), Texto y contextos: estudios sobre la poesía española del siglo XV (Crítica, 1991), El texto del Quijote (Destino, 2006), l’edizione de El Caballero de Olmedo di Lope de Vega (Cátedra, 1984), del Lazarillo de Tormes (Cátedra, 1986 e Real Academia Española, 2011); ha curato inoltre l’edizione dei nove volumi dell’Historia y crítica de la literatura española (Crítica, 1980-2000); nel marzo di quest’anno ha pubblicato Anales cervantinos, volume nel quale si raccolgono gli articoli del 2015 e 2016 dedicati all’anniversario della pubblicazione della seconda parte del Quijote (1615) e della morte di Miguel de Cervantes (1616), pubblicati su El País, quotidiano con il quale collabora abitualmente.

Professor Rico, Lei è membro della Real Academia Española, della Accademia dei Lincei e di altre istituzioni di diversi paesi europei. Qual è il ruolo che tali istituzioni possono svolgere nella diffusione e promozione della cultura umanistica?

In genere, l’obiettivo delle accademie è quello di giustificare la loro stessa esistenza, di dare l’idea, di far finta [in italiano nel testo, NdT] di fare cose che forse non fanno, per continuare ad avere sovvenzioni e perpetuare la propria storia. Il caso de la Real Academia Española è diverso: l’Academia ha un impegno con tutti i parlanti di lingua spagnola, che, contrariamente a quello che farei io, ne hanno un gran rispetto. In Spagna e in America svolge le funzioni di arbitro in molte diatribe relative al lessico e all’ortografia, ma la stessa cosa vale per tutto il mondo ispanico, nel quale c’è così tanta diversità che non ci fosse la guida della Academia si potrebbe perfino arrivare a una divisione linguistica come accadde con il latino volgare; ha una funzione unificante che contrarresta l’eterogeneità con cui lo spagnolo si manifesta nel mondo; e, soprattutto, guarda con molta attenzione ai fenomeni linguistici dell’America Latina. Fuori dalla Spagna, l’istituzione che sta acquisendo un ruolo molto simile a quello Real Academia, è l’Accademia della Crusca che, ultimamente, è molto attiva anche attraverso le piattaforme sociali.

Lei ha dichiarato: “Posso dire di essere stato tutta la vita soprattutto studioso di Petrarca”. Come è nato il suo interesse per Petrarca?

Io non ho alcun interesse per Petrarca. Credo, inoltre, che se lo avessi conosciuto di persona non lo avrei sopportato; l’ho già raccontato nella conferenza “Petrarca, hoy”, presentata nel Congresso tenutosi nel 2004 in occasione del settimo centenario della sua nascita, e leggibile negli Atti pubblicati dall’Accademia del Lincei. Ho cominciato a dedicarmi a Petrarca perché i miei maestri, Martín de Riquer, José Manuel Blecua y José María de Valverde, lavoravano per José Manuel Lara, il fondatore della casa editrice Planeta. Lara ebbe l’idea di comprare i diritti della “La Pléiade”; Riquer, Blecua y Valverde lo convinsero che non ce n’era bisogno, perché loro avrebbero potuto creare una collana nella quale pubblicare tutti i grandi classici, in primis Shakespeare e Goethe. Di Petrarca, Riquer volle pubblicare, oltre alla poesia, anche il Secretum, perché, durante i suoi studi giovanili, aveva incontrato reminiscenze di questa opera in un autore catalano del Prerrenacimiento, Bernat Metge. A me, che in quel periodo mi dedicavo al latino medievale, oggetto dei primi corsi che tenni all’Università, affidarono la poesia in volgare e il Secretum di Petrarca. Già all’inizio del lavoro, intuii quali erano i problemi fondamentali della sua opera e ho continuato a leggerlo e a studiarlo per tutta la vita per cercare di risolverli.

E perché crede che fosse un uomo insopportabile?

Certamente fu un uomo di valore, ma insopportabile, un pesao. La sua poesia è monotematica e ripetitiva. Credo che sia più interessante come prosatore che come poeta. In una delle mie prime pubblicazioni, “Petrarca, o las perplejidades de la crítica”, in Cuadernos Hipanoamericanos, contraddicendo Umberto Bosco, proposi, appunto, l’idea di un autore, nelle cui opere in prosa, si rileva un’evoluzione nel corso degli anni. Bosco, che conobbi personalmente, aveva parlato di un “Petrarca senza storia”, “immobile nella sua irrisoluzione”. Per quanto mi riguarda, invece, sono convinto che c’è un Petrarca che si evolve, che cambia: il Petrarca del 1340 è completamente diverso da quello del 1360. Tutti i miei studi su Petrarca hanno lo scopo di mostrarne la trasformazione, anche nelle opere meno studiate. E credo che i miei studi sulla cronologia del Canzoniere abbiano avuto una considerevole risonanza.

Che differenza c’è tra il suo atteggiamento critico-metodologico e quello dei petrarcologi italiani?

Gli italiani, per lo più, sono filologi nel senso italiano della parola; credono che tutto sia verificabile attraverso i testi: per esempio, lavorano molto, e molto bene, sui codici extracanonici del Canzoniere nel tentativo di identificare versioni anteriori a quelle conosciute. Insomma, hanno una fiducia nel “codice” che io non ho. Personalmente, credo che un codice miscellaneo venga disposto e organizzato secondo gli interessi di chi lo compila; d’altra parte, credo che il primo Canzoniere sia stato unicamente una struttura mentale, che non ebbe mai un’esistenza “cartacea”. Una questione sulla quale abbiamo pochi dubbi è l’atteggiamento di Petrarca nei riguardi dell’immagine femminile e la sua relazione con Laura, o per meglio dire, le Laure, perché credo d’intuire che furono varie le figure femminili che ispirarono la sua poesia amorosa.

Si potrebbe dire che Lei è una delle ultime figure di intellettuale spagnolo con interessi panromanzi? 

Quando conobbi Marco Santagata, un caro amico, non sapeva chi fossi, né da dove venissi; io glielo dissi in maniera molto coincisa: “io sono filologo romanzo, punto” [in italiano nel testo, NdT] e tutto fu chiaro. Ormai ne esistono molto pochi nel senso lato del termine: sia i francesi che gli italiani hanno ancora un livello molto alto; in Spagna si lavora ancora con una prospettiva ampia, molto più ampia, per esempio, di quella che si adotta, per esempio, negli Stati Uniti, ovvero dove si produce la maggior parte degli studi di letteratura medievale spagnola. I miei primi interessi di studioso, come ho detto, erano rivolti al latino medievale e per questo motivo cominciai a dedicarmi al Petrarca latino; ma la mia formazione è avvenuta nell’ambito della letteratura romanza: ho lavorato anche su Marcabruno e su altre questioni relative ai primi testi in volgare. Attualmente, il mio obiettivo è quello di portare a termine El primer siglo de la literatura romance, nel quale mi propongo di parlare di come si cominciò a comporre e a scrivere nelle lingue vernacole. Sarà, a Dio piacendo, il mio libro postumo.

Quali sono i grandi intellettuali e filologi spagnoli del passato con cui ha avuto relazioni umane ed intellettuali e che hanno contribuito alla sua formazione?

Dunque, io mi sono fatto le ossa [in italiano nel testo, NdT] con Riquer y con Valverde; quest’ultimo, innanzitutto, era poeta e, per questo motivo, ebbe una grande influenza sulla mia formazione, e in un senso molto ampio. Io mi considero, sebbene non mi sia occupato dei suoi stessi argomenti, della scuola di Menéndez Pidal.

Lo ha conosciuto personalmente?

Si, un giorno del 1964, a Barcellona: mi piacque moltissimo. Gli parlai di una mia teoria su un romance del ciclo Los Infantes de Lara: io credevo che ne esistesse una versione orale, ma lui non era d’accordo. Nei mezzi di comunicazione la sua figura è messa in relazione soprattutto con Cervantes e il Quijote. Non avevo mai lavorato su Cervantes, ma arrivò il momento di preparare l’edizione critica per la collana di “Biblioteca clásica”, che, a quell’epoca era pubblicata in seno alla casa editrice Crítica e che ora è passata alla Real Academia Española, per diventare immortale [e mentre lo dice sorride ironicamente, NdR]; mi chiesi chi avrebbe potuto fare un lavoro che fosse all’altezza della collana. Feci varie proposte: alcune non furono accettate, di altre non ero convinto e allora decisi di farla io stesso. Sono, sebbene non lo sembri, una persona modesta e mi piace continuare a imparare. Mi sono documentato sul metodo di lavoro degli studiosi che se ne erano occupati; ho letto la bibliografia inglese su Shakespeare e ho appreso che la tradizione a stampa è completamente diversa da quella manoscritta e ha delle peculiarità proprie: insomma cercai la bibliografia disponibile e imparai il mestiere. Alle modalità di trasmissione dei testi a stampa mi sono dedicato per vari anni e, tuttora, continuo a dedicarmici. In un mio lavoro recente ho segnalato che in una singola pagina del Quijote possono esserci sette o otto sequenze di testo attribuibili agli stampatori, aggiunte per necessità tipografiche. Nella terza edizione, del 1608, ho localizzato una sequenza di circa 15 righe che non sono di Cervantes, aggiunte durante il processo di stampa. Per quanto riguarda la “filologia dei testi a stampa”, debbo molto ai lavori del grande Jaime Moll. Ho anche un gran debito con Neil Harris, uno studioso di origine ugandese che conosce meravigliosamente la stampa italiana del XVI e XVII; quest’ultima, oltre a peculiarità proprie, possiede delle caratteristiche simili a quelle della stampa spagnola coeva.

Ritiene che la rinnovata popolarità di Cervantes e del Quijote si debba al suo lavoro di ricerca e al suo prestigio personale e accademico?

Spero proprio di no. Credo, però, che il mio prestigio personale, forse, abbia contribuito ad avere fiducia nel mio testo.

Non pensa che negli ultimi tempi l’interesse per Cervantes sia diventato una vera e propria ossessione? Mi riferisco soprattutto a tutte le risorse impiegate per ritrovarne i resti.

Posso capire che ci sia nei confronti di Cervantes un certo culto feticista, ma mi sembra un interesse morboso, sproporzionato. Le ripeto un’affermazione, molto forte, che appare in un articolo che ho scritto per El País: “Il cadavere è l’escremento della vita; i libri, le opere, invece, sono i frutti e i fiori che rimangono intatti e godibili”.

Lei mi ha detto che Petrarca era insopportabile. Invece, come crede che fosse Cervantes?

Cervantes, che non appare nel Quijote, tuttavia, è presente, in una maniera o nell’altra, in ciascuna delle sue pagine. Credo che fosse un uomo distante, non particolarmente incline al riso, ma con una propria allegria interiore, che guardava alle cose con ironia e scetticismo, affabile, senza dubbio, e cortese. Borges diceva che gli sarebbe piaciuto moltissimo fare una chiacchierata con Cervantes.

Quale aspetto di Cervantes e della sua opera deve ancora essere studiato? E, secondo Lei, c’è da aspettarsi qualche scoperta significativa che lo riguardi?

Un altro dei miei maestri, il grande Giuseppe Billanovich, diceva che cercando bene, si sarebbero trovate perfino le lettere di Dante a Beatrice… Ci sono varie commedie di Cervantes delle quali abbiamo solo notizia o delle quali conosciamo solo il titolo: può essere che, così come è apparsa La conquista de Jerusalén, ritrovata dal compianto Stefano Arata, anche altri testi teatrali, in futuro, vengano alla luce. Sarebbe importante, certamente, ritrovare qualche documento che testimoniasse che il Quijote ebbe, dapprima, la forma di una miscellanea di vari testi che Cervantes aveva scritto. Io credo, infatti, che il Quijote ebbe origine da vari materiali sulla sua prigionia, che, forse, in un primo momento aveva destinato alle Novelas ejemplares… Dovette trattarsi di una sorta di calderone di materiali eterogenei ai quali diede forma gradualmente.

Pertanto, Lei non crede che Cervantes avesse concepito il Quijote come un’opera così ampia?

No, plasmò l’opera poco a poco, ricalcando, potremmo dire, un lemma biblico molto amato da Petrarca: “Colligite quae superaverunt fragmenta, ne pereant”; e il successo della Primera parte lo obbligò, letteralmente, a scrivere la Segunda.

Cambiando argomento, come si spiega la poca considerazione che, tanto in Spagna come in Italia, si ha nei confronti degli studi umanistici, in particolare verso la filologia?

Gli studi umanistici stanno vivendo un’epoca di crisi: i libri sono stati rimpiazzati dai mezzi di comunicazione, la televisione, il cinema, le serie televisive, la qual cosa era inevitabile; tuttavia si mantiene ancora in molti un interesse – ed è più vivo che mai – per le cose dello spirito.

Forse sarebbe necessario cambiare la metodologia d’insegnamento e il modo di essere professore di discipline umanistiche?

No, si deve cambiare la maniera di essere alunno. A me sembra che i ragazzi frequentino l’Università con molta buona volontà, ma non hanno punti di riferimento. Il mio maestro Martín de Riquer diceva: “Io non ho mai avuto bisogno d’imparare che Romeo and Juliet era un’opera di Shakespeare; l’ho sempre saputo”. In passato, c’era tra la cultura alta e la cultura media una permeabilità che non esiste più.

Tra le sue pubblicazioni c’è l’antologia Mil años de poesía española nella quale, secodo quanto ha dichiarato Lei stesso, ha inserito una sua poesia, “travestendola” da poesia del Siglo de Oro. Lei si considera poeta?

Sono un grande rimatore e ho un orecchio eccezionale; ma non sono un poeta, no.

Qual è il suo personale canone di poeti spagnoli? Quali autori giudica imprescindibili?

Lope era un grande poeta, però incostante; e tuttavia, quando è un buon poeta è il migliore: migliore di Góngora e migliore di Quevedo, il migliore di tutti. In ogni caso, ci sono quattro poeti che sono stati apprezzati ininterrottamente durante i secoli: Jorge Manrique, Garcilaso de la Vega, fray Luis de León e, non un poeta, ma un testo, l’Epístola moral a Fabio, di Andrés Fernández de Andrada. Góngora, e in qualche modo anche Quevedo, fu dimenticato per oltre due secoli; però, questi quattro poeti che ho menzionato non hanno mai conosciuto periodi di oblio, né i loro testi hanno risentito del trascorrere del tempo; fra loro, quello che mi piace meno è fray Luis de León: lo trovo un poeta troppo “sapiente”, troppo artificioso. Inoltre, ho avuto la fortuna di crescere fra poeti, quelli della “Escuela de Barcelona” degli anni Cinquanta. Ammiravo infinitamente Jaime Gil de Biedma, anche lui mio grande amico, anche se ora lo reputo poeta di minor valore rispetto a quello che credevo e rispetto a quello che ancora molti credono. E sono stato anche amico di Carlos Barral che, sospetto, sia stato un poeta migliore di Jaime, e di José María Valverde, altro mio maestro, uomo di grande cultura e intelligenza.

Un’ultima domanda: come commenta il fatto che ormai è abituale trovarla come personaggio di finzione nei romanzi per esempio, di Javier Marías, Arturo Pérez-Reverte o Javier Cercas?

Ce ne sono anche altre, ma non le dirò quali. È un divertissement, che implica, tuttavia, qualche problema: vale a dire che comincio a essere più fittizio che reale e coloro che non sanno chi io sia mi conoscono solo come personaggio di questi libri. L’unica cosa che posso dirle con certezza è che tutti i miei pendants romanzeschi mi rappresentano molto al di sotto delle mie possibilità…

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L'autore

Roberta Alviti
Roberta Alviti
Roberta Alviti è ricercatore di Letteratura Spagnola presso l’Università degli Studi di Cassino e del Lazio meridionale; le sue ricerche sono dedicate principalmente allo studio della tradizione manoscritta del teatro spagnolo del Siglo de Oro e all’edizione di testi teatrali. Il campo di indagine privilegiato è stato quello delle commedie scritte in collaborazione fra più autori, con una particolare attenzione alla problematica della strategia compositiva e agli aspetti tematico-stilistici. Si è interessata anche allo studio del linguaggio paremiologico nelle commedie di Lope de Vega e di Calderón de la Barca e ha curato la traduzione italiana di Il freudismo, testimonianza dell’uomo contemporaneo di María Zambrano; attualmente si dedica allo studio della ricezione italiana delle piezas di diversi drammaturghi spagnoli, in particolare Agustín Moreto e Calderón de la Barca.

Tra i suoi lavori: I manoscritti autografi delle commedie del ‘Siglo de Oro’ scritte in collaborazione. Catalogo e studio, per i tipi di Alinea e l’edizione critica de La Burgalesa de Lerma, di Lope de Vega, nell’ambito del progetto PROLOPE, dell’Universitat Autònoma di Barcellona