conversando con...

Marco Vitale intervista Elio Pecora

(foto di Dino Ignani)

Elio Pecora (Sant’Arsenio, Salerno, 1936) vive a Roma dal 1966. Ha pubblicato libri di poesia, di prosa, di saggistica, testi teatrali, poesie per l’infanzia. Ha curato antologie di poesia italiana contemporanea e raccolte di fiabe popolari. Ha collaborato a lungo per la critica letteraria a quotidiani, settimanali, riviste e ai programmi culturali della Rai. Rifrazioni (Milano, Mondadori, 2018) è il suo ventesimo libro di poesia.

Elio, questa tua nuova raccolta di poesie, Rifrazioni, esce a poca distanza da un volume di racconti, Il libro degli amici (2017): un resoconto partecipe, e dunque affettuoso, ironico e velatamente amaro di una civiltà letteraria che sembra essersi dissolta, e che ti ha visto protagonista insieme ad alcune delle personalità notevoli della cultura italiana degli ultimi decenni. Questi due libri stanno insieme, si guardano e vorrei dire si toccano. Un’intera, bellissima sezione di Rifrazioni, ripropone alcuni nomi importanti del Libro degli amici, a cui tu dedichi delle poesie / ritratto che sono tra le più significative della raccolta. Vorrei chiederti quanto ha contato per te essere poeta in un contesto vivificato dagli scambi quotidiani, dalla condivisione di letture, idee, progetti e al tempo stesso fortemente articolato e appassionato nelle sue discussioni.

Venivo da Napoli, dove avevo vissuto anni di studi e di letture, anche di malinconie e di inquietudini. Avevo compiuto da qualche mese trent’anni e a Roma trovai in me stesso un’allegria e una curiosità che non mi conoscevo. M’accadde, prima in una libreria allora notissima, in cui lavorai per alcuni mesi, di incontrare diversi scrittori ed artisti, ne vennero le prime amicizie e frequentazioni. Era un tempo ancora assai vivo di Roma, non funestata dal traffico delle auto, dalle folle trabocchevoli, da un compiaciuto disfacimento. I teatri erano attivissimi quanto i cinema d’essai. Era possibile, anche con poco denaro, mangiare ogni giorno in trattoria e trattenersi nei bar del Centro con gli amici. Letterati, pittori, musicisti, registi, attori, si ritrovavano quotidianamente, discorrevano di letture e di scritture, di spettacoli e di progetti, di amori e di tradimenti, mai di commerci e di scambi. Era una compagnia composita che poteva anche essere feroce con gli sprovveduti e con gli arrivisti. Da parte mia avevo fin dalla prima adolescenza avuto i miei innamoramenti letterari, che andavano dai poeti latini a Leopardi, da Virginia Wolf a Henry Miller, da Max Frisch a Bertrand Russell. Dunque mi portavo dentro confronti e fantasmi insuperabili. Estraneo ai seguiti e alle famiglie, negato alle alleanze e alle obbedienze, ho soprattutto goduto – da gran parte dei miei amici “romani” – di un sicuro durevole affetto. È indubbio che amicizie e frequentazioni hanno reso più chiare le ragioni delle mie scritture e delle mie scelte. Ho vissuto a lungo fra persone di cui sentivo la forte affinità e che non esito a definire compagni di un viaggio anche aspro e difficile, ma il solo che ho voluto e potuto compiere. Vale aggiungere che in quelle compagnie di amici erano vivi per l’altro l’interesse e la curiosità: che resistevano anche agli scontri e alle mai definitive nemicizie. È innegabile che si trattava di una comunanza nel nome dell’intelligenza e della cultura.

 

La raccolta che precede Rifrazioni, uscita nel 2007 sempre per lo “Lo Specchio” Mondadori, si intitolava Simmetrie. Un titolo che rimanda a una misurazione esatta da parte di chi osserva, nello stabilire proporzioni e corrispondenze. Rifrazioni – mi soffermo semplicemente sulla parola – rinvia piuttosto a una visione mobile, che cattura lo sguardo in un tempo illusivo; il riflesso colpisce la retina e non è detto che lo ritroveremo. Questi titoli non sono certo casuali, e vorrei chiederti se da essi partendo si può già cogliere un tragitto della tua poesia, un approfondimento tematico che chiama in causa, in ragione di una possibile mobilità dello spazio, anche la tua idea del tempo.

In quel libro, Simmetrie, andando al di là dell’ossimoro, già presente in Leopardi, e insistito nelle opere di Saba e di Penna, esprimevo, o tendevo a esprimere, non un contrasto né un accordo, ma una coesistenza di “opposti”. Molto presto nella mia esistenza ho saputo che bellezza e bruttezza, gioia e pena, si mescolano e si confrontano ininterrottamente. Certo di questo si prende coscienza per un più di attenzione e di tensione. La nuova misura, di cui scrive Nietzsche, mi ha già nella prima giovinezza portato a un’accettazione più larga e certo più umana di quel che chiamiamo mondo. Separazioni nette e catalogazioni sicure mi sono parse molto presto come pericolose bugie. Perché si possa convivere con il disagio, finanche con la tristezza, bisogna non dimenticare che basta sollevare lo sguardo e dal pozzo scuro intravedere una luce; così come non dovremmo mai dimenticare che la maggior luce ci appare come tale soltanto se veniamo dall’ombra e dal buio. Una sezione di Simmetrie, “Per altre misure”, è il dialogo frammentato di una coppia che non smette di interrogarsi, ma anche di cercarsi fuori delle dominanti stretture, prima che sociali, mentali. Nel nuovo libro, Rifrazioni, quella coesistenza si è compiuta, tanto da essere vissuta nella quotidianità da una terza persona non più testimone di un altro ma di se stessa. A citarmi, basti “la gioia… che forse non era più di uno stordimento”, e “la voglia testarda di restare” che resiste nella più cupa disperazione. Dunque “rifrazioni”, come frantumi di eventi e di percezioni, e in quei frantumi la sola possibile interezza. Quanto alla mia “idea” del tempo, valgano i versi di Rifrazioni a pagina 44 e riportati in quarta di copertina: “Un altro tempo corre in questo tempo / che contiamo a minuti: / è l’ansa dove il sogno della mente / non conosce durata, / la parola che tenta se stessa / esatta, svelata.” Io credo che soprattutto la poesia, e le arti tutte, ma anche il pensiero che s’interroga, sono possibili soltanto se chi le “pratica” abita contemporaneamente questi due tempi.

Ritorna anche in Rifrazioni quello che a me sembra a pieno titolo uno dei luoghi della poesia italiana. Parlo del giardino “dove il cuore e la mente si alleano”, il luogo eletto della tua scrittura, a stabilire un’opposizione tra silenzio e rumore, tempo interiore / dispersione. Lo si sapeva già dalle deliziose Favole dal giardino (2004), anch’esse maturate sullo sfondo di castagni e di ulivi che contorna il paese dove sei nato. E tuttavia, notava con finezza Roberto Deidier (Paesaggio con figure in L’avventura di restare: le scritture di Elio Pecora, 2009), il tuo giardino va inteso in primo luogo come hortus morale. Questo ha a che fare con l’idea poetica di paesaggio, la tua idea naturalmente. Vorresti parlarcene?

Quel giardino esiste da molto prima che nascessi e, già nell’infanzia, ne prediligevo la grazia dei colori e degli odori, i silenzi e i brusii. Di quel giardino, e degli altri più ampi che lo circondavano, mia madre, ormai in città, ne raccontava come di un Eden. Ma assai presto, nei miei ritorni, seppi che bisognava piantare e potare, innaffiare e preservare dai parassiti, prevedere nevi e intemperie. Dunque, un giardino non allegorico che, nei mesi estivi e dal mio sempre, mi attende e mi accoglie. Buona parte delle mie scritture si sono fatte là, in vista di alberi e di arbusti, in una lontananza che consente ai pensieri di diventare parola e alla parola di rivelarsi a se stessa. Sono grato a quel giardino, alle sue forze segrete, anche misteriose. E non ritengo “poetico” quel paesaggio: è una parte del mondo in cui mi riconosco, in cui sento di essere una particella infinitesima di quei silenzi, di quei brusii, di quelle presenze che si palesano anche solo nella mente. Quel giardino, ed è solo per lui che ancora torno nel paese nativo, è una parte di me come io sono una parte di lui. Quanto alla mia idea di paesaggio… Nei ritorni estivi, fino a qualche anno fa, ogni pomeriggio uscivo, da solo, in bicicletta, e traversavo larghe campagne circondate da montagne boscose sotto cieli di un azzurro tenero. In quell’andare veloce e silenzioso dimenticavo tutto di me stesso: sentimento panico, raggiungimento di un’esistenza comune, anche vegetale? Accadeva, accade. Il paesaggio è godimento dell’occhio, è appartenenza a una natura che comprende l’umano e lo travalica, ed è anche profonda inestirpabile melanconia per un tempo che non ha ore né scadenze.

 

Tra le varie coppie oppositive che caratterizzano la tua poesia importante mi sembra quella di Natura e Storia. Nella stessa raccolta di saggi a te dedicati nel 2009, appena citata, Biancamaria Frabotta (Elio Pecora, o l’instabilità delle nuvole) ti definiva “poeta allergico alla Storia”. Alla luce di Rifrazioni, e soprattutto della sua ultima sezione dove il dolore del mondo attuale si affaccia senza maschere e chiede ascolto, pensi che questo giudizio resti complessivamente valido, come quando è stato formulato, o richieda semmai un aggiornamento?

Ho traversato decenni in cui il termine “Storia” pareva contenere ogni passione e verità. Dunque il pensiero e l’emozione del singolo non poteva che contrarsi in una liricità a dir poco gratuita. Nel gran fiume della suddetta Storia – ma possiamo più esattamente dire delle piccole storie, visto che quei decenni e le loro crescite e le loro rovine ci si presentano ormai nei loro poveri resti e nelle loro disfatte – sono annegati dopo vari annaspamenti molti libri e non poche opere d’arte , tutti consumatisi in anni di trambusti e di immediati e scomposti scioglimenti. Se nei miei libri ho come ignorato le storie che significavano l’immediato, non esito ad affermare che dalla Storia, quella dell’uomo che si sente e si vuole vivo con gli altri e fra gli altri, non mi sono mai allontanato. Quando la mia amica Biancamaria Frabotta ha scritto, anche con acume e simpatia, quella critica non aveva letto, o riletto, il mio primo libro, La chiave di vetro, pubblicato da Cappelli nel 1970 e ripubblicato da Empiria quarantotto anni dopo. In quel prosimetro un giovane Narciso racconta di un io immerso ed emerso fra tante altre esistenze, in cammino per luoghi affollatissimi e in un tempo di varie mutevolezze. Per un poeta la Storia del suo tempo dovrebbe sconfinare in una Storia ben più estesa, quella dell’emozione e del pensiero, e da cogliere nell’indeterminatezza di cui scrive Leopardi e di cui si sostanzia la storia dell’uomo. Lungo quasi un cinquantennio in cui mi sono occupato di letteratura, con oltre duemila “cronache di lettura” apparse su quotidiani, riviste, pubblicazioni varie, ho sempre diffidato di quella che viene definita poesia “civile” e che non trova echi né rispondenze nel lettore che si rivoltola già in altre avventure e sventure sociali. In conclusione, ritengo che non solo nella sezione conclusiva di questo mio ultimo libro, ma in tutto quel che ho scritto finora, la Storia è presente e toccata: è quella dei giorni e delle ore in cui una moltitudine di eventi e di persone preme dietro e dentro il pensiero minuto e minuscolo del singolo che s’illude, esprimendosi, di raccontare il mondo intero che lo contiene.

Mi riallaccio alla prima domanda venendo alla sezione che si intitola eloquentemente “Lo spessore dell’ombra”. È un luogo privilegiato in cui vive il ricordo di poeti e scrittori che hanno condiviso con te tratti importanti della tua formazione e del tuo percorso; le loro iniziali puntate rinviano a nomi tra i più luminosi della poesia e della letteratura italiane. Accanto ad essi vive il ricordo dei tuoi affetti privati e il primo ritratto, intessuto di pietas, è quello di tuo padre. Mi sembra molto significativo che questi due piani si tocchino e si intreccino, proprio per come è stabilito l’ordine delle pagine. Vado troppo lontano se ipotizzo che un’idea più larga di paternità leghi, seppure in modi assai differenti, l’insieme delle figure che lì adombri?

Risponderò stavolta brevemente. Aver adoperato le sole iniziali, per gli illustri e per i non illustri, ha significato porli sullo stesso piano. Non si trattava di celebrazioni, ma di ombre che tornano vive per ulteriormente mostrarsi, anche svelarsi, in un gesto o in un momento mai abbastanza visti, mai abbastanza riflettuti. Elsa Morante e la sartina della mia infanzia, le mie zie materne e Palazzeschi e Luciano Erba, sono per me, anzi per quel terzo che le chiama, presenze amate e che tuttora tornano a darmi compagnia. Non è questione di evocazione, tantomeno di nostalgia. Solo di convivenza: che si protrarrà fino al mio ultimo fiato.

 

Un tratto secondo me importante della tua idea, e della tua pratica della poesia, è l’attenzione alla voce, all’oralità. Della voce della tua amica Amelia Rosselli hai scritto più volte, anche in Rifrazioni, e sempre a proposito di Amelia vorrei citare dal Libro degli amici un tuo bellissimo ricordo, in cui sembri condensare un’intera esperienza: “Ne risento la voce, traeva i versi dal buio di un abisso e li conduceva verso una luce estrema, accecante.” Questa attenzione all’eco della parola poetica ti ha portato a curare, fin dagli anni ottanta, numerose letture di poesia e anche di recente, in occasione di un ciclo di incontri che hai organizzato nell’incantevole cornice del Teatro di Villa Torlonia, hai parlato di “antologia orale”. Vuoi chiarire per i lettori di “Insula Europea” questo concetto che a me pare di grande suggestione? E ancora quanto conta, nel quotidiano farsi e rinnovarsi della tua poesia, l’idea di una destinazione anche orale della parola?

Nelle scuole elementari ho imparato a memoria molte poesie, da Foscolo a Zanella, da Pascoli a D’Annunzio, e negli anni delle medie, del ginnasio e del liceo, ho mandato a memoria lunghi brani del Monti omerico, canti della Commedia dantesca, ottave di Ariosto, fino agli idilli leopardiani, agli inni manzoniani, e tanto altro. Migliaia di versi che si fermano nella mente e tornano ancora per altri svelamenti. Ho pubblicato diversi libri di poesia, Rifrazioni è il ventesimo, ma soprattutto mi sono molto occupato della poesia altrui: della contemporaneità e non solo. Ebbene, la mia conclusione e la mia convinzione è che la poesia deve da subito trattenere, commuovere: nel senso di portarti da un’altra parte. E, come sostiene anche Brodskij, deve educare i sentimenti ed ai sentimenti. Per questo deve, come ricordava Saba, essere e farsi onesta, ossia rifuggire dalla letterarietà, cercarsi nelle parole necessarie e in una continua e spietata interrogazione di sé fuori e dentro il mondo. Dunque l’oralità, come estremo esito. A questo tendevano i greci, da Omero ai tragici, da Saffo ad Archiloco. E questo è valso lungo molti secoli… È una prova estrema quella della poesia che dice se stessa. Amelia Rosselli ben lo sapeva e, se pure non difettava di oscurità, affidava al timbro della sua voce una musica che arrivava allo stordimento e all’ebbrezza. Ha preso il posto della poesia – che si è appartata nella sola scrittura e nelle letture spesso esitanti e zoppicanti dei poeti – la canzone d’autore che, attesa spasmodicamente da una moltitudine distratta e frettolosa, richiede un ascolto assai meno profondo e consegna emozioni subito attraibili.

 

Negli anni ottanta i giovani che a Roma cercavano ascolto per i loro testi di esordio e confronto nel mondo vivo della poesia bussavano alla porta di Amelia Rosselli, che li mandava volentieri da te: via del Corallo e via dei Lucchesi erano gli indirizzi a cui si recavano con i loro versi e da cui spesso uscivano con inviti, da te rivolti, a leggerli in pubblico in teatrini e librerie, manifestazioni all’aperto, accanto a poeti dalla voce nota e consolidata. Parlo degli esordi di giovani che negli anni hanno confermato la loro vocazione alla poesia (Giovanna Sicari, purtroppo così presto mancata, Alberto Toni, Roberto Deidier, Baldo Meo…). Oggi un giovane che si affacci alla poesia cosa trova? Le riviste, che erano importantissime, non ci sono più a fronte di un universo virtuale dove il rischio di perdersi e fraintendere è assai elevato. Come vedi questo passaggio, e quali le possibili conseguenze, soprattutto per quanto sta alla “trasmissione”, naturalmente critica, tra le generazioni?

Viviamo in anni di grandi e gravi mutamenti. Ma chi ha occhi più aperti scorge delle stanchezze e la ricerca di nuovi appigli. Va detto che, ancora negli anni ottanta e novanta, i giovani che miravano alla scrittura poetica erano disposti all’attesa. Chiedevano di essere letti e finanche, almeno affettuosamente, giudicati e istradati. Oggi, giovani e giovanissimi sono interessati a immediate pubblicazioni e mostrano una preoccupante ingenuità, o meglio una rilevante sprovvedutezza. Non credo negli entusiasmi virtuali. Non credo nelle folle dei “mi piace”. Ci sono già segni di miscredenza. Conto che sorgano, e forse qualcuna già emette i suoi balbettii, riviste online affidabili per qualità comprovata di direzioni e redazioni: così come lo furono in passato da “Nuovi Argomenti” a “Paragone”, solo per nominarne alcune, e varie altre, ormai seguite da pochi e da pochissimi. Dopo le ubriacature e dopo gli stordimenti, qualche alba luminosa dovrà pure sorgere. Smetterò di credere nella poesia quando smetterò di vivere.

 

Per concludere la nostra conversazione Elio, e ringraziandoti per la tua disponibilità, vorrei chiederti di scegliere una poesia di Rifrazioni e di commentarla per i lettori di “Insula Europea”.

Risparmiatemi il commento. La poesia, come ogni altra arte, non può essere spiegata, né parafrasata. Valga quanto ho già largamente risposto:

V’è un’ora della notte quando il sonno, che fino allora
ha retto il suo oscuro governo, d’improvviso si squarcia
nella veglia. Subito, uno dietro l’altro, come torme
di cani affamati si presentano i pensieri più cupi,
le minacce più funeste. E ogni ardire si sfalda.
Del passato non resta nemmeno una stilla di bene,
non v’è rimedio al peggio che spinge da ogni parte:
cova in ogni parola, si nasconde dietro ogni faccia. E solo
se riesci a trovare la forza di accendere la lampada,
di tornare alla pagina del libro lasciato prima
che il sonno t’avvolgesse, solo allora arriverai
a risillabare la speranza. (Trapela dalle imposte
socchiuse la prima luce dell’alba, livida, incerta.)

(da Rifrazioni, p. 39)

intervista in formato pdf

 

 

 

 

L'autore

Marco Vitale
Marco Vitale
Marco Vitale (Napoli 1958) vive a Milano dove al lavoro in biblioteca unisce la traduzione letteraria e le collaborazioni editoriali. Tra le sue traduzioni le Lettere portoghesi, Bur 1995, Gaspard de la Nuit di Aloysius Bertrand, Bur 2001, Stanze della notte e del desiderio di Jean-Yves Masson, Jaca Book 2008, Miseria della Cabilia di Albert Camus, Nino Aragno Editore 2011. La sua poesia è raccolta nel volume Gli anni (Nino Aragno Editore 2018, premio Luciana Notari e premio Dino Campana 2019, premio internazionale Gradiva 2020) e comprende cinque volumi di versi.

È stato tradotto in tedesco da Maja Pflug (Ein Winter, Josef Weiss Editore, Mendrisio 2008) e in inglese da Barbara Carle (Emblems of Sleep, Gradiva, New York 2020). Collabora a “Cenobio”, a “Poesia”, a “Succedeoggi” e fa parte della redazione delle Edizioni di poesia Il Labirinto.

(foto di Dino Ignani)