Memorie d'oltreoceano

Il progetto IEREST sbarca negli Stati Uniti. Chiara De Santi intervista Luisa Bavieri (= LB) e Lucia Livatino (= LL)

(da sinistra: Luisa Bavieri, Chiara De Santi, Karen Gelles, Lucia Livatino)

Luisa Bavieri insegna italiano come lingua seconda al Centro Linguistico di Ateneo dal 2000. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Lingue, Culture e Comunicazione Interculturale presso l’Università di Bologna con una tesi che propone un approccio metodologico integrato all’insegnamento/apprendimento di lingua seconda e cittadinanza. Ha prodotto materiali didattici multimediali per la formazione a distanza e il blended learning, ha progettato e realizzato test di accertamento delle competenze linguistiche e ha partecipato a progetti nazionali e internazionali inerenti a testing linguistico, comunicazione ed educazione interculturale (CERCLU, CEFcult, IEREST). Ha insegnato in percorsi formativi per docenti di lingua italiana come lingua straniera e seconda e si occupa, inoltre, di formazione interculturale nelle scuole (Liceo Ariosto, Ferrara) e all’università (Laboratorio delle Competenze Interculturali, Università di Bologna). È autrice di pubblicazioni sulla didattica dell’italiano L2, sul testing linguistico, sull’educazione alla cittadinanza, sull’educazione interculturale.

Lucia Livatino insegna italiano L2 presso il Centro Linguistico dell’Università di Bologna dal 1999. Ha insegnato anche all’Università per Stranieri di Perugia (1989-1998) e all’Università di Nizza Sophia Antipolis come lettrice (1991-1992). Ha partecipato come formatrice a corsi per formatori e studenti universitari nell’ambito dell’italiano L2. Insieme alle colleghe del CLA UNIBO Ana Beaven e Luisa Bavieri, ha preso parte a progetti europei sulla valutazione linguistica e interculturale e sull’educazione interculturale (WebCEF, CEFcult, IEREST). Ha recentemente realizzato laboratori di formazione interculturale a livello di scuola secondaria superiore e università. Ha pubblicato sulla didattica dell’italiano come lingua seconda e sulla comunicazione ed educazione interculturale.

Siamo state messe in contatto quando ancora insegnavo a Fredonia (State University of New York at Fredonia) nel 2016 e grazie al COIL (Collaborative Online International Learning), un centro fondato dal sistema SUNY (State University of New York). Nell’estate del 2016 ci siamo poi conosciute a Bologna quando sono venuta a trovarvi all’Università e al Centro Linguistico di Ateneo. Da lì è iniziata l’idea di ospitarvi negli Stati Uniti per presentare il progetto IEREST. Nel frattempo ho cambiato istituzione, passando da Fredonia a Farmingdale State College, sempre parte di SUNY, a Long Island. E siamo riusciti ad ospitarvi qua. Prima di entrare nel merito della vostra missione statunitense, potreste raccontarci cos’è IEREST (Intercultural Education Resources for Erasmus Students and their Teachers)?

LB: Lucia Livatino ed io abbiamo parlato per la prima volta del progetto IEREST quando una giovane ricercatrice, Claudia Borghetti, è venuta da noi per sottoporci la sua proposta. Claudia voleva creare un progetto per gli studenti Erasmus e si è rivolta a noi poiché lavoriamo quotidianamente con gli studenti di scambio insegnando italiano L2. Claudia ci ha fatto vedere una bozza molto iniziale di progetto e, avvalendosi della nostra esperienza e di quella dei colleghi delle relazioni internazionali, e anche grazie alla sua capacità di progettazione, è nato IEREST. Il progetto doveva stimolare la mobilità europea, dando allo stesso tempo una certa qualità allo scambio. Concepito quindi dalla collaborazione tra Claudia Borghetti (l’ideatrice del progetto), tre insegnanti di lingua del Centro Linguistico di Ateneo (Ana Beaven, a cui sarebbe poi stato attribuito il ruolo di coordinatrice del progetto, Lucia Livatino e la sottoscritta) e i colleghi delle Relazioni Internazionali, il progetto è stato poi presentato da un consorzio di università e approvato dalla Commissione Europea. Il pilotaggio delle attività didattiche è stato fatto sia a Bologna che nelle altre sedi europee partner, e ancora oggi i materiali continuano ad essere utilizzati nelle università partner. Non solo. Il progetto continua ad essere disseminato e implementato in contesti diversi, come ad esempio all’interno di corsi di lingua e in corsi disciplinari che in principio non avrebbero niente a che fare con l’educazione interculturale. In realtà, l’educazione interculturale è trasversale a tutte le discipline e quindi – siamo molto convinte di questo – dovrebbe essere davvero insegnata a tutti gli studenti.

LL: Eravamo in tre colleghe del Centro Linguistico di Ateneo (CLA). Dobbiamo ricordare che Ana Beaven, che al CLA insegna inglese, aveva da poco finito il dottorato di ricerca con una tesi molto interessante proprio sugli study abroad. Aveva fatto uno studio longitudinale specifico intervistando tantissimi studenti italiani che avevano fatto l’Erasmus. Ana è statala coordinatrice di IEREST, il quale ha avuto una valutazione altissima sia a livello dei contenuti che a livello della gestione amministrativa. La gestione è risultata, come si può immaginare, molto complicata anche per la presenza degli allied partner, che non erano tecnicamente parte del progetto, ma che erano interessati a testare le attività didattiche con i loro studenti.

 

Dalla fine del progetto triennale nel 2015 ad oggi, maggio 2018, che cosa avete fatto?

LL: All’inizio, noi dell’Università di Bologna avevamo l’intenzione di presentare un progetto di continuazione, ma alla fine non l’abbiamo presentato perché i tempi erano molto stretti e non ce la sentivamo di bruciare questa possibilità. Abbiamo deciso di prenderci una pausa di riflessione. Ma nel frattempo cos’è successo? Alcuni dei nostri partner europei hanno fatto partire loro, come capofila, altri progetti europei che sono i diretti eredi di IEREST. Per esempio, al momento è in corso un progetto europeo in Cina a cui Ana Beaven e Claudia Borghetti stanno lavorando. In ogni caso, c’è ancora molto da fare per la disseminazione del progetto originale e per far accettare agli atenei l’idea d’includere questo tipo di formazione interculturale nei loro curricula perché, non dimentichiamoci, questo tipo di formazione che abbiamo pensato, ideato e costruito viene solo parzialmente realizzata. Per quanto riguarda Bologna, è stato offerto quest’anno un Laboratorio delle Competenze Interculturali all’interno dei laboratori dedicati alle competenze trasversali. Come insegnanti d’italiano, Luisa ed io utilizziamo alcune delle attività del progetto IEREST nei nostri corsi di lingua, ma l’educazione interculturale come percorso formativo non è stata implementata. Ovviamente si riconosce che, come percorso formativo è, infatti, molto ambizioso sia da un punto di vista finanziario che di risorse umane. Per il momento possiamo dire che per il nostro ateneo è stata un’esperienza molto significativa, ma l’educazione interculturale, così come noi la concepiamo, non è entrata a far parte dell’offerta curriculare dell’università, se non parzialmente.

 

Tra le missioni di IEREST, c’è l’obiettivo di disseminarlo e così siete arrivate qua, a Farmingdale State College. Una visita molto intensa durata quattro giorni, ovvero dal 2 al 5 maggio 2018. Volete raccontarci le vostre impressioni di questa visita?

LB: L’impressione iniziale è stata quella di una grande sinergia tra le persone che hanno contribuito a creare tutti gli eventi programmati. Siamo rimaste veramente sorprese dall’entusiasmo con cui hanno collaborato tra loro e dalla loro professionalità. Sono state poste le basi per future collaborazioni. Inoltre, un’altra cosa che ha suscitato una piacevole sorpresa è che persone che lavorano su discipline non direttamente collegate all’educazione interculturale o all’educazione linguistica hanno dimostrato un grande interesse verso le nostre proposte educative. Quindi, direi che l’obiettivo di IEREST, che è quello di rendere consapevoli di come l’educazione interculturale sia trasversale a tutte le discipline, sia stato raggiunto.

 

Il primo giorno a Farmingdale State College abbiamo trascorso un paio d’ore al Renewable Energy and Sustainability Center (Smart Energy House), ospitate dalla sua direttrice, Prof.ssa Marjaneh Issapour (Professore ordinario di Ingegneria), e dalla preside di International Education and Programs, Dott.ssa Lorraine Greenwald (Professore ordinario di Sistemi Informatici), entrambe co-organizzatrici di questi eventi IEREST. Il giorno successivo abbiamo avuto vari incontri: prima con il preside, Dott. Charles Adair (Professore ordinario di Biologia), e il vicepreside, Dott. Jeff Gaab (Professore ordinario di Storia) della Scuola di Scienze Naturali e Umanistiche, poi con la direttrice del dipartimento di Lingue Moderne, Dott.ssa Matilde Fava (Professore ordinario di Lingue Moderne), e infine con il rettore dell’università, Dott. John Nader. Cosa vi portate a casa di tutti questi incontri? 

LL: Non ci aspettavamo d’incontrare il rettore dell’università, che si è dimostrato molto interessato e molto puntuale nelle domande. Il Dott. John Nader ci ha posto, infatti, delle domande molto precise e pertinenti, e questo ci ha dato grande soddisfazione.

LB: Un’altra persona che ha fatto domande molto pertinenti e pensiamo che abbia capito molto bene quello che vogliamo fare con il progetto è stata la preside di International Education and Programs, la Dott.ssa Lorraine Greenwald, che ci ha accompagnato per tutto il percorso a Farmingdale, ha seguito con interesse la conferenza e il nostro seminario in inglese. La Dott.ssa Greenwald, con i suoi commenti e il suo appoggio, ci è stata di enorme stimolo. Siamo molto grate anche alla Prof.ssa Issapour, che ha partecipato molto attivamente al nostro seminario sulle identità multiple. Alla fine del seminario è venuta anche a chiedermi come avrebbe potuto inserire questo tipo di approccio nei suoi corsi, suggerendo la voce ‘etica dell’ingegneria’. Questa sua idea ci ha dato molta soddisfazione.

LL: Questo ci ha fatto anche venire in mente che uno dei nostri colleghi partner dell’Università di Leuven insegna da anni un corso di Comunicazione Interculturale rivolto agli studenti d’ingegneria tecnologica. Sicuramente li metteremo in contatto. È stato anche molto interessante incontrare il preside, il Dott. Charles Adair, e il vicepreside, il Dott. Jeff Gaab, della Facoltà di Scienze Naturali e Umanistiche. È stato bello avere questo colloquio che ci ha dato l’opportunità di esplicitare i presupposti del progetto e soprattutto i suoi obiettivi, ovvero l’incremento della mobilità studentesca interuniversitaria e della sua qualità. Un’altra occasione straordinaria è stata incontrare la direttrice del Dipartimento di Lingue Moderne, la Dott.ssa Fava, che ci ha illustrato gli obiettivi raggiunti dal dipartimento, attraverso tutte le evoluzioni che si sono succedute nel corso degli anni fino al raggiungimento dei successi odierni.

  

Il giorno stesso abbiamo avuto l’evento forse più importante, ovvero una conferenza dedicata all’Educazione Interculturale. Il vostro intervento di apertura dei lavori incentrato esattamente su The IEREST Project: Intercultural Education Resources for Students Going Abroad and Their Teachers è stato veramente molto apprezzato, suscitando anche molte domande da parte del pubblico. Il vostro intervento è stato poi seguito da un panel dedicato allo Study Abroad as Life Change, a cui hanno partecipato dodici persone tra insegnanti e studenti, che hanno condiviso le loro esperienze con il pubblico. Volete raccontarci su cosa si è basato il vostro intervento e anche le vostre impressioni sul panel che ne è seguito? 

LB: Innanzitutto, il nostro intervento è stato dedicato alla presentazione del progetto. Abbiamo ripercorso, semplificando, tutti i passi che sono stati fatti per poter arrivare al risultato finale, che è stata la produzione di un manuale di risorse didattiche interculturali. Ho mostrato le fasi di questi tre anni, dall’analisi dei nostri target group – gli studenti, gli insegnanti e gli amministrativi – a cui si è chiesto d’indicarci cosa mancava per la preparazione degli studenti in partenza per uno scambio internazionale. Ci eravamo accorti, infatti, che mancava proprio una preparazione di base importante per quegli studenti che si recavano all’estero. Abbiamo proposto questionari e organizzato focus group. Dopo aver analizzato i dati, ci siamo incontrati per determinare gli obiettivi generali non solo sulla base dell’analisi dei bisogni, ma anche sulla base delle principali teorie perché, all’interno del consortium, c’erano esperti di comunicazione interculturale e di linguistica. Quindi si è passati alla scrittura delle attività. La lingua franca è stata l’inglese e infatti i materiali prodotti sono in inglese come lingua compresa da tutti i partner. Infine c’è stato il pilotaggio, che è stata una delle parti più importanti del progetto. Tre università su cinque hanno fatto il pilotaggio e Bologna ha organizzato tre diversi corsi per implementarlo.

 

Dopo la vostra Keynote Speech, abbiamo avuto anche un panel di insegnanti e studenti… 

LB: Del panel mi è piaciuto moltissimo l’intervento degli studenti proprio perché vorrei vedere più partecipazione da parte loro in questi eventi. Mi è piaciuto molto che siano state raccontate tipologie diverse di esperienze di study abroad, incluse quelle molto guidate, dove gli studenti sono stati in un paese per un brevissimo periodo di tempo e hanno fatto un viaggio più che uno scambio. Ci sono anche stati due interventi molto interessanti: quello della giovane docente che è stata in Francia, Gina Lanfranchi, che ha sottolineato i diversi aspetti dell’esperienza all’estero, dalla solitudine quando ti ritrovi in un residence da solo, alla lingua e alle emozioni. E poi anche l’intervento della ragazza che è andata in Israele e che ci ha raccontato una storia molto bella, ovvero di quella sua esperienza che le ha cambiato completamente la vita e che l’ha portata ad iscriversi al Master in Social Work. È stato bello come abbia definito la sua esperienza come estrema (extreme study abroad) perché alla fine è rimasta in Israele tre anni.

LL: A me è rimasto impresso che i professori invitati fossero equamente divisi tra docenti che avevano vissuto l’esperienza all’estero come studenti, e docenti che invece avevano accompagnato e guidato gli studenti all’estero in questo tipo di esperienza didattica.

  

Adesso passiamo al giorno successivo, quando avete tenuto due seminari dedicati all’educazione interculturale, uno al mattino in inglese su Enhancing Mobility and Internationalization: Intercultural Learning and Teaching Activities from the IEREST Project aperto a tutti, e uno al pomeriggio in italiano su For an Intercultural Language Education: A Pedagogical Proposal to Teach and Learn Italian, in collaborazione con l’AATI (American Association of Teachers of Italian). Entrambi i seminari hanno riscosso molto successo. Potete raccontarci che tipo di seminari avete tenuto? 

LB: Ecco, devo dire subito di essere stata particolarmente e piacevolmente sorpresa dal constatare l’eterogeneità del pubblico. C’erano molti accademici e docenti di discipline diversissime, e anche docenti con mansioni amministrative di alto livello nell’ambito istituzionale universitario che erano lì nella duplice veste. Hanno partecipato anche il personale bibliotecario e alcuni advisor. La Dott.ssa Beverly Kahn, direttrice dell’Academic Advisement and Information Center (AAIC) a Farmingdale State College, si è dimostrata molto interessata alle attività presentate nei nostri seminari, palesando l’intenzione di scaricare il manuale e di discutere con gli advisor la possibilità d’integrare alcune nostre attività.

LL: Sì, tutti i presenti hanno partecipato ai lavori e si sono dimostrati molto interessati. La cosa più bella che è scaturita da questa nostra presenza – che abbiamo osservato e che ci ha fatto molto piacere – è stata constatare come molti abbiano scoperto qualcosa di diverso delle personali biografie dei colleghi che magari ignoravano, e questo è accaduto grazie alla partecipazione a questo tipo di attività molto pratiche, che però richiedono una riflessione su sé stessi. Questo potrebbe avere portato anche più unità tra colleghi. Abbiamo visto proprio una grande partecipazione e anche una grande voglia di riflettere su questi temi, nonché la voglia di condividere delle esperienze molto personali.

 

L’obiettivo dei due seminari non era soltanto di condividere le attività al fine d’integrarle nei vari corsi disciplinari, ma anche di sensibilizzare i docenti e quegli amministrativi che hanno a che fare con gli studenti in mobilità e non. 

LL: Sì, infatti, questo era ed è l’obiettivo più importante. La vera disseminazione è proprio questa: non solo presentare il progetto, ma mettere il semino per farlo sviluppare anche altrove per sensibilizzare gli studenti, i docenti e gli amministrativi. Una piccola integrazione nel programma è possibile.

LB: Come ha mostrato Lucia nella sua presentazione del pomeriggio per l’AATI, si può prendere il manuale adottato per il corso di lingua, per esempio, e dal capitolo dedicato agli stereotipi, si può sviluppare questa piccola consapevolezza. Ci si può chiedere a cosa ci serva lo stereotipo (a categorizzare, per esempio), ma poi si deve andare oltre per fare in modo che lo stereotipo non diventi un pregiudizio. E discutere con gli studenti delle identità multiple, dell’essenzialismo, della dimensione unica, della single story

 

Potete spiegarci questi termini? 

LB: Dunque, uno dei principi teorici di base di questo progetto è quello della molteplicità delle identità che una persona assume, co-costruisce nel contesto, e che negozia e rinegozia continuamente. Le persone passano da un’identità all’altra sulla base del contesto in cui si trovano e dell’interlocutore che hanno davanti. Il principio teorico molto importante delle identità multiple è che considerare un solo aspetto, una sola identità di una persona, è molto riduttivo perché ti perdi la complessità, la ricchezza di quello che può essere una persona. È molto riduttivo, ma è anche molto pericoloso, perché se giudichi una persona solo sulla base di un unico aspetto, le puoi fare del male. Legato a questo, c’è l’altro pilastro di IEREST, che è il concetto di culture. Abbiamo attinto moltissimo da Adrian Holliday, che ha trasformato l’idea di interculturalità e il concetto di cultura parlando di piccole culture. Lui parla di large cultures (grandi culture) che sono appunto quelle legate alla nazione, alle etnie, ecc., e di small cultures (piccole culture), che sono sempre co-costruite, mai fisse. Queste si formano all’interno di gruppi sociali, ad esempio all’interno del gruppo famigliare, all’interno del gruppo sociale scolastico, all’interno del gruppo sociale professionale, per cui una persona entra ed esce da queste piccole culture continuamente. Dire di una persona soltanto che è musulmana, italiana ecc., è riduttivo perché perdi tutta la molteplicità della persona. Il problema è che si dà troppa importanza alle grandi culture, che sono facilmente visibili.

 

A questo proposito, l’attività che abbiamo fatto nell’ambito del seminario organizzato assieme all’AATI (American Association of Teachers of Italian) su quello che è visibile e quello che non è visibile è stata veramente molto interessante. 

LL: Abbiamo anche altre attività su quest’argomento, ovviamente non vi era tempo per approfondirle nell’ambito del seminario dell’AATI. Abbiamo fatto, per esempio, delle attività molto interessanti sul visibile e l’invisibile con degli studenti di liceo. Inoltre, nelle nostre attività con adolescenti non usiamo la figura dell’iceberg che normalmente è usata perché sembra qualcosa di fisso, solido, reificato.

LB: La parola consapevolezza è la parola chiave dell’educazione interculturale così come la intendiamo noi. Raising awareness è dappertutto. Raising awareness, la riflessione per la consapevolezza di quello che fai, di quello che sei, di come ti poni di fronte all’altro, è fondamentale; non dimentichiamo che l’altro è chiunque tu abbia di fronte. Dunque, per cultura non intendiamo solo quella nazionale, ma anche quella di genere, quella legata all’età, la cultura legata alla sessualità: queste sono tutte culture, che noi mettiamo tutte sullo stesso piano e a cui diamo la medesima importanza. Quindi non è che una cultura sia più importante dell’altra.

 

Quest’idea del percorso verso la consapevolezza si è ritrovata anche quando abbiamo fatto la skill walk, la passeggiata delle abilità, anche se non avevamo molto spazio ed è stata forse fatta troppo velocemente. L’attività ci ha aiutato prima di tutto a prendere coscienza e consapevolezza di noi stessi, di quello che siamo, a riconoscere gli errori, a modificarci. 

LB: Si tratta di capire se siamo in grado di fare determinate cose oppure no. Aiuta a farci comprendere i nostri limiti.

LL: Da lì ti puoi muovere in altre direzioni: d’accordo, quella cosa lì non riesco a farla, ma la voglio fare: come?

LB: In classe chiediamo proprio questo: quali sono i passi che devi fare per raggiungere un certo obiettivo? Come modificarsi?

LL: Ci deve essere un dialogo, una riflessione, un certo critical thinking, che può essere realizzato attraverso la scrittura, per esempio.

LB: La scrittura può risolvere molto ed essere molto importante.

LL: È un percorso complesso e non è un confronto tra culture. Le attività insegnano ad affrontare con consapevolezza un’esperienza di mobilità accademica indipendentemente dal paese in cui vai. Noi mettiamo gli studenti Erasmus di fronte a certe criticità: ti lamenti di non aver conosciuto gli italiani, ma che cosa hai fatto per incontrarli, per conoscerli? Decostruiamo il mito dell’Erasmus e la sua bolla, che è tuttavia molto interessante come piccola cultura. Sei tu che alla fine devi decidere se rimanere nella bolla oppure uscirne. Si tratta anche di rivedere i propri obiettivi in maniera più realistica, e lasciarsi aperti a delle sorprese. Anche scoprire un connazionale può essere un arricchimento grandissimo.

 

Le altre organizzatrici di questi eventi a Farmingdale State College – la Prof.ssa Marjaneh Issapour, la Dott.ssa Lorraine Greenwald e la Sig.ra Karen Gelles, direttrice della Greenley Library e del CTLT (Center for Teaching, Learning, and Technology) a Farmingdale –  ed io siamo state veramente felici di avervi avute nel campus e anzi, non avremmo voluto lasciarvi andare. Gli eventi ci hanno arricchito come comunità accademica e siamo certi che il loro successo sarà difficile da uguagliare. Vi siamo molto grate per averci concesso il piacere non solo di ascoltarvi, ma anche di farci imparare. Adesso ci auguriamo che ulteriori passi possano essere intrapresi a livello amministrativo, magari tra l’Università di Bologna e Farmingdale State College, e anche tra i nostri corsi, creando delle opportunità per i nostri studenti di collaborare online su moduli inerenti all’educazione interculturale. Dando un’occhiata alle possibilità che si aprono davanti a noi, come le vedete? 

LB: La prima cosa che mi viene in mente è sicuramente la condivisione dei materiali e la possibilità di adattarli all’interno dei singoli corsi e delle singole discipline. Un’altra cosa di cui avevamo già iniziato a parlare è di avere dei contatti online tra i nostri studenti. Si possono sviluppare moltissime altre attività per l’educazione linguistica interculturale partendo dai materiali IEREST. Per quanto riguarda i rapporti amministrativi di eventuali progetti di scambio o di study abroad, lascerei la parola alle istituzioni. Al momento, di concreto vedo proprio questo: l’adattamento dei materiali di educazione interculturale nei vari corsi. Il manuale è a disposizione e da lì possiamo fare moltissimo.

LL: Per noi è anche importante far girare la piattaforma di Humbox dove sono conservati tutti i materiali IEREST e dove è possibile riadattarli e ricaricarli. Per quanto mi riguarda, io vedo intanto una linea diretta tra noi che insegniamo italiano come L2 e voi del dipartimento di lingue a Farmingdale. Siamo aperte a delle collaborazioni e siamo anche disponibili a risentire persone che abbiamo incontrato durante il seminario dell’AATI e che lavorano in altre realtà didattiche.  Ci auguriamo, inoltre, di ricevere un feedback non solo da parte dei docenti di discipline diverse, ma anche da parte di chi si occupa di advising, un ruolo cruciale per la riuscita dello study abroad.

L'autore

Chiara De Santi
Chiara De Santi
Chiara De Santi è Assistant Professor in Lingue Moderne presso Farmingdale State College, SUNY. Precedentemente, come lettrice, ha insegnato una varietà di corsi di lingua, cultura, letteratura e cinema italiani, e discipline cinematografiche presso l’Università Statale di New York a Fredonia.  Ha un Ph.D. in italianistica dell’Università del Wisconsin-Madison, e un Ph.D. in storia e un Masters di Ricerca dell’Istituto Universitario Europeo. Si è laureata in Lingue e Letterature Straniere presso l’Università degli Studi di Firenze, specializzandosi in russo, francese e storia. I suoi interessi di ricerca includono il cinema italiano, italo-americano e hollywoodiano; la cultura, la gastronomia e la storia italiane; la letteratura italiana moderna e contemporanea; l’italiano come L2.