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A proposito de “Il museo della lingua italiana”. Tamara Baris dialoga con Giuseppe Antonelli

Giuseppe Antonelli insegna linguistica italiana all’Università di Cassino. Collabora all’inserto «La Lettura» del «Corriere della Sera» e racconta storie di parole su Rai Tre (Kilimangiaro). Tra i suoi ultimi libri: Comunque anche Leopardi diceva le parolacce. L’italiano come non ve l’hanno mai raccontato (Mondadori, 2014), La lingua in cui viviamo. Guida all’italiano scritto, parlato, digitato (Rizzoli, 2017), Volgare eloquenza. Come le parole hanno paralizzato la politica (Laterza, 20192). Con Matteo Motolese e Lorenzo Tomasin è curatore della Storia dell’italiano scritto (Carocci) giunta ormai al suo quarto volume.

 

 

 

Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale (Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Quaderno 29, § 3).

 

Il libro è una visita in un museo dedicato alla lingua italiana (virtuale, almeno per ora), guidati dalla voce di Giuseppe Antonelli (potremmo immaginarlo proprio come un’audioguida). Un viaggio nella storia della nostra lingua rappresentata da una sessantina di oggetti: la lingua in cui viviamo, abbiamo vissuto, vivremo, attraverso le cose che, come diceva una canzone di Battisti, pensano (son le cose che pensano e hanno di te sentimento, le cose prolungano te): «ancore della memoria e trampolini della fantasia», scrive l’autore, «oggetti in grado di evocare non solo parole, ma suoni, colori, profumi, rumori, emozioni, ricordi, sapori». Anche «il libro è una cosa, ma se lo apri e leggi diventa un mondo», come scriveva Sciascia, oppure – aggiungo – come in questo caso, un museo.

Un museo che non serve a difendere o proteggere la lingua italiana che, in realtà, non è mai stata così bene, ma serve a celebrarla: a farne sentire il peso (perché le cose del libro pensano e pesano, nella loro concretezza e tridimensionalità), a insegnare a calarsi nei panni degli altri e a guardare da una prospettiva diversa (come ha fatto Antonelli nei suoi capitoli), ad apprezzare la bellezza della lingua, ma anche – e soprattutto – la sua varietà (nelle sale sono esposti i documenti, gli oggetti più disparati: dal Placito di Capua, alla lattina di spaghetti Heinz), a ricordare che bisogna parlare chiaro («chiarozzo chiarozzo» come diceva San Bernardino, «usare parole di tutti e per tutti» come scriveva Tullio De Mauro, a proposito della Costituzione).

E, infatti, Il museo della lingua italiana è un museo facile (mai banale), chiaro e vivace, raccontato da Antonelli con passo narrativo, organizzato con entusiasmo rigoroso e un’immaginazione concreta che mirano alla realizzazione di un sogno: il museo non esiste, ancora, ma Antonelli spera che possa essere realizzato presto. Così, lo imposta, lo crea con le parole e lo descrive con la precisione e la simmetria lucida degli ottimisti, con zelo analitico e visionarietà. Ci accompagna in un viaggio, lungo più di mille anni, nella storia della nostra lingua reificata e visibile. Un viaggio che possiamo scegliere di percorrere dal primo all’ultimo oggetto, con ordine, o soffermandoci sulle cose che per noi pesano di più, giocare, saltare da un oggetto all’altro, costruendo una nostra visita personalissima al museo della lingua italiana («ogni capitolo, infatti, è una storia a sé, anche se tutto il libro è concepito come un unico racconto»).

Come, e quando, è nata l’idea di dare vita a questo museo?

L’idea è nata quindici anni fa, quando – sotto la direzione di Luca Serianni – mi ritrovai a collaborare con Matteo Motolese, Lucilla Pizzoli e Stefano Telve alla realizzazione di una grande mostra sulla lingua italiana ospitata alla Galleria degli Uffizi. La mostra si chiamava Dove il sì suona ed ebbe grande successo: a un certo punto, però, venne il momento in cui tutto quello che avevamo messo insieme – oggetti, documenti, pannelli, didascalie, giochi interattivi – venne smantellato. Lì cominciai a pensare che la lingua italiana meritava di avere un vero museo. Un grande museo stabile, come quello che a San Paolo del Brasile è stato realizzato per la lingua portoghese; anche se poi distrutto, purtroppo, da uno spaventoso incendio. Da quell’incendio, avvenuto il 21 dicembre 2015, prende le mosse l’introduzione del mio libro.

Com’è strutturato?

Ho riflettuto a lungo su quale impianto dare a questo museo: il fatto che fosse un museo virtuale, mi rendeva libero da qualunque vincolo o limitazione. Alla fine, ho scelto di individuare tre epoche – l’italiano antico, moderno e contemporaneo – e di dedicare a ognuna un piano. Scegliendo un’impostazione geometria e simmetrica, ho deciso che ogni piano avrebbe ospitato cinque sale e ogni sala quattro oggetti. La storia della lingua italiana in sessanta oggetti. Questa struttura architettonica è ribadita, nel libro, dallo spaccato che precede l’ingresso nel museo vero e proprio e dalla pianta di ogni piano che precede ciascuna delle tre sezioni. Individuata la struttura, la vera sfida era trovare gli oggetti che potessero rappresentare i momenti decisivi della nostra storia linguistica. Oggetti veri: concreti, tridimensionali, da esporre al centro di una sala, in una teca, appesi al muro o al soffitto. E al tempo stesso oggetti-simbolo, oggetti-icona: correlativi oggettivi di una parola, un’idea, una questione, una fase storica. Questa è stata, forse, la parte più divertente e impegnativa.

A un visitatore arrivato poco prima della chiusura, quindi che può permettersi solo un assaggio veloce, che tipo di percorso consiglierebbe e perché?

Nel museo c’è già un percorso selezionato, che è quello dedicato a bambini e ragazzi (segnalato dalle pagine bordate di verde). Un pezzo per ogni sala, scelto e raccontato nella maniera più semplice, proprio per attirare l’attenzione e suscitare anche la curiosità dei più giovani. Quasi in ogni capitolo, poi, ci sono rinvii che creano percorsi diversi rispetto a quello principale. A chi ha poco tempo, consiglierei di fare un rapido giro per i tre piani e di fermarsi davanti agli oggetti che lo colpiscono di più. Uscendo dalla metafora della visita, il libro è stato pensato anche per brevi letture a salti; i capitoli possono essere letti anche uno indipendentemente dall’altro: in ognuno c’è un racconto, una piccola storia che si apre e si chiude.

L’architettura del museo è sbilanciata verso l’italiano contemporaneo: un’intera sezione dedicata a poco meno di ottanta anni di storia. Quanto pesa il presente e che peso ha la lingua nel presente (anche come strumento di difesa, contro populisti e puristi della domenica, per esempio)?

La periodizzazione, in effetti, lascia uno spazio particolarmente ampio all’italiano contemporaneo: venti oggetti coprono quasi ottant’anni, mentre nell’italiano moderno si snodano su due secoli e nell’italiano antico addirittura su più di otto. Questa decisione fa tutt’uno con la scelta di riservare lo spazio più ampio alla storia della lingua comune: anche a costo di ridurre un po’ quello della lingua letteraria. È solo nel secondo Novecento che l’italiano, dopo secoli in cui gran parte della popolazione ha vissuto in un mondo quasi completamente dialettale, diventa davvero la lingua comune a quasi tutti gli italiani e le italiane. Lo sbilanciamento verso l’italiano contemporaneo nasce dall’esigenza di storicizzare il presente. Dall’idea che, per capire la lingua in cui viviamo, si debba sempre tener conto della specifica storia di ogni fenomeno: anche quando quella storia è cominciata pochi decenni fa. Guardare l’attualità da una prospettiva storica è l’unico modo per evitare l’appiattimento sul presente e – dunque – il rischio di scambiare processi in atto da secoli per sconvolgimenti rivoluzionari o, al contrario, di non riconoscere la novità di certi fatti meno clamorosi.

Siamo pronti per un vero “Museo della lingua italiana”?

Direi proprio di Sì (potrebbe essere proprio questo il nome del museo). L’incontro che qualche settimana fa si è tenuto alla sede centrale della Società Dante Alighieri sembra confermarlo. Il dibattito tra i rappresentanti delle massime istituzioni che si occupano della nostra lingua – oltre alla Dante, l’Accademia della Crusca e quella dei Lincei, l’Associazione per la Storia della Lingua italiana – ha destato molta attenzione da parte di giornali e social network. Ora si apre una nuova fase di confronto con i diversi Ministeri che potrebbero sostenere il progetto (Beni culturali, Esteri, Istruzione); poi seguirà quella della ricerca dei finanziamenti e degli sponsor. L’idea, comunque, piace e c’è la fermissima volontà di portarla fino in fondo: fino all’inaugurazione – finalmente – di un grande museo nazionale della lingua italiana.

Grazie, professore

L'autore

Tamara Baris
Tamara Baris
Tamara Baris frequenta il Corso di Dottorato in Literary and Historical Sciences in the Digital Age, presso l’Università degli Studi di Cassino. Ha discusso una tesi magistrale in Storia della lingua italiana, intitolata La lingua delle lettere di Margherita Datini al marito Francesco di Marco, 1399-1410  e una tesi triennale in Linguistica italiana dal titolo: La lingua della narrativa italiana contemporanea: Cinacittà di Tommaso Pincio (relatore, di entrambe le tesi, Giuseppe Antonelli). È stata tirocinante del progetto Museo Facile (2013) e stagista presso la Biblioteca della sua Facoltà (2015). Ha partecipato a Scritture Giovani Cantiere del Festivaletteratura di Mantova (2012). Ha lavorato in libreria, a progetti di comunicazione museale e, per un breve periodo, come ufficio stampa. Scrive articoli per il portale Treccani.it (Atlante, Lingua italiana).