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“Il libro su Bergoglio e la mia formazione intellettuale”. Serena Meattini dialoga con Massimo Borghesi

Massimo Borghesi è  professore ordinario di Filosofia morale presso il Dipartimento di Filosofia, scienze sociali, umane e della formazione, dell’Università di Perugia.  È coordinatore del Consiglio del Corso di Laurea in Filosofia e Scienze e tecniche psicologiche dell’Università di Perugia. È stato direttore, dal 2000 al 2002, della Cattedra Bonaventuriana presso la Pontificia Università Bonaventura di Roma. È membro del consiglio scientifico delle riviste Studium e Atlantide e consulente della rivista Humanitas. Revista de antropología y cultura della Pontificia Universidad Católica del Cile. Fa parte del Comitato Scientifico del Centro Internazionale Studi su Pascal (CISP) dell’Università di Catania. È membro del Comitato editoriale delle Edizioni Studium, dove dirige la Collana filosofica “Interpretazioni”. È stato membro, dal 1984 al 2002, della rivista Il Nuovo Areopago; dal 1984 al 2012 della rivista internazionale 30 Giorni; editorialista, dal 2005 al 2011, del quotidiano L’Eco di Bergamo. Pubblicista, scrive su numerose testate: Vatican insider, Terre d’America, Il Sussidiario.net. Questa sua attività è consegnata nel blog: www.massimoborghesi.com. Relatore in molti convegni, in Italia e all’estero,  i suoi volumi sono tradotti in varie lingue.

Nel 2013 ha ricevuto il premio Capri-San Michele per il volume Augusto del Noce. La legittimazione critica del moderno edito da Marietti. Nel 2017 ha pubblicato il volume Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale, Jaca Book, Milano 2017, cui sono seguite le traduzioni in lingua inglese, spagnola, portoghese. Le edizioni croata, polacca, tedesca, francese sono in corso di pubblicazione. È autore delle seguenti monografie: La figura di Cristo in Hegel, Studium, Roma 1983; Romano Guardini. Dialettica e antropologia, Studium, Roma 1990 (2° ediz. 2004); L’età dello Spirito in Hegel. Dal Vangelo “storico” al Vangelo “eterno”, Studium, Roma 1995; Posmodernidad y cristianismo, Encuentro, Madrid 1997; Il soggetto assente. Educazione e scuola tra memoria e nichilismo, Itacalibri, Castel Bolognese (RA), 2005 (Edizione spagnola, Encuentro, Madrid 2005; UCSS, Lima 2007); Secolarizzazione e nichilismo. Cristianesimo e cultura contemporanea, Cantagalli, Siena 2005 (Edizione spagnola, Encuentro, Madrid 2007); L’era dello Spirito. Secolarizzazione ed escatologia moderna, Studium, Roma 2008; Maestri e testimoni, Edizioni Messaggero, Padova 2009; Augusto Del Noce. La legittimazione critica del moderno, Marietti, Genova-Milano 2011; Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson. La fine dell’era costantiniana, Marietti, Genova-Milano 2013; Senza legami. Fede e politica nel mondo liquido: gli anni di Benedetto XVI, Studium, Roma, 2014; Luigi Giussani. Conoscenza amorosa ed esperienza del vero. Un itinerario moderno, Edizioni di Pagina, Bari, 2015; Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale, Jaca Book, Milano 2017; Hegel. La cristologia idealista, Studium, Roma, 2018; Romano Guardini. Antinomia della vita e conoscenza affettiva, Jaca Book, Milano, 2018; Modernità e ateismo. Il dibattito nel pensiero cattolico italo-francese, Jaca Book, Milano 2019.

Sono trascorsi ormai due anni dalla pubblicazione di Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale, Jaca Book, Milano 2017. Un arco temporale che per lei si è rivelato ricco di incontri, confronti e riconoscimenti, tanto all’interno del contesto italiano quanto in quello internazionale. L’interesse del volume è confermato dalla rapidità con la quale si sono succedute numerose traduzioni (The Mind of Pope Francis. Jorge Mario Bergoglio’s Intellectual Journey, Liturgical Press, 2018; Jorge Mario Bergoglio. Una biografía intellectual. Dialéctica y mística, Ediciones Encuentro, 2018; Jorge Mario Bergoglio. Uma biografia intelectual, Editora Vozes, 2018; Jorge Mario Bergoglio : biografia intelektualna : dialektyka i i mistyka, Bratni Zew, 2018). Il testo è stato presentato, ultimamente, anche nel Dipartimento di Filosofia, Scienze Sociali, Umane e della Formazione dell’Università degli Studi di Perugia con la presenza del Magnifico Rettore, il Professor Franco Moriconi, della Direttrice del Dipartimento, Professoressa Claudia Mazzeschi, di numerosi colleghi e di un pubblico numeroso e qualificato. In una sua lettera inviata in occasione della presentazione, il Cardinal Bassetti ha scritto: «Il volume di Borghesi è, infatti, un libro scientificamente autorevole, ricchissimo di stimoli e suggestioni: senza dubbio, per le sue caratteristiche rappresenta un unicum all’interno della vasta mole di scritti su Papa Francesco. Si tratta di uno studio che fornisce una mappa concettuale del pensiero di Bergoglio e che ricostruisce una fitta trama di personaggi ed esperienze personali che sono pressoché sconosciute, non solo all’opinione pubblica europea, ma anche a gran parte del ceto intellettuale». Cosa pensa di questo apprezzamento?

Naturalmente ne sono lieto. Il libro ha incontrato una attenzione del tutto particolare, tanto da essere tradotto in tutte le principali lingue. Da un certo punto di vista questo era prevedibile. Si tratta, infatti, del primo volume che mette in evidenza la formazione intellettuale di Bergoglio ripercorrendone le tappe salienti e gli autori che lo hanno segnato. In precedenza il pregiudizio per cui il Papa “latinoamericano” non avesse una formazione culturale all’altezza del suo ufficio aveva bloccato l’attenzione su ciò. Molti critici di Francesco lo accusavano di scarsa preparazione teologica e filosofica. Il mio studio dimostra quanto errate siano queste opinioni. Donde l’eco che ha avuto in Italia e all’estero. L’incontro di Perugia, promosso dal Prof. Marianelli, con la partecipazione della Prof.sa Papa e dei Prof.ri Moschini e Alici, è stato sicuramente, tra i tanti che si sono svolti in Italia e all’estero, tra i più belli e partecipati. Ne sono particolarmente lieto dal momento che si tratta della mia Università. 

Soffermandoci ancora per un momento sulla recezione del volume e, a monte di esso, della stessa figura di Jorge Mario Bergoglio e del suo pontificato, che ruolo hanno avuto i media?

I media, come sempre accade, hanno amplificato, soprattutto nei primi anni, la figura del Papa. Francesco è un papa mediatico. Lo è nel suo oltrepassare l’immagine clericale del papato, nel suo ricondurre la figura di Pietro alla umanità semplice della vita quotidiana. Sono gli aspetti che gli vengono rimproverati dai settori conservatori del mondo cattolico. Insieme a questa funzione positiva nel rilanciare la novità papale, i media ne hanno avuta, però, anche una negativa. E questo perché si è disegnato, attorno al Papa, lo stereotipo del barricadero, del rivoluzionario, del populista, di colui che avrebbe ribaltato 2000 anni di storia della Chiesa. Un’immagine falsa, utilizzata dalla destra cattolica per una sistematica delegittimazione della persona del Papa. Il mio volume consente di accedere al Bergoglio “reale”, a colui che è radicale nella critica del sistema economico-finanziario che ha imperato negli anni della globalizzazione, e, al contempo, è però un fermo difensore della tradizione della Chiesa. Bergoglio non è certamente un tradizionalista – non è mai stato di destra -; non è, però, l’avventuroso modernista dipinto dai conservatori. È un papa del Concilio, il suo pontefice di riferimento è Paolo VI.

In numerose occasioni ha ricordato l’origine e lo sviluppo del suo volume. Una gestazione complessa e interessante che si inquadra in un contesto storico e culturale ben preciso, segnato da una diffusa carenza, più o meno inconsapevole, di categorie concettuali utili ai fini della comprensione di esso e del ruolo che Papa Francesco vi riveste. Può fornirci uno sguardo di insieme di questo contesto e delle differenti voci che lo compongono?

L’idea del volume mi è venuta, a metà del 2016, quando imperversavano le critiche verso Francesco a seguito della pubblicazione di Amoris laetitia. Nella Lettera si prevedeva la possibilità, a determinate condizioni, per i divorziati risposati di accedere alla comunione. Tanto è bastato per scatenare una reazione di ampi settori del mondo cattolico, particolarmente di quello statunitense, contro il Papa accusato di deviare dalla retta dottrina. Accuse gravissime, che mettevano in discussione l’ortodossia papale, accompagnate dalle critiche, di cui ho parlato, riguardanti la scarsa preparazione di Bergoglio. In realtà il disaccordo con Francesco è più a monte. Negli Usa, in Polonia, ecc., l’impostazione del Papa non è gradita perché pone in discussione l’impostazione ecclesiale degli ultimi 30 anni, quella che segue alla caduta del comunismo. Dopo l’89 parte della Chiesa, impaurita di fronte all’incalzare della secolarizzazione, si è chiusa nella difesa di alcuni valori (vita, famiglia) rinunciando ad una prospettiva missionaria, di testimonianza in campo aperto. Ciò ha prodotto un processo di burocratizzazione e di clericalizzazione, di chiusura, tipico delle mentalità difensive. Per Francesco, al contrario, l’annuncio di Cristo precede il terreno etico. Donde la metafora della Chiesa come ospedale da campo che cura i feriti primi di interrogarli sui loro peccati. Questa prospettiva è avvertita dalla Chiesa della cultural war come una pericolosa rinuncia, un cedimento. Non hanno più l’idea di una prospettiva missionaria. La scambiano come una sorta di progressismo.

Uno dei grandi meriti del suo volume è aver mostrato l’importanza di Gaston Fessard per il pensiero di Bergoglio. Poiché l’autore fa parte di quel gruppo di «jésuites blondelliens» la sua intuizione sembra correggere e integrare quella avuta da Juan Carlos Scannone, sottolineando come l’influenza del filosofo de L’action non sia diretta ma mediata da Fessard. Quali sono gli elementi della prospettiva blondelliana che confluiscono nel pensiero del gesuita francese e, successivamente per suo tramite, in quello di Bergoglio?

Nel 1956 Gaston Fessard pubblicava il primo dei sui volumi dedicati a La dialettica degli Esercizi spirituali di S. Ignazio di Loyola. Come mi ha confessato il Papa in un file audio, questa lettura è stata fondamentale per lui negli anni giovanili. Da lì ha tratto l’idea che la vita cristiana non è statica ma dinamica. La spiritualità di S. Ignazio è dominata dalla tensione, dalla polarità tra grazia e libertà, tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, tra Dio e l’uomo. Questa tensione dialettica è l’eredità che Maurice Blondel, il filosofo de L’Action, trasmette a Fessard il quale, a sua volta, la consegna a Bergoglio. Per quest’ultimo la vita cristiana è segnata una dimensione “tensionante”. Il cristiano è il contemplativo in azione, vivente unità degli opposti. Il clericalismo, al contrario, è la malattia che presuppone la stasi, lo spegnimento dello stupore e dell’inquietudine del cuore provocata dal Dio sempre maggiore. Il clericalismo è possesso, dominio, chiusura.

All’interno dello stesso intento chiarificatore sembra rientrare anche Michel de Certeau, un autore che Papa Francesco ha menzionato e che differenti versanti della critica hanno assunto come uno dei riferimenti del suo pensiero, senza procedere a ulteriori precisazioni. Ne è un esempio la «confusione» che Sandro Magister ravvisa nel parallelo interesse che Bergoglio rivolge a questo autore e a Henri de Lubac. Una «confusione» che in realtà non riguarda il Pontefice ma la recezione sommaria che spesso investe la figura di Certeau. Il debito di Bergoglio nei confronti di quest’ultimo è da lei presentato in maniera circoscritta, può chiarirci l’importanza di una simile impostazione?

De Lubac rompe con Michel de Certeau dopo il 1971 ma il de Certeau che interessa Bergoglio è quello precedente. È il grande studioso della mistica moderna, di Pierre Favre in particolare. L’introduzione di de Certeau al Memoriale di Favre è, per Bergoglio, un punto fermo. Favre è l’amico di Ignazio che solca l’Europa divisa dalle guerre di religione e si prodiga per l’unità pacifica tra i cristiani. È il testimone mite, dolce, colto e al tempo stesso memore delle sue origini umili, freguenta le elites e si occupa dei poveri di Magonza. Il Pierre Favre descritto da de Certeau è l’ideale cristiano di Bergoglio, è colui che Francesco vorrebbe rappresentare.

La biografia intellettuale che traccia si configura come una rappresentazione equilibrata e complessa nella quale molteplici linee di pensiero e punti di vista si intersecano: da Gaston Fessard e la Scuola lionese ad autori come Amelia Podetti e Alberto Methol Ferré, esponenti del contesto latino-americano. Accomunate dall’interesse nei confronti del complesso rapporto tra particolare e universale, tutte queste voci tentano una risoluzione non razionalistica della dialettica tra i due poli. Un intento che negli autori latino-americani si specifica soprattutto in termini politici e passa per l’interesse rivolto a Hegel e Agostino. La peculiare interpretazione di questi ultimi conduce a una visione alternativa rispetto a quella teologico politica, qualcosa che consente di comprendere la precisazione che lei fa del termine Pueblo. Nel suo volume del 2013, Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson: la fine dell’era costantiniana, veniva posta una netta differenza tra «teologia politica» e «teologia della politica», un elemento che attraversa le pagine del 2017. Sembra che questo capitolo della biografia intellettuale di Bergoglio costituisca una fondamentale e interessante prosecuzione del lavoro iniziato anni prima, in grado di integrare tanto il versante latino-americano quanto quello europeo. È d’accordo?

Certamente Critica della teologia politica mi è stata utile per chiarire le differenze tra la Teologia della liberazione, dominata dall’utopia marxista, e la Teologia del popolo della Scuola del Rio de la Plata a cui aderisce anche Bergoglio. La Teologia del popolo di Lucio Gera e Juan Carlos Scannone non confonde il piano teologico con quello politico. Distingue tra Stato e Regno di Dio. Pone l’accento sulla religiosità popolare, cristiana, come fonte da cui si dipartono gli ideali e la lotta per i diritti e la giustizia. E la prospettiva che Paolo VI farà propria nella Evangelii nuntiandi.

Bergoglio segue Evangelii nuntiandi perché nel documento papale ritrova quella tensione tra evangelizzazione e promozione umana, fede ed impegno sociale, che, dal suo punto di vista, è la conferma della “polarità” propria del cattolicesimo. Mentre gli anni ’70 dividevano fede e storia nel dualismo tra destra e sinistra, Bergoglio si pone al di là della scissione. Il suo pensiero “dialettico” derivato da Fessard e, a partire dal 1986, alimentato dal confronto con l’antropologia polare di Romano Guardini, lo porta all’idea della Chiesa come coincidentia oppositorum. Questa è la sua orginalità, anche sul piano della sua biografia intellettuale. Il pensiero di Bergoglio non è isolato. Si colloca dentro il grande filone del pensiero cattolico-antinomico derivato da Adam Möhler che, nel corso del ‘900, trova i suoi rappresentanti in Erich Przywara, Romano Guardini, Henri de Lubac, Gaston Fessard. In America Latina suo esponente è il “filosofo” di Bergoglio, il suo amico Alberto Methol Ferré, il più rilevante intellettuale cattolico della seconda metà del XX secolo. 

Fin dall’inizio del suo pontificato una parte della Chiesa ha sostenuto la netta distinzione e contrapposizione rispetto a quello di Benedetto XVI. Un giudizio che è stato declinato in primo luogo sul piano intellettuale, filosofico e teologico. Lei ha sottolineato che tali posizioni si fondano su una scarsa comprensione e conoscenza del pensiero di entrambi. Carenze, anche in questo caso più o meno consapevoli, che ha cercato di sanare con il suo Jorge Mario Bergoglio e nel 2014 con il volume Senza Legami: fede e politica nel mondo liquido. Gli anni di Benedetto XVI. La coerenza e la complementarietà dei due volumi è evidente, ma quali sono gli elementi che sono rimasti immutati e quali le novità nel differente contesto in cui si iscrivono? Cosa accomuna le intenzioni che stanno all’origine della loro stesura?

Francesco e Benedetto XVI incarnano, certamente, due stili profondamente diversi, due storie diverse. Ogni papa porta la sua sensibilità. Questo non dovrebbe fare problema. Nella storia della Chiesa è sempre stato così. L’anomalia oggi è che, a partire dal fatto eccezionale della presenza di un Papa emerito, si tenta, da parte dei tradizionalisti, di contrapporli arrivando persino a dubitare della legittimità del Papa regnante. In realtà al di là degli stili e degli accenti è evidente come ci sia una linea rossa che unifica gli ultimi due pontefici. Questa linea è stata indicata dallo stesso Papa emerito nella sua intervista al gesuita p. Jacques Servais del 2016: il primato della Misericordia, da parte della Chiesa, nel contesto odierno. Benedetto XVI, il cui primo documento è Deus caritas est, indicava nella parabola del Figliol prodigo il modello insuperabile per il cristianesimo del nostro tempo. È la prospettiva, com’è evidente, che guida l’intero pontificato di Francesco. Taluni che si professano “ratzingeriani” sono, spesso, proprio coloro che tradiscono la memoria di papa Ratzinger. Da parte sua Francesco, riprende e continua la fondamentale affermazione di Benedetto, contenuta in Deus caritas est, & 1, quella per cui: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva».

Veniamo ora al suo pensiero. Tutta la sua riflessione risulta segnata dalla grande attenzione rivolta alla dimensione storica, con la quale si misura costantemente. A questo proposito il costante confronto critico con il pensiero hegeliano le ha fornito un qualche apporto?

Certamente. La grande lezione di Hegel è quella di un pensiero che si legittima attraverso la comprensione della realtà storica. Tutto il pensiero post-hegeliano è dominato, in larga misura, da questa prospettiva. Personalmente ho tenuto presente questa lezione in tutta la mia riflessione. Questo non significa, ovviamente, condividere l’impianto idealistico né quello storicistico. L’alternativa non risiede però nel ritorno ad una metafisica fuori del tempo, posizione tipica della neoscolastica, ma nel tener presente la tensione polare tra essenza ed esistenza, tempo ed eternità. Oltre ad Hegel un altro autore ha concorso nel determinare questo orientamento del pensiero: Augusto Del Noce. Filosofo attraverso la storia, Del Noce ha saputo offrire una delle analisi più pertinenti della storia contemporanea intesa come storia filosofica.

Nel 1983 aveva dedicato uno studio alla cristologia hegeliana dal titolo La figura di Cristo in Hegel (Studium, Roma 1983). Quelle pagine sono state di recente aggiornate e riproposte in una nuova edizione (Hegel. La cristologia idealista, Studium, Roma 2018). In questi trentacinque anni come è cambiato il suo approccio alla hegeliana filosofia della religione?

Il mio incontro con la filosofia della religione di Hegel è precoce. Lo devo al corso del prof. Edoardo Mirri seguito alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Perugia nel lontano 1972. Mirri aveva appena curato l’edizione Nohl degli Scritti teologici giovanili di Hegel (Guida 1972). Fui molto impressionato da quella lettura. Era possibile cogliere, in nuce, l’elaborazione hegeliana di una religione filosofica, o di una filosofia religiosa, in grado di competere e di sostituirsi a quella cristiana. Hegel obbligava a scendere sul terreno del confronto tra religione e filosofia, tra fede e ragione. Poneva di fronte allo svuotamento idealistico della dimensione fisica, corporea, centrale nell’Incarnazione cristiana. Scommetteva sul Cristo universale come superamento del Gesù storico. Con Hegel si era al centro del razionalismo moderno. La mia prima riflessione è dominata dall’esigenza di comprendere il livello di questa sfida. Da qui nasce il volume del 1983 da lei richiamato. È, se escludiamo la traduzione del testo di Hans Küng, Incarnazione di Dio. Introduzione al pensiero teologico di Hegel (1971), il primo volume sulla cristologia hegeliana in Italia. Quando nel 2018 l’ho ripubblicato, in una nuova edizione accresciuta, mi sono sorpreso del fatto che non avevo bisogno di modificare in nulla quanto avevo scritto in precedenza. I nuovi studi in materia, compresa la preziosa edizione di Walter Jaeschke delle Lezioni sulla filosofia della religione, mi confermano nelle tesi espresse nel 1983. Quella di Hegel è la più imponente cristologia gnostica dell’era moderna. 

Dal Reich Geist all’ateismo, passando per il dibattuto concetto di secolarizzazione, ovunque l’interesse principale dei suoi scritti sembra essere la comprensione della modernità a partire dal rapporto che questa instaura con l’elemento religioso. In particolare, pare che il fine sia quello di mostrare la difficoltà/impossibilità sperimentata dal pensiero moderno di liberarsi definitivamente di questo aspetto che lei indica come connaturato all’uomo. Si tratta di un’impressione corretta?

Sì, la comprensione dell’era moderna è effettivamente al centro della mia riflessione. Ritengo che non sia possibile orientarsi nel mondo contemporaneo se non si ha una visione preliminare dello sfondo moderno.  Gli studi su Hegel costituiscono un capitolo di questo mio interesse. In qualche modo la mia produzione può suddividersi in due momenti. Nel primo, che arriva fino al volume su L’era dello Spirito. Secolarizzazione ed escatologia moderna del 2008, ho indagato il filone del razionalismo moderno. Nel secondo, che prende l’avvio con il testo su Augusto Del Noce. La legittimazione critica del moderno, del 2011, ho preso in considerazione l’anima liberale della modernità. Diversamente dalla visione consueta, derivata dal modello illuministico-idealistico, per cui razionalismo e libertà coincidono, ritengo che sussista qui una dialettica. Il razionalismo porta con sé la negazione del cristianesimo e, insieme, una transvalutazione religiosa della propria posizione. Il razionalismo si qualifica come fede nell’universale rispetto a cui l’individuale, la persona singolare, non ha un valore autentico. Il particolare deve immolarsi sull’altare dell’Idea (Nazione, Stato, Classe, Partito, Razza, Umanità), l’universale è il luogo della sua salvezza. Questa religione laica, che impera tra ‘800 e ‘900, si richiama indebitamente alla libertà. In realtà confligge con essa, con il valore della persona. E, tuttavia, è innegabile che la modernità porti con sé un impeto di libertà: contro lo statalismo, il nazionalismo, il clericalismo. Anche questo impeto affonda le sue radici sul terreno religioso, non su quello panteistico, però, ma su quello personalistico e trascendente derivato dalla posizione cristiana. L’elemento “critico” è dato dal fattore cristiano, non da quello razionalistico. Si tratta allora di separare questo impeto dall’involucro razionalista in cui, spesso, è avviluppato. A questo tema sono dedicati molti lavori degli ultimi anni. Tra essi l’ultimo Modernità e ateismo. Il dibattito nel pensiero cattolico italo-francese, che esce a marzo per la Jaca Book.

Nei suoi scritti la gnosi è una categoria ricorrente, che lei utilizza quale paradigma interpretativo di molteplici momenti del pensiero moderno mostrandone così l’attualità. Può chiarirne i tratti? La sua lettura potrebbe essere considerata una sorta di risposta alla tesi esposta da Hans Blumenberg in Die Legitimität der Neuzeit, per cui la modernità rappresenterebbe una vittoria sulla gnosi?

Il lavoro di Blumenberg costituisce, indubbiamente, un affresco di grande fascino. In esso l’autore si oppone alle tesi di Karl Löwith e di Erik Voegelin sul moderno come secolarizzazione del cristianesimo. In realtà, come ho mostrato nel mio volume su L’età dello Spirito. Secolarizzazione ed escatologia moderna, anche Blumenberg fa uso, indirettamente, della categoria di secolarizzazione. Questo ci riporta a Voegelin per il quale la secolarizzazione non vale, a rigore, per il cristianesimo ma per la gnosi. Detto diversamente: il filone razionalistico del moderno si appropria di contenuti e dell’orizzonte storico-ideale aperto dal cristianesimo conferendo ad essi, però, un altro significato. Non siamo di fronte ad una semplice “trasposizione” dal cielo in terra, ma ad una metamorfosi, ad una metamorfosi della gnosi. Per questo dicevo prima che il razionalismo costituisce un modello religioso, un modello di salvezza che richiede il sacrificio dell’individuo sull’altare dell’universale. Per la gnosi antica il peccato consiste nel nascere, nel partecipare all’essere di un mondo perverso. Per la nuova gnosi il male consiste nell’individuo separato dall’universale, nella singolarità che si ostina a non risolversi nella sostanza.

Soffermandoci sulla riflessione che lei dedica alla modernità, risulta evidente la volontà di trovare un punto di equilibrio tra la celebrazione di natura illuminista e la reazione antimoderna, cogliendo i rispettivi punti di verità di queste posizioni, a partire da una rinnovata lettura dell’intero quadro storiografico. Potremmo dire che il fine ultimo è lo stesso che lei ha indicato in riferimento al pensiero di Del Noce: una “legittimazione critica del moderno” (Cf. M. Borghesi, Augusto Del Noce. Una legittimazione critica del moderno, Marietti, Genova 2011)? Qual è stato il peso di questo autore in merito?

Il superamento della dialettica tra posizione modernista e posizione reazionaria è, come lei giustamente dice, il punto qualificante della mia riflessione. È impossibile non vedere nell’era moderna valori e ideali a cui non potremmo rinunciare in alcun modo. Anche gli antimoderni più viscerali, non appena è tolta loro la libertà di espressione o i diritti fondamentali, si fanno paladini dei diritti e delle libertà (moderne). Al tempo stesso il modernismo ideologico che giustifica il relativismo antropologico estremo in nome del fatto che così si è “moderni” dimostra di non avere più il senso della storia, di essere subalterno ad ogni folata di vento. Qui la ragion critica si è arresa totalmente alla moda e ai poteri del momento. Per questo la ricerca sulla natura del moderno di cui parlavamo prima, sulla dialettica tra razionalismo e libertà, su totalitarismo e personalismo, è così importante per l’attualità storica. Diversamente si è progressisti o reazionari, si passa dall’una all’altra posizione, come accade oggi, con una facilità disarmante. Una posizione critica permette di comprendere le istanze positive del proprio tempo senza dover, necessariamente, assecondarne le direzioni di marcia. La riflessione di Del Noce, con la sua “legittimazione critica del moderno”, costituisce, senza dubbio, una grande lezione di metodo.

Nei suoi scritti ricorre spesso la categoria di “incontro” che lei mette in luce all’interno di alcune prospettive contemporanee, tra le quali Ratzinger, Giussani, Bergoglio. Può chiarirne l’origine e i tratti, in particolare mostrando la novità che questa apporta rispetto al paradigma dialogico?

La grande categoria di “incontro” consente di riprendere e di attualizzare il filone del pensiero dialogico del ‘900, un filone che parte da Martin Buber e prosegue con Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner, Gabriel Marcel, Emmanuel Lévinas. Si tratta di uno dei filoni più proficui del pensiero del ‘900. Un filone che deve integrare la corrente esistenzialista la quale, da Kierkegaard a Heidegger e Sartre, è, nonostante tutti gli sforzi, solipsistica. Se c’è una scoperta del filone dialogico è che l’ego cogito cartesiano non può costituire un inizio. L’io non comincia interrompendo, attraverso il dubbio, i ponti con il mondo. All’inizio, l’io è relazione. Non c’è io senza un tu che lo precede. Ognuno di noi è stato bambino e se siamo, oggi, la persona che siamo è perché nostra madre ci ha accolti, abbracciati, amati. La madre parla al bambino quando il bambino non sa ancora nulla del significato delle parole. Razionalmente parlando è non senso. Eppure è attraverso questo atto naturale, fiduciale, che investe sul futuro del bambino, che al piccolo si disvela il mondo dei significati. Il bambino si apre al mondo attraverso il tu della madre. Allo stesso modo il bambino diventa “lui”, diventa un “io”, perché la madre si rivolge a “lui”, vuole “lui”, ama “lui”. La percezione della sua identità matura a partire dal nome con cui la madre, o il padre, lo chiamano. Si diventa ciò che si è a partire da una relazione originaria la cui effettualità, positiva o negativa, costituirà il modello analogico per ogni altra relazione successiva.

Dal suo primo studio sulla cristologia hegeliana a oggi lei si è misurato costantemente con la nozione di “dialettica”. In particolare, colpisce l’attenzione il fatto che dopo Hegel il secondo autore del quale si è occupato in maniera approfondita è stato Guardini (Romano Guardini: dialettica e antropologia, Studium, Roma 1990). È stata la teoria dell’opposizione polare ad attirare inizialmente la sua attenzione, come una sorta di “antidoto” alla dialettica hegeliana? E, considerando il recente volume Romano Guardini. Antinomia della vita e conoscenza affettiva, Jaca Book, 2018, a ventotto anni da quel primo studio qual è l’apporto che questo autore ancora oggi fornisce alla sua riflessione?

Il sistema dell’opposizione polare, indagato da Romano Guardini nel suo volume Der Gegensatz del 1925, è stato importante per me perché mi ha chiarito un pensare dialettico non hegeliano. Un pensiero che poi ho ritrovato in un filone della riflessione cattolica tra ‘800 e ‘900, quello, a cui accennavo in precedenza, che inizia con la Scuola di Tubinga di Adam Mölher e prosegue con Erich Przywara, Guardini, Henri de Lubac, Gaston Fessard, sino ad arrivare alla tavola degli opposti di Jorge Mario Bergoglio e alla dialettica storica di Alberto Methol Ferré. Questo modello di pensare consente di comprendere la complessità della vita e della storia secondo una prospettiva dinamica. Anche dal punto di vista tomista l’antropologia si muove nella tensione tra essenza ed esistenza, tra desiderio di vita e destino di morte. Rispetto ad Hegel il paradigma guardiniano consente di distinguere tra “opposizione” (Gegensatz) e “contraddizione” (Wiederspruch), tra piano strutturale e piano etico.  Tutta la dialettica hegeliana risolve la contraddizione nell’opposizione. In ciò v’è, per Guardini, una grande confusione. Nella speculazione idealista il male diventa il contropolo del bene: non può esserci il bene se non c’è il male. Il negativo diviene la molla della dialettica, la premessa necessaria del positivo. È la patologia del romanticismo tedesco che ha permeato tutta la cultura, letteraria-estetico-politica, seguente. Al contrario se, come afferma il pensiero dialogico, l’Altro è il bene che mi precede allora è il positivo che diventa la premessa del positivo. La dialettica guardiniana, con la sua polarità costitutiva permette di fondare una relazione intersoggettiva autentica e, al contempo, di opporsi al monismo panteistico. Permette di stabilire un orizzonte dialogico, multipolare, a fronte del momento presente che, nella crisi della globalizzazione, torna a dividersi secondo movimenti che da polari divengono contraddittori, forieri di future minacce. Nell’opporsi a questa deriva risiede l’attualità della prospettiva guardiniana, come confermo nel volume del 2018 in cui torno a confrontarmi con l’autore italo-tedesco a 50 anni dalla sua morte.

In più occasioni si è soffermato sull’importanza della dimensione estetica, compresa nei termini in cui la presenta Hans Urs von Balthasar nei volumi di Herrlichkeit. Qual è la reale posta in gioco connessa al riconoscimento dell’importanza del bello? Ne va dello stesso coglimento del bene e del vero?

Ho letto il primo volume di Gloria. La percezione della forma, di von Balthasar, nei momenti liberi delle esercitazioni, nel 1978, durante il servizio militare. L’altra lettura era Arcipelago Gulag di Solženicyn, un libro che ben si adattava per comprendere il clima della caserma! Balthasar mi apriva alla dimensione estetica la quale, in consapevole antitesi all’idealismo gnostico di Hegel, aveva il valore della riscoperta del valore della corporeità e della sfera della sensibilità. Subito dopo la laurea avevo indugiato a lungo sulla Fenomenologia della percezione e su Il visibile e l’invisibile di Maurice Merleau-Ponty. Avevo pensato di scriverci un libro. Poi Balthasar ha occupato la scena. Ho scritto un solo articolo su di lui e, tuttavia, la sua influenza sulla mia riflessione è stata rilevante. Balthasar permetteva di situare il polo oggettivo della dialettica polare guardiniana, altrimenti tentata da una deriva psicologistica. Il potenziale idealismo soggettivo, proprio del modello dialettico, trovava nella “percezione della forma” (Gestalt) il suo ancoraggio al principio di realtà. In tal modo diviene possibile pensare ad un superamento della contrapposizione che segna il pensiero cattolico del ‘900: quella tra agostinismo, platonico ed interiorizzante, e tomismo, aristotelico e naturalistico. Il modello guardiniano, adeguatamente ripensato, permette di unire Blondel e Balthasar, dinamismo interiore è “incontro” con l’alterità. Dialettica ed estetica devono potersi incontrare e sostenere in una tensione reciproca.  La dimensione estetica, d’altra parte, non indica solo la “corporeità”, propria e del mondo, ma come lei giustamente dice, la bellezza che rifulge nella realtà. Quella bellezza che solo l’uomo sa realmente cogliere. Merito di Balthasar è di aver riattualizzato il discorso dei trascendentali dell’Essere in una forma accessibile oggi. Il bello, il bene, il vero si coappartengono. Ciò significa che l’eclisse di uno comporta il venir meno degli altri. Se la bellezza scompare, come in un orizzonte funzionalistico, anche il bene si tramuta in utilitarismo e il vero in formalismo tecnico e logico. Allo stesso modo se il bello si distacca dal vero e dal bene si tramuta in estetismo, luccicante quanto vuoto. La densità di senso di ogni trascendentale è legata a quella degli altri. Se scompaiono è l’Essere che diviene oscuro, enigmatico e minaccioso. Jorge Mario Bergoglio, come mostro nel mio volume su di lui, ha pienamente compreso questo pensiero di Balthasar, la sua valenza educativa e la sua attualità nell’orizzonte contemporaneo segnato dal nichilismo.  La testimonianza del bene e del vero è tale solo se in essa risplende un’intima bellezza. Il bene e il vero hanno un’attrattiva. Diversamente non hanno chances nell’universo estetico-nichilistico.

 

 

 

L'autore

Serena Meattini
Serena Meattini
Serena Meattini ha studiato Filosofia presso l’Università degli Studi di Perugia dove, nel 2018, ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in Scienze umane, curriculum filosofico. Dal 2015 è cultore della materia in Filosofia morale e Storia della Filosofia I, presso il Dipartimento di Filosofia, Scienze sociali, umane e della formazione del medesimo Ateneo e, dal 2019, è assegnista di ricerca. Si occupa di filosofia morale con particolare attenzione al pensiero francese contemporaneo.