L'italiano dei nuovi italiani

L’odore della terra in “Rosso come una sposa” di Anilda Ibrahimi

Succede che leggendo un libro tornino in mente ricordi di antiche consuetudini, leggendarie storie che appartengono a noi, a tutti. Anche in Abruzzo il rosso era il colore delle spose, simbolicamente associato all’eros e alla fertilità. Nel Museo delle Genti d’Abruzzo, nella sala 12, è conservato un raro esemplare settecentesco di abito nuziale proveniente da Scanno, arricchito di un bellissimo copricapo.
“Rosso come una sposa” di Anilda Ibrahimi custodisce storie di altre donne, terre ‘altre’ e altri lidi che commuovono e fanno riflettere sulla forza delle donne, custodi delle patrie memorie e tutrici di speranza per il futuro.
«Arriva in una mattina di settembre, in un’arsa stagione dove le piogge tardano a venire. È vestita tutta di rosso. Come il sangue. Come un sacrificio umano dato in dono agli dei per propiziare la pioggia. Come una sposa». Inizia così il romanzo della Ibrahimi, una scrittrice che marca la sua scrittura con il rosso del sangue. Lo stesso colore del velo della nonna – sposa, della passione e del sacrificio: il rosso del comunismo, il colore sanguigno della bandiera shqiptare, della terra delle Aquile.
È una sposa quindicenne Saba, dall’aria assente, un uccello spennacchiato in un giorno di sole come rimedio alla morte della sorella dagli occhi verdi, Sultana. Non era stata baciata dalla fortuna la bionda ed esile Saba: sua nonna lo era. Meliha e Habib si erano innamorati a prima vista e, dal loro amore, erano nati quattro maschi e cinque femmine, tutti cresciuti nella loro casa dal tetto rosso. Saba era l’ultima, figlia della “crusca”, ma anche l’unica ragazza ad aver frequentato la scuola.
La Ibrahimi dedica il suo romanzo alla “vera” nonna, Salihe, «gradino tra vivi e morti», e affida la narrazione alle voci femminili della famiglia Buronja. Un romanzo corale e polifonico della storia albanese, in cui il tempo è scandito dalla descrizione dei luoghi, confusi nei ricordi di donne epiche, «omeriche»: vecchie madri che portano il peso della memoria da cantare e riannodare al presente, come i fili colorati di un qilim  (tipico tappeto albanese). Con austera  dignità  portavano il fardello di accasare le loro figlie con un buon partito: diventare suocera e sposare il figlio maschio era la loro massima aspirazione. Vite trascorse ad accudire corpi giovani e vecchi, lavorando la terra con le mani e scavando fosse per il sonno eterno. La voce che aveva sussurrato dolci parole all’orecchio  era la stessa che cantava i lamenti e le grida di dolore soffocate e inghiottite dalla terra calda che, insieme ai corpi, seppelliva vecchi rancori e maledizioni di cuori aridi.
Il racconto è diviso in due parti e ha una struttura ciclica: narra la condizione della donna shqiptare. La nipote Dora continua a raccontare ai morti le vicende di quattro generazioni a partire dal 1923, ai tempi del re Zog (“uccello”, raro appellativo assegnato a un uomo!). Le litanie della nonna agli antenati sono rinnovate dalla nipote, ma l’italiano di Dora non può essere inteso dallo spirito della nonna che parla solo l’antica gjuha shqipe. La lingua albanese, tramandata  per via orale, appartiene alla famiglia linguistica indoeuropea ma ha origini millenarie, quando gli Illiri si insediarono in area balcanica occidentale. La figura surreale di Saba, una comunista dall’ideologia marxista, spicca per la sua forza e determinazione. Una donna libera, non sottomessa al marito, padrona della sua vita. Persino in fatto di bellezza anticipa i canoni di qualche decennio!
“Rosso come una sposa”  racconta la storia della gente di un villaggio nel sud dell’Albania e, insieme, un pezzo della storia dei Balcani. Kaltra, il «villaggio socialista», è un paese azzurro nascosto tra le montagne. Azzurro, come il fiume che corre verso il mare; freddo, come il temperamento dei fieri montanari; e, nello stesso tempo, secco, come il clima dei monti irti da sembrare coltelli ben affilati. L’indeterminatezza del paese segna anche i destini dei suoi abitanti. La lontananza dalla città non permette l’aggiornamento alle leggi e la distanza fa dimenticare ai padri in preda ai fumi dell’alcol persino i nomi dei figli, al momento della registrazione. I nomi delle figlie spesso vengono scelti in base alla fantasia dell’impiegato di turno. Sono i maschi quelli che contano per trasmettere la discendenza: le donne sono una disgrazia, servono solo a badare ai figli e alla cucina. O a estinguere i debiti di sangue.

Tanti sono i morti e tante le disgrazie nella trama del libro. Eppure, la Ibrahimi stupisce per la positività, l’amore per la vita, il coraggio e la lungimiranza delle donne che mantengono in vita gli antenati mentre leggono il futuro nei fondi del caffè turco e tessono le fila dei sopravvissuti. Sono donne umili, legate all’humus: l’unica condizione che il vocabolario ammette, perché il termine ‘umile’ in albanese non esiste. Alla fine del libro, la scrittrice colloca i suoi conterranei  «tutti dalla stessa parte»: «fortunati»  li definisce, trovandosi tra due mondi, l’Occidente e l’Oriente.

Dora passa l’infanzia tra le donne della sua famiglia, con le mani piene di zucchero, assorta tra i dolciumi: gurabie, kadaif, llokum, bakllava nei giorni di festa e revania nei giorni di lutto. Giorni trascorsi sorbendo caffè turco e chiacchierando di uomini,  prendendosi cura del loro corpo – l’acqua di fiori di bosco era una rarità – e dei capelli, sciacquati con la camomilla per renderli brillanti! Questi ricordi riaffiorano ad ogni apertura della cassapanca, di legno o di ferro, ereditata di madre in figlia,  che custodiva vestiti, specchi, oggetti vari e incantesimi dei bei tempi passati. Insieme ai ricordi c’è l’odore delle mele cotogne che perdura di stagione in stagione, spesso maturate dentro la cassapanca, con il loro profumo antico che sa di miele e di sapore acidulo e dolce. L’Amygdalus persica era il frutto di Venere, simbolo di fecondità e di buon auspicio.

Anilda Ibrahimi parla con il linguaggio dei fiori e delle cose mute: il colore rosso delle spose e l’odore forte e violento delle mele cotogne; l’abbigliamento stravagante di zia Esma pazza del suo uomo; l’immancabile nero dei vestiti e delle disgrazie di nonna Saba; il tailleur beige della compagna Klementina, unica donna a non avere voce in capitolo, forse troppo impegnata nel progetto della costruzione della nuova ferrovia o nella distruzione di chiese e moschee. Nel suo progetto dell’uomo nuovo, Hoxha proponeva di abolire ogni traccia di religione. Dio però era uguale per tutti, turchi e greci, mussulmani, ortodossi e ҫifut (comunità ebrea) e le feste erano per tutti i bambini. Gli albanesi ebrei sfuggiti allo sterminio cambiavano nome, isolandosi nel loro pacato silenzio, tra le preghiere e l’odore di naftalina delle loro stoffe colorate. Capitava anche che il prete cantasse le sure del Corano al posto dell’imam! Lo sciamano aveva i suoi seguaci e le maghe maghyp curavano il corpo e l’anima coi loro riti propiziatori. Questo succedeva prima della caduta del comunismo. Dopo arrivarono gli stranieri e l’Albania iniziò a bruciare con la fiducia di una fenice che sarebbe rinata dalle sue ceneri.
La guerra e la dittatura di Enver Hoxha hanno lasciato segni invisibili nella memoria degli albanesi: una memoria bianca, «come le lenzuola profumate di lisciva», e rossa, come le tegole che risuonano a ogni goccia d’acqua che sa di rose sciroppate. Questi ricordi hanno l’aroma secco e pungente di petricore dopo un temporale estivo. È il nome dell’odore rilasciato dalla terra arsa, al contatto con le gocce d’acqua. Un miscuglio che  raccoglie  sostanze di origine vegetale o animale, si solleva da terra, essuda (icore), raggiunge le nostre narici e ci dona sollievo, dopo aver bagnato alberi, piante, terra, asfalto, in campagna e in città. La linfa della terra fa sentire il suo odore di cenere e sangue, l’asprigno misto al dolciastro e all’amaro del caffè, offerto in dono ai marmi gelidi delle tombe, in una sinestesia perfetta che mantiene in vita il legame tra vivi e defunti.
Per gli albanesi anche la pioggia ha una sua memoria. E un suo profumo. Quello della terra madre.

ermira81@virgilio.it

L'autore

Ermira Shurdha
Ermira Shurdha
Ermira Shurdha è nata in Albania nel 1981. Si è trasferita nel 1993 in Italia appena adolescente. Oggi vive con la sua famiglia in Abruzzo, regione eletta per crescere le sue due figlie. Dopo una formazione scientifica si è dedicata alla sua vera passione, le lingue straniere, laureandosi all’Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti - Pescara con una tesi sull’opera teatrale di Antonio Buero Vallejo. Nel 2017 ha conseguito una laurea magistrale con una tesi dal titolo “Últimas tardes con Teresa, més que una història”, romanzo eversivo ambientato nella Barcellona degli anni cinquanta di Juan Marsé, Premio Cervantes nel 2008 e prolifico scrittore di testi in castigliano. Ha analizzato l’opera data alle stampe nel 1965, all’interno del contesto storico - culturale catalano, con particolare attenzione al linguaggio musicale e cinematografico, associazioni con la poetica neorealista felliniana, accordando la critica in lingua spagnola, catalana e inglese alla cronaca degli amanti in sottofondo. Sempre attratta dalle tendenze creative del mondo della moda, attualmente gestisce una boutique di abbigliamento fondata nel 1991 a Giulianova.