L'italiano dei nuovi italiani

La scrittrice alle prese con il suo daimon. Ermira Shurdha conversa con Anilda Ibrahimi

Anilda Ibrahimi è nata a Valona, classe 1972. Ha studiato letteratura e lettere moderne all’università di Tirana. Lascia l’Albania nel 1994 per trasferirsi in Svizzera e poi in Italia, a Roma, dove attualmente vive e lavora. Il suo primo romanzo Rosso come una sposa è stato pubblicato da Einaudi nel 2008 e ha vinto i premi Edoardo Kihlgren – Città di Milano, Corrado Alvaro, Città di Penne, Giuseppe Antonio Arena. Segue il romanzo L’amore e gli stracci del tempo (2009 e 2011, di cui sono stati opzionati i diritti cinematografici, premio Paralup della Fondazione Nuto Revelli). Nel 2012 pubblica Non c’è dolcezza e nel 2017 Il tuo nome è una promessa, aggiudicandosi il Premio Rapallo Carige per la donna scrittrice.

 

I suoi romanzi contengono storie di tempi e terre “altre”, un rezzaglio di ricordi d’infanzia, un universo femminile che custodisce una cultura orale sconfinata: la cultura millenaria albanese. Ci può regalare i nomi della sua memoria, quella che ha migrato insieme a lei, composta da persone reali che vivono dentro la sua scrittura materiale?

Non ci sono nomi nella mia memoria, o meglio, sì, ci sono ma non hanno alcuna importanza. La letteratura per me è quel luogo dove l’autore fa in modo che un argomento che lo riguarda diventi qualcosa che riguarda tutti. I miei romanzi fanno parte della collana “I coralli” e attingono a una memoria collettiva. I ricordi sono migrati con me e, mentre interagivano con un nuovo luogo e una nuova lingua, sono diventati una cosa diversa, o meglio sono diventati anche “altro”. I ricordi, non essendo un archivio di produzione ma un qualcosa di statico, hanno preso forma e vita nei miei romanzi con una nuova voce. Abituata a una trasmissione orale, la mia narrazione mantiene quella cifra in quasi tutti i miei romanzi. I capitoli, alla prima lettura, sembrano frammentati, fratturati: sono quelle fratture che si creano durante le migrazioni. Successivamente si ricompongono altrove, lasciando segni indelebili. Solo dopo aver finito il romanzo, il lettore vede ricomposto il tutto e capisce il senso di questo procedimento.

La donna albanese descritta nelle sue pagine è una donna resiliente, capacità affinata nel corso di vari secoli. Vari ritratti della donna shqiptare sono presenti nel suo primo romanzo Rosso come una sposa: la sua inclinazione alla positività, alla speranza di migliorare il presente e avere fiducia nel futuro sono esplicite. Metaforicamente, la si potrebbe associare alla cultura orientale e alla pratica del Kintsugi, antica arte giapponese che ripara, impreziosisce e ricongiunge le cicatrici, i cocci, con oro e altri metalli preziosi, donando nuova vita alla ceramica. Secondo lei, oggi, la donna albanese dove trova la luce e la forza per riunire i “pezzi” e diventare intera e integra?

Ho raccontato una donna che ripara, che ricuce con ago e filo gli strappi, i torti subiti nel quotidiano, abitando in lei un sentimento di pietas che va persino oltre la comprensione della vita e del mondo. In Rosso come una sposa l’arco temporale riguarda i primi del ‘900 fino alla caduta del comunismo. La donna albanese d’oggi non sono riuscita ancora a raccontarla. Mi mancano dei pezzi di storia. Mancando dall’Albania dal 1994, racconto il mio percorso e quello di tante altre donne come me. Non sono sicura, però, se sono solo una donna albanese o se sono anche altro. La mia identità non è più solo di una donna albanese, vissuta in una lingua e cultura “isolata”, simile per certi versi ma diversa per altri. Sono e siamo diventate “altro”.

Nel suo ultimo romanzo Il tuo nome è una promessa narra di un progetto di rinascita della nazione incarnato da due donne, Abigail e Rebecca, con l’aiuto di un assistente fotografo abituato a lavorare per frammenti. Andi, come un fotoreporter, riannoda i fili di una memoria commossa, tema fondamentale in tutti i suoi romanzi, ma è anche un collante per diverse vite spezzate, sradicate, ricostruite in un documentario.

È esattamente quello che faccio in tutti i miei romanzi: riannodare i fili della memoria, trovare le tante vite spezzate dalla Storia, le piccole esistenze che si trovano in mezzo per ricostruirle. Non saprei dire se è un mio modo per riparare i danni della Storia, dare una risposta a chi non l’ha mai avuta, o solo un mio bisogno personale per sanare le mie ferite. M’interessa molto lo sradicamento. A momenti, in modo pressoché ossessivo, seguo passo dopo passo il quotidiano degli sradicati, ciò che accade realmente, come la grande epica insegna, quando succede qualcosa di più grande di loro e l’eroe è costretto a partire. E quel viaggio cambia per sempre l’eroe e il suo mondo. Solo che i miei eroi sono persone normali, sono coloro che non avevano scelto di partire per compiere atti eroici e non era nemmeno spinti da grandi ideali: non erano i prescelti. I miei personaggi conquistano una loro identità all’interno della Storia e il loro destino cambia per sempre.

In Rosso come una sposa già si intravedeva uno spaccato di storia poco conosciuto, in cui lei «ricorda mirabilmente una pagina di Storia dimenticata», prendendo in prestito le parole di Alessandro Leogrande. Anch’io ero ignara della vicenda degli ebrei salvati dagli albanesi e sono rimasta affascinata dalla sua descrizione, una realtà totalmente in contrasto con i sentimenti ostili e violenti della realtà quotidiana. Ci può descrivere questo esempio di civile e armoniosa convivenza di religioni che esisteva in Albania prima dei burrascosi anni ’90?

La cronaca degli ebrei salvati dagli albanesi durante la seconda guerra mondiale è una storia che non conoscevo nei particolari. L’ho scoperta in seguito a una mostra fotografica di Norman Gershman nel 2009. Appena conclusa la visita, sapevo già che ne avrei parlato in un libro. Mi piace scavare nelle viscere dimenticate della Storia e dare una risposta, a mio modo, semplice e senza troppe pretese. Così, ho ricostruito le vite di persone realmente vissute, di oltre 2000 ebrei. È una storia complicata: tanti di loro erano arrivati prima dell’occupazione fascista e solo alcuni erano sopravvissuti a quella nazista. Parecchi sono riusciti ad andarsene subito dopo la guerra ma non tutti. C’è chi, invece, è stato costretto a rimanere per sempre in Albania con la chiusura del regime. Lo stesso paese che li ha salvati, li ha tenuti prigionieri per sempre. Eppure, in Albania ha sempre prosperato un’armonia religiosa, una convivenza civile tra le religioni, perché la fede unisce e non divide. Un sincretismo religioso che risale alla notte dei tempi, un substrato unico per tutte le religioni poco analizzato in Albania, paese fiero e poco incline alla conciliazione e fusione di fattori culturali, economici e politici, che sopravvive grazie alla tradizione orale.

C’è un detto albanese che assume una particolare rilevanza nelle sue narrazioni, «L’uomo in casa non è che ospite». Un concetto matriarcale assunto come forma interna di potere dell’anziana madre, in cui l’uomo fa da contorno, perso tra i fumi dell’alcol, considerato talvolta un accessorio, spesso un fardello, mentre la donna è colei che gestisce e governa la casa. Le società matriarcali caratterizzano il sud dell’Albania, e insieme, tutti i sud, in contrasto con il Nord, fortemente maschilista e trainante, contraddistinto dal Kanun di Lek Dukagjini. È questa una condizione che caratterizza anche oggi il popolo e la cultura albanese?

Purtroppo, vivo lontano dall’Albania da oltre 25 anni e non ho gli elementi per un’analisi accurata del matriarcato del sud in tempi recenti. Ho raccontato di quel matriarcato diffuso grazie alla trasmissione al femminile di una storia collettiva che riguardava tutti. Gli uomini erano spesso assenti, erano altrove, alcuni in guerra, altri lavoravano lontano per sostenere la famiglia, molti erano al bar del paese per bere rakia con gli amici. Erano le donne a rimanere in casa. Tramite le ninna nanne e le storie degli antenati, trasmettevano anche un’educazione ai figli. Una cultura matriarcale forte echeggia in tutti i miei romanzi.

Nel suo libro L’amore e gli stracci del tempo scrive degli effetti dello scorrere del tempo e dell’amore, anzi degli amori al plurale. C’è una frase che mi è particolarmente cara, «La sorte può essere crudele, trasforma le persone in lettere mandate al momento sbagliato a chi è in ritardo, a chi è in anticipo». La sorte, nel suo caso, ha giocato d’anticipo o è lei che è riuscita ad assecondare i capricci del fato con caparbietà e determinazione?

Sono fatalista e questo aspetto viene fuori in ogni mio romanzo. La sorte, intesa come fato immutabile ed eterno, ahimè, è un concetto “mitologico”, che ha plasmato la mia indole sin dai primi anni dell’infanzia e non riesco a liberarmene, nonostante le sovrastrutture culturali. Il fato di solito si accetta e basta, e io ho accettato quello che mi è toccato in sorte con il profondo fatalismo che mi abita da sempre.

In Non c’è dolcezza scrive di Lila ed Eleni e della nostalgia «tagliente». Ancora i legami di sangue, l’identità, la superstizione, le radici e il destino, quello che «ci portiamo addosso insieme al nostro respiro». Appare la figura della tzigana Asma che ricorda la bella Esma in Rosso come una sposa. Quali sono le caratteristiche che hanno in comune queste due donne e quanta «tristezza» attraversa le loro vite?

Nei miei libri parlo spesso anche di queste figure femminili “altre”, molto diverse da Saba o Meliha. In fondo, alla mia generazione è mancata un’educazione sentimentale e gli archetipi della letteratura non potevano colmare tutto il vuoto. Quindi, cercando nella mia memoria familiare e in quelle narrazioni femminili, ho trovato Esma e anche la tzigana, e ho dato vita a due personaggi straordinari. Io stessa sono una donna che nel suo quotidiano cerca di “ricucire”, di curare, di esserci. Ma poi sono anche “altro”, divento Esma e divento anche la tzigana che si strugge per la tristezza e si logora per le assenze e le mancanze. Divento fatalista quando penso che la mia vita non poteva essere diversamente con un passato come il mio. Il mio prossimo libro parlerà proprio di questo, l’educazione sentimentale che è mancata a noi ragazze, di come siamo diventate donne cercando una strada nuova tutta nostra.

Interessante! Grazie per questa anticipazione editoriale. Cambiamo registro e torniamo alle sue origini, alla passione per la poesia. La sua carriera inizia con le poesie di Cristallo di tristezza, inserita in due raccolte antologiche, “Quaderno balcanico I, Loggia de Lanzi” e “Lingue di terre, lingue di mare”. Della sua vena poetica sono permeati anche i suoi romanzi che, crudi e violenti nella passione, sfidano le avversità della guerra e della Storia che sopprime e risparmia. Non ci sono eroi forti nelle sue storie, né vittorie o ricompense, ma sacrifici e sopravvissuti, stralci di vita strappati alla morte descritte con dolcezza. Cum lenitate asperitas, scriveva Gabriele D’Annunzio.

Sì, ho scarabocchiato qualche poesia da giovane, ma non mi reputo una poetessa, purtroppo. Credo di averlo capito in tempo per cambiare strada e dedicarmi alla narrazione. Ciò che resta è la lirica, anche se a volte trattenuta, quella che si respira nelle mie storie. Sì, è vero, le mie storie sono a volte molto crude, ma senza la presunzione di stabilire alcuna verità, senza vincitori né vinti. In un certo senso, affermo una sconfitta nello sradicamento che racconto senza retorica, con pietas. Tutto trattato con dolcezza, come diceva D’Annunzio, che tra l’altro apprezzo molto.

Lei si esprime con il linguaggio dei fiori e delle cose mute. Adoro l’incipit di Rosso come una sposa: «Vestita di rosso. Come il sangue. Come un sacrificio umano dato in dono agli dei per propiziare la pioggia». Pioggia purificatrice e salvifica, custode di ricordi dall’aroma secco e pungente di petricore dopo un temporale estivo. La linfa della terra dall’odore di cenere e sangue, in una sinestesia perfetta che mantiene in vita il legame tra vivi e defunti. La pioggia per lei ha dunque una memoria?

La conservazione della memoria per me ha il ritmo della pioggia, ha l’odore della terra dopo la pioggia, ha il volto delle foglie cadute che affidano il loro destino ai ruscelli d’acqua per le strade della mia città dopo il temporale. Qualcosa che ha a che fare con la mia infanzia piena di pioggia. La pioggia per me diventa il discèrnere tra quello che accadeva nel quotidiano e ciò che sopravviveva nel ricordo per diventare eterno. Appunto, un legame tra vivi e morti.

Discèrnere, quindi, distinguere il bene dal male e guardare dentro il nostro abisso, riorientare il nostro sguardo e governare i nostri cuori docilmente con saggezza. Grazie di cuore per questa piacevole intervista e buona fortuna per il suo nuovo libro.

L'autore

Ermira Shurdha
Ermira Shurdha
Ermira Shurdha è nata in Albania nel 1981. Si è trasferita nel 1993 in Italia appena adolescente. Oggi vive con la sua famiglia in Abruzzo, regione eletta per crescere le sue due figlie. Dopo una formazione scientifica si è dedicata alla sua vera passione, le lingue straniere, laureandosi all’Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti - Pescara con una tesi sull’opera teatrale di Antonio Buero Vallejo. Nel 2017 ha conseguito una laurea magistrale con una tesi dal titolo “Últimas tardes con Teresa, més que una història”, romanzo eversivo ambientato nella Barcellona degli anni cinquanta di Juan Marsé, Premio Cervantes nel 2008 e prolifico scrittore di testi in castigliano. Ha analizzato l’opera data alle stampe nel 1965, all’interno del contesto storico - culturale catalano, con particolare attenzione al linguaggio musicale e cinematografico, associazioni con la poetica neorealista felliniana, accordando la critica in lingua spagnola, catalana e inglese alla cronaca degli amanti in sottofondo. Sempre attratta dalle tendenze creative del mondo della moda, attualmente gestisce una boutique di abbigliamento fondata nel 1991 a Giulianova.