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Pablo Pesado Rodríguez intervista Laura Villar Gómez

Laura Villar Gómez (Santiago de Compostela, 1992) si è laureata in Filologia Ispanica presso la Universidade de Santiago de Compostela, dove ha ottenuto anche il Master in Studi della Letteratura e della Cultura. Ha scritto articoli per riviste come Quimera o Clarín ed è collaboratrice abituale di Ocultalit, dove si occupa soprattutto di poesia giovanile contemporanea. Sue poesie sono apparse in riviste e siti letterari come Álastor (Nicaragüa), Vallejo&Co (Perú) o Emma Gunst (Argentina); la ciudad (Ediciones Liliputienses, 2019) è la sua prima raccolta di poesie.

Entrevista a Laura Villar

(dijo la luz es cegadora / cuando sale de tus ojos / cuando sale de tus manos es caricia / dijo también es fuego / cuando viene de tu boca)

Abandonábamos la ciudad

unos instantes,

cada día, las luces disueltas

en cristal de escaparate,

los edificios convertidos

en reflejos de asfalto.

Y es que abandonábamos

la ciudad a veces por las tardes,

de forma consciente,

como quien abandona el gas

abierto con la cabeza metida

en el horno.

A veces era por las noches. Había

un lapso de tiempo en que la ciudad

se desvanecía como nube o cigarrillo

porque a veces,

al encontrarse las miradas

como puentes o gaviotas,

nos perdíamos del mundo.

 

(disse la luce è accecante / quando esce dai tuoi occhi / quando esce dalle tue mani è carezza / disse è anche fuoco / quando viene dalla tua bocca)

Abbandonavamo la città

durante attimi,

ogni giorno, le luci dissolte

in luci di vetrina,

gli edifici trasformati

in riflessi d’asfalto.

E abbandonavamo

la città a volte di sera,

in modo cosciente,

come chi lascia il gas

aperto con la testa messa

nel forno.

A volte era di notte. C’era

un lasso di tempo in cui la città

svaniva come nube o sigaretta

perché a volte,

incrociandosi gli sguardi

come ponti o gabbiani,

sparivamo dal mondo.

 

la ciudad, che è stato pubblicato appena due mesi fa, si apre con una citazione di Claudia Caparrós che afferma che “il XXI secolo è il vero secolo dei lumi”. Da questo momento in poi, le luci non smetteranno di apparire: semafori, mozziconi di sigarette e accendini, schermi di computer che sembrano firmamenti di stelle… “Luces. / Dadme luces / que me acerquen / a la eternidad del día” (“Luci. / Datemi luci / che mi avvicinino / all’eternità del giorno”). Perché questa prominenza della luce?

Uno dei temi fondamentali della città è la solitudine. Una solitudine che è di due tipi, individuale e collettiva. Sento, o almeno questa è la mia esperienza, che le persone che si sentono sole si rifugiano in luoghi di luce, come bar o centri commerciali, perché, in realtà, ciò che indica la luce è che ci sarà compagnia. I luoghi vuoti raramente si accendono: le strade deserte, le case vuote. Ad esempio, io da bambina avevo paura di dormire da sola e combattevo quella paura con la luce del comodino o del corridoio. Luce significa “mi sento un po’ meno sola”, e “meno sola” significa “non mi può succedere niente di male perché c’è qualcuno che veglia su di me”.

Per quanto riguarda le luci legate alla solitudine collettiva, è qualcosa che si rimanda a molte delle caratteristiche della mia generazione. Tutti noi siamo cresciuti con i display. In molti casi, comunichiamo con il prossimo più attraverso gli schermi che di persona, faccia a faccia. Oltretutto, il panorama lavorativo attuale implica in molti casi dover andarsene lontano da casa, e tutto ciò ci porta a sopperire la solitudine attraverso questi nuovi apparati e le luci che essi irradiano. 

La luminosità è stata tradizionalmente un attributo della città, ma nel tuo libro rivendichi il buio che cala quando finalmente le luci si spengono. Si tratta di un modo per sostituire l’immagine luminosa propria del contesto urbano?

Il motivo per cui il libro rivendica il buio si deve, ritornando all’idea delle luci come artefici di una compagnia artificiale, alla volontà di recuperare i rapporti frontali, le relazioni reali invece degli schermi.

Pensiamo le città come spazi in cui siamo sempre accompagnati, perché nelle grandi città ci sono sempre luoghi aperti dove possiamo stare con altre persone. Ma quelle luci, quelle compagnie, non sono reali. Sono transitorie, irreali, creano una sensazione di compagnia che finisce appena lasciamo quegli spazi o le luci si spengono. 

Tornando alla citazione presente all’inizio del testo, è accompagnata da un’altra di El futuro es un bosque que ya ardió en alguna parte di Juan Bello. Mi è sembrato, leggendo la ciudad, che ci fosse un chiaro desiderio di dialogare con la poesia giovanile attuale, in particolare con quella galega. C’è un tentativo di concepire la tradizione in senso orizzontale, come insieme di autori contemporanei, e non come rievocazione del passato?

In realtà, quando scrivo, credo di non dialogare con altri autori. Almeno non consapevolmente. Io concepisco la scrittura, piuttosto, come una forma di monologo interiore in cui ho bisogno di catapultare me stessa all’esterno.

Oltre a tutto ciò, è evidente che ci siano nelle poesie che scrivo influenze di poeti che leggo, come Claudia Caparrós o Juan Bello, ma anche Unai Velasco o Vicente Vázquez Vidal. Leggo le giovani autrici perché mi identifico con loro, e questo presuppone una lettura orizzontale della letteratura. Tuttavia, ho letto e leggo scrittrici già consacrate, negare il peso di queste letture sarebbe un errore. Sebbene ora preferisca la poesia giovanile, principalmente per quel legame diretto che sento con le sue creatrici, tutto ciò che uno ha letto finisce per influenzare, in qualche modo, il suo modo di scrivere.

Che opinione hai sulla poesia attuale? Ritieni che sia vero che stiamo vivendo un momento felice per la poesia galega e spagnola?

Credo che l’ascesa dei social network abbia contribuito molto allo scenario ottimistico che presenta la poesia oggi. Penso che si debba a due motivi fondamentali. Il primo è che attraverso questi social network puoi facilmente entrare in contatto con altri autori, qualcosa che prima era ben più complesso. Oggigiorno la lettura intergenerazionale è molto più semplice. Ad esempio, le poetesse mettono le loro opere su blog o le condividono con le loro amicizie su Facebook. D’altra parte, l’aumento di siti web come Instagram, in cui l’immagine è la cosa più importante, rendono la poesia il formato più adatto per i social network. Con la sua immediatezza, con la sua brevità, risponde alle caratteristiche richieste dai social. È in questo contesto che è circolato un buon numero di poeti, sia in Galizia che nel resto dello stato.

Mi sembra sicuramente positivo che, in relazione alla poesia galega giovanile, stia iniziando a venir meno la barriera della lingua, e che le autrici che scrivono in galego stiano oltrepassando, finalmente, i confini locali. In questo senso, il lavoro di case editrici come Tulipa o Papeles mínimos, che pubblicano le opere di scrittrici in edizioni bilingue, come Os afluentes di Vicente Vázquez Vidal, o 13. Antoloxía da poesía galega próxima, curata da Maria Xesús Nogueira, è importante. Ma sono importanti anche i festival, come il Festival de Poesía Joven de Alcalá de Henares, in cui è stato ospite Ismael Ramos; o di riviste come Oculta Lit, che diffondono le opere di poeti indipendentemente dalla loro lingua di creazione.

Hai scommesso su una struttura binaria: una prima parte fra parentesi con versi separati da slash e una seconda metà più tradizionale in cui la fine del verso è anche il finale. È come se ogni poesia de la ciudad nascesse da un pensiero iniziale, rapido, furtivo, e successivamente lo chiarissi attraverso una glossa poetica. Sei d’accordo?

la ciudad è un dialogo tra il conscio e l’inconscio, tra questa prima parte, in cui il flusso di coscienza è approssimativo, e la seconda, più cadenzata, più meditata. Per quanto riguarda il processo di composizione, non sempre corrisponde all’ordine di scrittura; cioè, prima la parte cosciente e poi la corrispettiva glossa. Ma il risultato finale è quello che mi ero prefissa. Ho scritto le poesie in poche notti; mi sono sentita come se mi fossi liberata da un peso enorme. Dopo di ciò, ho dedicato quasi cinque anni alla loro riscrittura, quindi la composizione è stata lenta e ogni poesia ha subito molti cambiamenti. Ma l’idea strutturale, in sostanza, è quella: creare un dialogo tra la parte incosciente – più animale, più selvaggia, che invita a bruciare le città e ad abitare le ombre – e quella cosciente, contenuta e cauta.

C’è anche una forte tendenza apocalittica che attraversa tutto il libro, che emerge qua e là come un orizzonte inevitabile. Penso a versi come “Los tiempos en que la ciudad aun respira / están a punto de agotarse” (“I tempi in cui anche la città respira / stanno per esaurirsi”). Può essere un tratto epocale, un esempio che iniziamo a pensare alla fine delle cose, all’estinzione, come a una possibilità reale? Qual è il finale a cui hai pensato quando hai scritto versi come questi: “ahora entiendo que nunca / habrá un siempre / si en la ciudad no queda nadie” (“ora capisco che mai / ci sarà un sempre / se nella città non c’è più nessuno”)?

Per quanto riguarda il tratto epocale, sono abbastanza d’accordo. La nostra generazione sta vedendo che tutto ciò che ci hanno promesso che avremmo potuto ottenere (un buon lavoro, raggiungere i nostri sogni, insomma, questo genere di cose) è molto più difficile di quello che ci è stato detto, e persino, in molti casi, impossibile. Siamo la generazione dei lavori precari, dell’emigrazione per lavoro, dei contratti spazzatura. Siamo anche la generazione della solitudine, perché molte delle nostre amiche sono lontane a causa di tutto ciò. Spesso siamo condannate ad andare lontano o a dovere rimanere, limitando così le nostre prospettive future. Sotto molti punti di vista, e con tutte le precauzioni del caso, siamo più simili alle nostre nonne che ai nostri genitori, perché sono state le prime a essere costrette a cercare fortuna altrove, lontano e soffrendo quella solitudine di chi si sente fuori posto.

Ne la ciudad si parla di quest’apocalisse in un doppio senso. Da una parte, quella che prefigura il mondo che stiamo costruendo, che finirà per cadere a causa del suo stesso peso. Dall’altra, la tanto desiderata fine: bruciare i marciapiedi, le strade, cancellare tutto come un modo per rinascere.

Mi è parso di riscontrare due approcci molto diversi nei confronti della città e, per estensione, della tecnologia e della modernità. Da un lato, la città è uno spazio di rigidità e oppressione, incapace di permettere esperienze che essa stessa non ha predisposto. Dall’altro, la città è l’ambientazione della memoria adolescenziale, ed è spesso invocata per recuperarla come fonte di nuove esperienze: “la ciudad somos nosotros” (“la città siamo noi”). Quale visione dovrebbe predominare?

Credo che entrambe le visioni coesistano, senza necessariamente dover predominare l’una sull’altra. La ciudad è stata scritta in un momento in cui ero appena uscito da una relazione molto nociva, e il posto in cui mi trovavo era sia oppressivo – perché proveniva da uno molto negativo – che libero – perché la stessa città mi aveva dato degli spazi per ritrovarmi.

Credo che i luoghi siano ciò che abbiamo vissuto in ognuno di essi. Non ci sono città belle o brutte, perché l’obiettività rispetto alla bellezza non esiste. Quindi, sono ciò che vogliamo che siano, o ciò che abbiamo vissuto in esse. La città del libro è il presente, ma anche il passato e la sua proiezione verso un futuro che spaventa ma è ugualmente emozionante.

Per finire, so che durante  tutta la tua vita hai vissuto in diverse città, ma qui sembra che tu stia pensando più a Santiago de Compostela che a Barcellona. Bisogna decentralizzare l’immaginario urbano, togliere protagonismo alle macrocittà e alle grandi capitali?

Piuttosto che togliere protagonismo, ciò su cui scommetto è vedere la realtà così com’è, non deificare le macrocittà e focalizzare l’attenzione su spazi non urbani, che sono stati oltraggiati o glorificati, perdendo così la cognizione con la realtà. Nel mio caso, ho scritto la ciudad a Santiago, dopo un soggiorno a Barcellona, e tutti i paesaggi che ho descritto rimandavano  proprio a Barcellona: gli angoli, i marciapiedi, le vetrine dei negozi. In ogni caso, la poesia che c’è in la ciudad è una poesia senza aggettivi, senza posizioni o nomi, e anche senza pronomi. È una poesia nuda, in modo tale che la città può essere, in realtà, tutte le città. Come autrice, mi piace dislocare i paesaggi in modo che le altre persone vi si possano identificare, ossia, siano in grado di trasferire ciò che viene raccontato nelle poesie alla loro realtà. È bello quando mi chiedono se mi concentro su questa o quella città, perché, davvero, penso che non importi la posizione esatta. Può essere qualsiasi posto, ciò che conta è il contenuto stesso, ciò che accade in quel luogo. Ma lo spazio, alla fine, è solo un contesto che definisce ciò che accade, ciò che è veramente importante. In ciò risiede l’universalità della poesia.

(Traduzione di Marco Paone)

L'autore

Pablo Pesado Rodriguez
Pablo Pesado Rodriguez
Pablo Pesado Rodríguez (1992) ha studiato Filologia Ispanica presso l’Universidade de Santiago de Compostela e un Màster en Estudis Comparatius de la Literatura, Art i Pensament presso l’Universitat Pompeu Fabra. Attualmente frequenta il Dottorato di ricerca nella area di Studi della Letteratura e della Cultura presso l’Universidade de Santiago de Compostela. Si occupa dal punto di vista politico del romanzo galego scritto tra il 1960 e il 1980.