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La leggenda di Zagor. Tra capanne di legno e mondi lontanissimi

Tutti in piedi. Arriva Zagor, signore di Darkwood, personaggio dei fumetti tra i più amati di sempre. Jeans (così pare), canotta rossa con un simbolo indiano di colore giallo – un’aquila stilizzata – e il tipico urlo di guerra: «aahyakkk!». Qualcuno forse non lo sa? Zagor appartiene alla valente truppa bonelliana, in compagnia di Tex, Mister No e Dylan Dog e dal 1961 si danna l’anima per mantenere la pace in quell’angolo d’America ove giacche azzurre, trappers e indiani vivono, in quasi pieno Ottocento, il precario equilibrio della necessità. Uno che, per dirla tra noi, i principi dell’Onu ce li aveva ben chiari ancor prima che inventassero Assemblee generali e Consigli di sicurezza.

Zagor non è un ranger come il grande Tex, ma un signore non-classificabile metà uomo e metà spirito. Il suo nome completo è Za-gor-te-nay cioè “spirito con la scure”. Nome del tutto inventato, naturalmente. Per gli indiani è più spirito che carne e “materia”, per i bianchi è un giovanotto atletico coi deboli nel cuore e il pallino per la giustizia; un selvaggio o quasi-primitivo che coltiva dubbi su dubbi rivolgendoli al progresso delle macchine, agli uomini e agli appetiti di potere. Zagor più che l’ennesimo eroe dell’epopea western è la versione legalista e americana – dunque pragmatica e individualista – di Robin Hood, “tarzanizzatosi” per accrescere il rispetto degli abitanti di una foresta colma di insidie e antagonisti. Amico di chi vive in pace, nemico di chi non la osserva, Zagor possiede buona volontà a grandi dosi e all’occorrenza consuma realpolitik come l’aria che respira.

D’altra parte, cos’altro è un eroe dei fumetti se non la versione moderna – quanta sostanza c’è nella modernità che trasferisce le trappole della classicità nell’era dello scatenamento delle ragioni e delle comuni passioni “crudeli” – di un dio o semidio? Quanta acqua sotto i ponti – a conti fatti, non molta – è passata dalle mitologie fondanti la nostra parte di mondo e le avventure di un guerriero un bel tanto misterioso; la metà esatta tra un freddo diplomatico e un leale gladiatore ed anche un po’ saltimbanco? Pensiamoci. Per punire i nemici Zagor usa armi western e poi, soprattutto, una scure ricavata da una pietra bianca arrotondata. Ha una mira infallibile, naturalmente.

Non ha una donna fissa al suo fianco – sulla scia di una misoginia da soldato in trincea e vecchia come il più comune narrare –, al contrario convive col reale alter ego dell’eroe coraggioso: Cico il piagnone. Abile all’occorrenza e fedele senza indugio; Cico è la spalla ideale di un guerriero: non può fargli ombra – piccolo e poco coraggioso – e ne valorizza giorno dopo giorno meriti e generosità, traendone vantaggi morali e materiali. È il compagno fidato che tutti vorremmo. Anche lui è la metà esatta di qualcosa: di un giullare e di un angelo custode, magari un po’ impacciato e soprattutto eternamente affamato. La coppia Zagor-Cico, come quella Topolino-Pippo (così per dire), è un’unione tra polarità opposte. Si tratta di un’amicizia costruita sull’ammirazione, l’affetto inossidabile e la riconoscenza. L’ideatore (Guido Nolitta alias Sergio Bonelli), non ha mai risparmiato sulle dose di sentimento e di umana complicità che lega i protagonisti in un abbraccio “cameratesco” che ha anch’esso sapore d’eternità. Entrambi possiedono spazi nei quali riescono protagonisti unici: Zagor come eroe, Cico come passaguai a riempire le pagine “leggere” del fumetto. Nei momenti clou tuttavia i due si trovano uniti contro il nemico.

Un “uomo” eccezionale come Zagor, con la parola di un antico romano – in lui c’è anche un po’ di Uomo mascherato di Ray Moore – non può non essere attorniato dai nemici. Tre su tutti: lo scienziato Hellingen, il druido Kandrax e Supermike lo spaccone. Tre personaggi molto diversi tra loro, vedremo perché. Si tratta dei nemici personali dello “spirito con la scure”, i nemici della pace nella foresta di Darkwood – luogo segreto nel Nordest degli Usa tra Ohio, Pennsylvania e West Virginia – e di luoghi molto ben al di là di essa. Per pareggiare i conti – nel fumetto l’idea di un equilibrio generale tra “buoni” e “cattivi”, è parte essenziale della ricetta – troviamo gli indiani Tonka e “Molti-occhi”, i trappers Doc Lester e Pablo Rochas e il marinaio Fishleg comandante di una nave giramondo. E troviamo gli “innocui” come il cercatore di tesori Digging Bill, o magari solo i cialtroni che si incontrano tra le montagne, per mare o chissà dove, come il “detective” Bat Batterton, il truffaldino Trampy e l’“inventore” Icaro La Plume.

Parliamoci chiaro, Zagor le cui ristampe ed edizioni si succedono con una velocità che sorprende perfino i lettori più accaniti, non è il tipico fumetto all’interno del quale bene e male, come in un’America neo-con, si danno la caccia con risultati scontati. In un fazzoletto di mondo, e poi oltre per l’intero continente nordamericano, ragioni e torti, offese e difese sono diluite con sapienza tra gli attori in campo, siano essi individui o a maggior ragione collettività. Zagor è un esempio di rigetto delle ideologie e della cieca discriminazione dovuta all’appartenenza a questo o a quel gruppo. La pace passa per il difficile equilibrio tra le esigenze degli abitanti della foresta, e il protagonista è consapevole che una comunità si costruisce sulla tolleranza tra vecchi e nuovi ospiti (bianchi e “selvaggi” possono avere ragioni e torti distribuiti differentemente a seconda dei casi).

E l’America zagoriana è un mondo davvero nuovo nel quale tutto può accadere – evento normale o paranormale –, nel quale si danno appuntamento i tipi più strani, ben al di là della normalità biologica. È forse questo, il motivo del successo del fumetto e al tempo stesso della sua “inclassificabilità”, soprattutto negli ultimi anni. Ecco perché, negli oltre seicentocinquanta albi pubblicati, Zagor – senza contare gli speciali e varie altre uscite  – si è via via trasformato in personaggio al centro di storie fantasy (dopo essere passato per l’horror), tra maghi, mostri ed entità mono o policrome. Adeguandosi non tanto ai tempi quanto alla propria disposizione all’avventura senza frontiere di spazio e di tempo. All’interno del fumetto trovano posto a volte l’uno accanto all’altro la creatura extraterrestre, la tenera squaw, il fuorilegge, il conquistatore di galassie, l’avventuriero romantico e il severo ufficiale dell’esercito. In un’America che è davvero, a questo punto della storia, il luogo ove qualsiasi fenomeno trova legittima sede; il regno della fantasia a una cert’ora del giorno in una data regione, con laghi, fiumi, monti, indiani sul piede di guerra, giacche azzurre, conquistatori e conquistati, vittime e torturatori, streghe, stregoni vampiri e “semplici” rapinatori .

Cos’è Zagor se non l’anello che unisce l’America old style coi cavalli e le prime ferrovie e quella intrinsecamente progressista e più sfrenatamente giovane degli anni a noi più vicini, o se vogliamo l’America degli autori, che tanto ci piacciono, maledetti e visionari? Un luogo proiettato verso un futuro dalla sostanza impenetrabile, tra legami alla madre terra e minacce globali? Così concepito il personaggio splendidamente disegnato tra gli altri da Gallieno Ferri e Franco Donatelli (entrambi però ci hanno purtroppo lasciati), è anche il ponte tra un fumetto storico e da mostra (nacque come striscia) e gli albi bonelliani più moderni come Martin Mystère (1982) e l’imprescindibile Dylan Dog (1986). Nato come “cacciatore” di indiani per vendicare la morte dei genitori (come i lettori apprenderanno dall’ennesima ristampa in edicola in questi giorni, grazie a un’iniziativa della “Gazzetta dello Sport”), Zagor è diventato un quasi-eroe di fantascienza. I suoi mondi alternativi confinano con l’isolotto all’interno del quale occupa, con Cico il messicano, una capanna di paglia e legno, e giungono fino al pianeta dei misteriosi akkroniani.

Dagli igloo ai paesaggi tropicali, dalle grandi città americane alla vecchia Europa. Mai fermo, mai stanco. Ma in nessun luogo del mondo Zagor ha subito le umiliazioni di un moderno uomo della civiltà. Qualcuno in quasi sessant’anni avrà provato a insegnare al “selvaggio” uomo dei boschi che l’etica del guadagno vale più della giustizia tra gli uomini: ma l’immaginate l’ospite fisso del grande albergo sotto le stelle, manovrare registratori di cassa al posto di scuri e coltelli? E pagare l’affitto della sua capanna a un grasso e inamidato proprietario?

marcoiacona@libero.it

 

L'autore

Marco Iacona
Marco Iacona, ricercatore e scrittore. Ha pubblicato circa venti volumi. Del suo percorso intellettuale ricorda, finora, la citazione del suo primo libro, in un saggio di un teologo australiano, in compagnia di Joseph Ratzinger e Michail Gorbaciov e il giorno in cui sentì pronunciare, per la prima volta, da Carmelo Bene la frase: «Faccio il possibile per rendermi inutile!»