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Carlo Pulsoni intervista Giancarlo Pontiggia

Il moto delle coseGiancarlo Pontiggia (1952), milanese, ha pubblicato le raccolte poetiche Con parole remote (Guanda, 1998), Bosco del tempo (Guanda, 2005) – entrambe riedite nel volume complessivo Origini (Interlinea, 2015) –, Il moto delle cose (Mondadori, 2017). Per il teatro ha scritto Stazioni (Nuova Magenta, 2010) e Ades. Tetralogia del sottosuolo (Neos, 2017). Saggi di poetica e riflessioni sulla letteratura si trovano nei volumi Lo stadio di Nemea (Moretti & Vitali, 2013) e Undici dialoghi sulla poesia (La Vita Felice, 2014). La sua opera poetica è stata tradotta nelle maggiori lingue, e in particolare nei volumi Selected Poems (Gradiva Publications, 2008), Orígenes (Pigmalión, 2013) e The Motion of Things (Gradiva Publications, 2020). 

Lei si è laureato in Lettere con una tesi su Attilio Bertolucci. Lo studio assiduo del poeta parmense ha avuto un influsso sulla sua produzione poetica?

Bertolucci è un poeta che ha contato molto per me, al pari di poeti come Pavese, Caproni, Luzi, Sereni, tutti nati nel giro di pochi anni, e poco prima che scoppiasse la Grande Guerra: una generazione che ha avuto la forza di innovare la nostra lingua poetica pur mantenendo un contatto profondo con la tradizione, e senza ricorrere ai piccoli trucchi delle avanguardie novecentesche, per i quali la storia della cultura pareva non essere altro che un esercizio di guerriglia personale, di astratti sovvertimenti intellettualistici. Lessi Viaggio d’inverno alla sua uscita, e lo trovai splendido; ma forse ancora di più amai, nei mesi successivi, gli idilli teneri e onirici, ma già minacciati da un’ombra di inquietudine, de La capanna indiana. La mia scoperta di Bertolucci avvenne insomma à rebours, e mi rivelò come un poeta potesse mantenersi fedele a una propria ispirazione pur nel mutamento delle forme e dell’invenzione linguistica. E tuttavia non posso dire di avere avuto, allora come poi, un solo maestro, un nome in cui potessi compendiare la mia visione del mondo e della poesia. Se guardo agli anni che stanno tra il Ginnasio e l’Università, vedo una costellazione di grandi opere alle quali sono ancora debitore, e che non appartengono esclusivamente alla stretta contemporaneità: dalle tragedie di Eschilo e di Sofocle ai Dialoghi con Leucò di Pavese; dal De rerum natura di Lucrezio al Muro della terra di Caproni, passando per le grandi letture dei poeti francesi – Villon, Baudelaire, Rimbaud – che hanno orientato il mio modo di scrivere e di leggere. Fra le tante oscillazioni, di gusto e di pensiero, che sono inevitabili nel corso della vita, non sono mai venuto meno all’idea – un’intuizione, anzi, dei miei quattordici anni – che l’eccesso di contemporaneità impedisca di comprendere il senso del poetico, e lo impoverisca nel suo fondo. I contemporanei reinventano la lingua, ma i classici ne ritmano il respiro, ampliano l’orizzonte dello sguardo in una sorta di circuito mobile e costante: i Dialoghi con Leucò illuminano i tragici greci, senza i quali, pure, non sarebbero stati possibili. La poesia, nella sua altezza di pensiero e nell’intensità della sua energia immaginosa, è un misterioso saldarsi di forze che s’intersecano e si respingono, e che trovano ogni volta un punto di fusione in te che leggi, in quel preciso momento in cui leggi, e senti, e pensi, e ti ritrovi, fulmineamente, nell’agitìo grandioso delle cose del mondo.

La sua produzione poetica si accompagna a un intenso lavoro di traduzione: prima soprattutto autori francesi, moderni e contemporanei, e successivamente classici antichi. C’è una ragione, non solo di committenza, che la porta a questo cambiamento? Lo dico soprattutto in merito alla sua ultima raccolta, nella quale Marco Vitale ha riconosciuto innanzitutto un «clima filosofico che è della grande fioritura ellenistica e tardo antica». Quanto può dire ancora quel mondo, quella civiltà, soprattutto in un momento di crisi così profonda come quello che stiamo attraversando?

I classici greci e latini erano già in me fin dall’adolescenza, al pari dei francesi, ma cominciai a tradurre da Céline e da Valéry per ragioni di pura committenza, e forse anche perché è molto più gratificante tradurre da una lingua moderna che da una antica: o riscrivi in modo profondo, andando oltre la lettera del testo, o è assai difficile rendere l’esametro lucreziano nella nostra lingua, mentre puoi sperare, con un po’ di fortuna e qualche insperata intuizione, di ottenere qualche buon risultato da Baudelaire o da Rimbaud. La poesia, in ogni caso, è sempre più ardua della prosa: e non sarà un caso se le cose migliori che ho tradotto siano Céline, Sallustio e Nerval, mentre resto perennemente insoddisfatto delle mie traduzioni di Pindaro o di Saffo.

Tradurre è un modo più approfondito di leggere: una forma del leggere, mi verrebbe da dire, in cui ti interroghi ad ogni passo sulla necessità dei versi (o delle prose) che si vanno srotolando dinanzi ai tuoi occhi come in diretta. Un’esperienza fondamentale per chi sente non solo l’esigenza di scrivere, ma anche la responsabilità delle parole che va dettando a se stesso: responsabilità in senso morale, e dunque civile (la responsabilità di chi sente che le sue parole si rivolgeranno a un lettore, trasformeranno il suo modo di vivere, di guardare alla realtà delle cose), ma anche strettamente poetico: traducendo, comprendi come gli scrittori veri, in poesia come in prosa, viaggino sempre su un orlo fragile, delicato, che li espone ogni volta alle insidie della retorica, del già detto, della ripetizione, ma anche dell’eccesso oltranzistico, di quella tirannia del nuovo che ha informato tanta parte della nostra modernità. Ogni parola, volendo restare alla poesia, nasce da un’intuizione, da un’esperienza impetuosa e fulminea della nostra vita, ma deve poi essere vagliata dal pensiero che dà ordine al discorso, disciplinata in una forma che dia conto non solo di noi, della nostra sensibilità, ma anche di una cultura e di una storia, e dunque di una lingua. Proprio l’esercizio del tradurre ti fa comprendere, insomma, come le grandi intuizioni della poesia di ogni tempo vivano dentro l’esperienza di una lingua, di quella lingua, di quella parola che è stata scelta contro ogni altra: e mentre traduci, senti che ogni traduzione è un’approssimazione che ci allontana dal vero della poesia, restituendone solo una pallida ombra. Ombra che si addensa man mano che ci spostiamo dalla prosa al verso, da un moto ragionato e guidato, e sia pure ritmato, come nel meraviglioso exemplum decameroniano, a un moto più irregolare, fatto di salti, di scarti, di processi analogici, a volte anche di oscurità necessarie.

L’epoca che stiamo vivendo ha molto in comune con la grande stagione dell’ellenismo greco-romano, e ha ragione Marco a dire che il mio pensiero poetico si è nutrito di Lucrezio, di Seneca e di Marco Aurelio, e anche molto – aggiungo – di quei poeti umbratili della tarda romanità, come i novelli, Ausonio, Rutilio o Naucellio, che si sono sentiti custodi di una grande storia, pur innovandola nel dettaglio della loro privata sensibilità: poeti minori, ma poeti veri. E tuttavia il tardo antico viveva nella coabitazione di due grandi lingue, il greco e il latino, che tutti gli scriventi conoscevano, e che erano andate costituendo come un’unica grande koiné culturale. Nel mondo contemporaneo viviamo invece l’esperienza, opposta, della molteplicità delle lingue e delle culture, che può essere un bene, in teoria, ma non lo è affatto nella pratica della poesia così come si è di fatto imposta nell’ultimo mezzo secolo: la maggior parte dei poeti contemporanei si nutre di traduzioni, non comprende più il primato poetico della lingua, e si affida a uno stile neutro, globalizzato, internazionale, quasi basico, facilmente traducibile, ma privo di sostanza autentica. Poesia, al contrario, è un pensiero del mondo che si fa lingua, stile, in cui si va imprimendo, parola dopo parola, la tensione drammatica del pensiero umano, la percezione di un destino.

«Siamo tutti fatti di ciò che ci donano gli altri: in primo luogo i nostri genitori e poi quelli che ci stanno accanto; la letteratura apre all’infinito questa possibilità d’interazione con gli altri e ci arricchisce, perciò, infinitamente. […] Al di là dall’essere un semplice piacere, una distrazione riservata alle persone colte, la letteratura permette a ciascuno di rispondere meglio alla propria vocazione di essere umano» scriveva pochi anni fa Cvetan Todorov (La letteratura in pericolo, Garzanti, 2008). Nella sua esperienza, in che modo ritiene che la letteratura abbia contribuito alla sua formazione da un punto di vista umano?

Mi fa piacere che abbia citato Todorov. Verso la fine degli anni Ottanta, fui trascinato obtorto collo ad ascoltare una sua conferenza in Cattolica. Non amavo la critica che allora veniva detta scientifica, e non potei che restare sorpreso nel sentire che uno dei massimi divulgatori, negli anni Sessanta e Settanta, della novella formalista e strutturalista, aveva deciso di parlare della vérité poétique, finendo per sostenere che la poesia è anche una ricerca di valori, che anzi esiste una relazione necessaria fra il mondo della parola poetica e quello dei fatti e dei valori, e che il fondamento di ogni atto letterario è dialogico. I poeti, insomma, debbono aspirare alla verità, senza la quale la poesia si ridurrebbe a un puro dato di coerenza formale, di giustezza estetica; mentre la poesia ambisce a qualcosa che è ben più alto della bellezza: aspira a dire qualcosa di decisivo sulle cose dell’uomo e del mondo, a entrare, anzi, nella complessità del mondo, che certo non è riducibile a una dottrina filosofica o politica, e tanto meno a un semplice messaggio. Qualcosa stava dunque cambiando: ci stavamo finalmente allontanando dall’idea della letteratura come supremo gioco o come mero engagement politico. Eppure, a guardare oggi quel che sta accadendo, sia nella prospettiva di chi legge sia in quella di chi scrive, si ha la sensazione che la letteratura stia perdendo proprio quella dimensione civile e pedagogica che le è connaturata. Come se l’esperienza letteraria contemporanea non avesse più la forza di nutrire gli animi, quasi cozzasse contro un muro di gomma che respinge tutto, senza farsene modellare. Forse è davvero in atto un mutamento antropologico, che riguarda gli strumenti del nostro conoscere e della nostra stessa percezione del mondo: ma dubito che si possa restare uomini senza porre al centro del nostro universo – affettivo, immaginativo, intellettuale – la parola. Forse, più semplicemente, il mondo si è anestetizzato a ogni forma di impegno e di disciplina: e se invoca una qualche arte che abbia a che fare con lo studio, è solo per ottenere uno scopo, non una conoscenza di sé e delle cose del mondo. E può anche darsi che la maggiore responsabilità di quel che è avvenuto sia proprio dei poeti e degli scrittori dell’ultimo secolo, troppo alteri e oscuri, a volte, per poter mediare tra i valori espressivi  e quelli comunicativi, così che la letteratura si è dissolta nella forma-romanzo, e spesso nella forma di un romanzo che sa solo raccontare, e per giunta raccontare in una lingua di poco conto. Amo profondamente il romanzo, sia chiaro, soprattutto nelle sue forme più epiche (da Stendhal a Stevenson, per intenderci) o nella forma di una grande opera-summa (e penso non solo alla Recherche, ma anche ai grandi romanzi della Yourcenar, L’opera al nero su tutte, o alla Morte di Virgilio di Hermann Broch): ma la poesia resta al centro dell’universo letterario, e quando cade in discredito o si chiude in un recinto troppo esclusivo, è il segno che la stessa letteratura nel suo complesso si è mortificata, ha come perso il senso e la necessità del suo essere.

Con parole remoteNel 1998 con la raccolta poetica Con parole remote ottenne il «Premio Internazionale Eugenio Montale». È cambiato qualcosa a seguito di questa “consacrazione”?

Come sempre, i premi servono a richiamare l’attenzione su di un libro; e il premio Montale era sicuramente, all’epoca, il premio più ambito e di maggior risonanza che esistesse da noi: Con parole remote gli deve molto. Non mi ero mai chiesto, mentre approntavo quel mio primo libro, quanto davvero valesse: sapevo però che era esattamente il libro che volevo scrivere, l’unico che rispondesse, in quel momento, alla mia idea di poesia: un libro che fosse radicato in una lingua storicamente determinata, e che pure affondasse nelle radici remote della nostra storia letteraria. Volevo che si sentisse, leggendo, che veniva da lontano, che era tramato della lingua dei padri, che era il frutto – quasi fatale, inconscio – di un dialogo serrato con la nostra tradizione, greco-latina e romanza. Non c’è una sola poesia di quel libro che non porti con sé almeno un filo di quella meravigliosa trama, a cominciare dagli Auguria sui quali, dopo il prologo, ha inizio il libro, e che portano in sé l’eco degli antichi carmina sacrali, etrusco-italici prima ancora che latini. Non credo sia cambiato qualcosa in me, da allora. Ho continuato a pensare ciascuno dei due libri successivi (Bosco del tempo, 2005; Il moto delle cose, 2017) nei modi di un’ispirazione attesa, ma non sollecitata. La poesia agisce quando può, e deve sempre rispondere a una forte necessità interiore ed espressiva. Non basta avere qualcosa da dire, e neanche possedere una qualità di scrittura: è qualcosa che deve imporsi da sé, in un impasto di lingua e di pensiero, di sonorità e di immaginazione che non nasce da un’idea, un progetto, un esperimento, ma da una tensione dell’animo e da una grande storia – letteraria, ma anche filosofica, scientifica – di cui ti sei imbevuto, e che improvvisamente si riversa in uno stampo, cola nelle forme di una lingua, e si fa verso, diviene una forma in cui il pensiero procede da un suono, e ogni suono si fonde nuovamente in pensiero.

Che cosa significa per lei, in veste di poeta, l’ambiente?

L’ambiente è la nostra casa, è lo spazio nel quale respiriamo, viviamo, sogniamo: uno spazio dell’anima. Più lo degradi, più degradi la tua vita, e dunque il tuo modo di sentire e di pensare. Non ho mai amato, in generale, quel misto di radicalità e di nostalgia con cui Pasolini parlava del mondo contadino, rimuovendo dal suo orizzonte il dato della miseria (parlo di egestas, non di paupertas), che offende la dignità della persona, e abbrutisce l’uomo: volendo concedere al suo discorso una qualità poetica, i contadini di Pasolini sono contadini quanto gli abitanti di Arcadia furono pastori. Eppure non c’è dubbio, guardandoci intorno, che la bruttezza e la volgarità del mondo nel quale viviamo da troppo tempo ferisce la nostra anima, aprendo una piaga che non pare più rimarginabile: nel collegio gesuita vicino al quale abito, non fanno che tagliare alberi, o ridurli a tristi moncherini; lungo le vie di Milano, l’asfalto si è mangiato anno dopo anno le bellissime beole che s’incupivano, magnificamente, sotto la sferza di un temporale; le vaste spiagge sabbiose della nostra penisola sono diventate un confuso, stordente luna park, invaso da ogni sorta di musichette e di canzoni. Ambiente, per me, non è solo natura: è la qualità della vita nella concretezza dei suoi edifici, dei suoi cieli, dei suoi selciati, dei suoi fiori. Difenderlo non è un atto poetico, ma un atto vitale: diviene poetico se si vuole interpretare la poesia, leopardianamente, come aumento di vitalità, moto del cuore che si fa utopia.

Ritiene che la poesia ambientale possa avere un ruolo sociale?

Credo che la poesia svolga un suo ruolo sociale, o meglio civile, quando sa serbare la propria identità. Se è vero, come almeno io credo, che in poesia non si dà un senso senza un suono, né un pensiero senza una tensione immaginativa che lo investe e lo interpreta, allora non possiamo immaginare una poesia che si risolva meramente in un messaggio. La poesia è sintesi, è complessità dello sguardo e del pensiero: e deve avere il coraggio di entrare nella materia contraddittoria della vita. Contraddittorio – ingegnoso e meschino, pietoso e crudele, fragile e violento – è l’uomo, perché lo è la natura stessa, che è insieme, per usare un lessico leopardiano, madre e matrigna: meravigliosa e lucente agli occhi di chi la contempla; e insieme rovinosa, infida, indifferente al nostro patire. D’altronde, cos’è l’uomo se non uno strano impasto di natura e antinatura: materia vorticante che si fa parola vorticante; pensiero continuamente sollecitato da forze spurie, immaginose che pure tende a una forma, a un ordine armonioso e unitario? La letteratura opera sui tempi lunghi dell’animo umano, non su quelli, brevi e incostanti, della cronaca: chi potrebbe dimenticare le bellissime pagine sulla natura sublime di Atala di Chauteaubriand, scritto dans le désert et sous la hutte des Sauvages? E chi potrà mai dimenticare il senso di smarrimento e di estraneità che si prova traversando, nella poesia forse più potente delle Fleurs du mal (Le Cygne), una Parigi sconvolta dalla nuova urbanistica napoleonica, e da quell’inquieto dinamismo che è il segno della nostra modernità? Quegli splendidi versi (Le vieux Paris n’est plus: la forme d’une ville / change plus vite, hélas! que le coeur d’un mortel) sono divenuti quasi un simbolo del nostro stare dentro il mondo contemporaneo. Ma polis e sauvage sono due categorie dell’animo umano, entrambe fascinose e inquietanti, terribili e necessarie: e ai poeti non è dato che dire la verità in quel suo misterioso intrecciarsi di ragioni e di moti del cuore che a volte si oppongono, a volte trovano una loro momentanea conciliazione in un’immagine, in un verso, nella potenza di un passaggio musicale.

L’intervista è stata realizzata in collaborazione con Sapereambiente