L’Italiano fuori d’Italia

Anna Raimo intervista Enrico De Agostini

Enrico De Agostini (1964) è diplomatico di carriera dal 1991. Ha lavorato ad Abu Dhabi, Accra, Dortmund, Maputo, Johannesburg, e nello Zimbawe (2014-2018), dove ha ricoperto il ruolo di Ambasciatore. Attualmente è Console a Monaco di Baviera. Nel febbraio 2012 è stato eletto presidente del SNDMAE, il maggiore sindacato dei diplomatici, e ha curato il progetto “riFarnesina, per una diplomazia della crescita e per una crescita della diplomazia”.
Nel 2006 ha pubblicato Diplomatico, chi è costui? per Franco Angeli, nel 2016 Un Prosciutto e Dieci Ducati (con il quale ha vinto il Premio “Io Scrittore” del Gruppo Editoriale Mauri Spagnol) e nel 2018 MIND per la collana Robin&sons. Nel 2014, ha fondato una scuola Crawford Italia di Johannesburg.

Innanzitutto, caro Console, la ringrazio di aver accettato di farsi intervistare per la seconda volta da Insula europea. Nella scorsa intervista con Carlo Pulsoni avete parlato della situazione linguistica dell’italiano. Oggi, a distanza di tre anni, come pensa si sia evoluta? Da un recente studio pubblicato sulla rivista Italiano LinguaDue di Tatiana Bisanti, che ho consultato per la mia ricerca insieme al Professore Daniel Reimann, si può notare che dai dati raccolti dallo Statistisches Bundesamt l’italiano sia la sesta lingua studiata nelle scuole tedesche. Secondo lei, come si potrebbe ribaltare e migliore la situazione? Come potrebbe essere esportata la nostra lingua?

Qui a Monaco abbiamo di recente – parlo del tempo immediatamente precedente allo scoppio della crisi Covid19 – tenuto un convegno relativo alle cause del decremento descritto dal grafico che lei riporta, per analizzare le problematiche che lo hanno causato. Innanzitutto, la regolamentazione della materia: se in Germania l’italiano non può che essere studiato come terza o quarta lingua straniera, è inevitabile che parta svantaggiato rispetto ad altre, come, ad esempio, il francese, che possono essere studiati come prima o seconda. Pensi che persino nelle sezioni speciali italiane dei licei è necessario osservare questa regola. Si tratta di un pesante handicap per l’italiano, che solo un intervento politico forte può rimuovere.

Secondo lei come mai lo spagnolo ha surclassato la lingua italiana negli ultimi anni? L’italiano è altrettanto utile come lo spagnolo?

Penso certamente di sì e in questa convinzione sono confortato dalle statistiche sull’interscambio della Germania tra Italia da un lato e mondo ispanofono – non della sola Spagna, quindi – dall’altro. È quindi, senza dubbio un problema di comunicazione. Che immagine dà di sé l’Italia in Germania? Che prospettive si pensa che abbia la nostra economia nel medio – lungo periodo? Quanto pesa su questa situazione la percezione che si ha del debito pubblico italiano? Sono temi che, purtroppo, esulano dalla mera promozione linguistica, ma sui quali è necessario lavorare con una pluralità di soggetti. Ecco perché al convegno di cui le parlavo abbiamo invitato anche la Camera di Commercio Italiana di Monaco e Stoccarda. Ci sono poi le problematiche specificamente relative all’offerta dell’italiano, delle quali parlo nella mia precedente intervista e che in parte sono state affrontate dalla nuova regolamentazione della materia. Rimane il fatto che se si vuole davvero vincere la battaglia della propagazione dell’italiano nel mondo, sono necessari investimenti ben più ingenti degli attuali, che permettano scelte più chiare.

Dalla lingua alla letteratura, a Monaco si è tenuto da poco il festival della letteratura “ILfest Intermezzo” e, seguendo la sua diretta con l’Istituto Italiano di Cultura di Monaco di Baviera, ho assistito a un’interessante conversazione sulla scrittura e i diplomatici. Quanti suoi colleghi sono scrittori come lei?

I diplomatici scrivono per molti motivi. Secondo me, quello principale è che hanno tanto da raccontare. Ogni volta che si cambia destinazione, si cambia vita per un certo periodo di tempo – in genere tre o quattro anni – durante il quale ci si immerge in un mondo nuovo, si scoprono usanze, costumi e modi di vivere diversi da quello da dove si proviene. È come se i diplomatici avessero tante vite, tant’è che spesso, riferendosi a sedi dove hanno prestato servizio, parlano di “precedenti incarnazioni”. È, quindi, abbastanza naturale che nasca la voglia di narrare, di condividere questi diversi mondi in cui si è vissuto. Direi che la maggior parte dei diplomatici scrittori scrivono saggi, ma il numero di quelli che si cimentano nella narrativa è in aumento.

E lei com’è arrivato alla scrittura?

Non lo so nemmeno io. Il bisogno e la voglia di raccontare li ho sempre avuti, ma credo che la mia voglia di scrivere e di pubblicare quello che scrivo, provenga dal desiderio di dare un contributo di idee a chi mi vuole leggere. È un po’ come se volessi esprimermi al di fuori dei confini che la mia professione impone.

Leggendo il suo ultimo libro, MIND del 2018, lei parla di una tecnologia chiamata Brain-Computer Interfacing (BCI), che tramite un dispositivo si impone nella vita delle persone. Per me è stato emblematico questo passaggio: “Per i giovani MIND era un nuovo modo di vedersi, di incontrarsi, di fare esperienza insieme senza lasciare la propria camera.” Non crede che il suo libro sia molto attuale? Cosa ne pensa?

MIND nasce dal disagio che provo dinanzi allo sviluppo incontrollato – e, purtroppo, credo, sempre meno controllabile – dell’Intelligenza Artificiale e delle sue applicazioni. Il protagonista si rifugia in un posto dove ancora non arriva nessun tipo di segnale internet, ma il suo isolamento dura poco. Attuale? Penso di sì, anche se il libro è stato classificato da alcuni distributori come un romanzo di fantascienza. Preferirei che avessero ragione, che un meccanismo capace di interagire direttamente con le onde cerebrali appartenesse al mondo delle ipotesi irrealizzabili, ma temo che non sia così. Se MIND, ovvero il Multiple Interaction Neuro Device fosse in commercio oggi, ai tempi del Covid19, ci abituerebbe ancor più di Zoom a interagire rimanendo nelle nostre case. Siamo avviati verso un mondo di sedentarietà e all’interno del quale i contatti sociali saranno sempre più rarefatti?

MIND sembra ricordare la storia di un film The Final Cut del 2004 con Robin Williams, in cui al protagonista, Alan Hackman, viene installata una “scatola nera” nel cervello che registra ogni evento della sua vita. In questo modo, la libertà viene limitata e solo chi ha i soldi, dopo la sua morte riceverà un trattamento migliore con un video finale depurato dai ricordi che potrebbero offuscare la memoria del defunto. Queste forme di controllo che sono presenti nel film o in libri come 1984 l’hanno ispirata? Per scrivere MIND, oltre alle “arringhe sui mali del mondo” con sua moglie Susie, a chi si è particolarmente ispirato? 

Grazie della segnalazione. Guarderò questo film, che non conosco. Le mie “arringhe sui mali del mondo” sono – purtroppo per chi mi sta vicino – una costante nella mia vita, fino a farmi guadagnare il titolo di “Insufferable Old Crow” appioppatomi – a ragione – da mio figlio. Ma questo significa anche che ho una vena pressoché inesauribile di impulsi per scrivere, perché vivo in conflitto con l’attualità e il conflitto genera la creazione. Nessuno scrittore del genere distopico potrebbe oggi affermare di non essere stato influenzato da Orwell. 1984 è ormai parte del nostro DNA, anche se qualche volta non ne siamo coscienti e troppo spesso facciamo finta che le sue profezie non si stiano avverando. MIND, però, è un romanzo a sé, anche se il disagio da cui nasce è comune, credo, a molte storie distopiche, alla serie Black Mirror, per esempio. Oggi credo che questo disagio sia diffuso in noi, mentre assistiamo inerti alla nostra sottomissione alle macchine.

Parlando della cultura italiana, sempre presente nelle sue opere, quando lei è stato ambasciatore in Zimbabwe, dove, oltre a permettere la realizzazione di una scuola di lingua italiana, ha organizzato MUSICA, un festival jazz. È vero che lo riproporrà anche quest’anno a Monaco di Baviera?

Sì e no. Ogni Paese ha le sue caratteristiche e in Zimbabwe aveva un senso proporre un festival che facesse scoprire l’Italia al pubblico locale, che desse un messaggio di integrazione e collaborazione in un momento di divisione politica interna e internazionale. In Baviera la situazione è diversa. L’Italia è conosciuta benissimo, anche al livello musicale. Non riproporremo, quindi, MUSICA, ma un concetto diverso di festival, che si chiamerà MOVE ON. Sarà un festival basato sulla collaborazione musicale tra diversi musicisti. Così, africani, italiani e tedeschi si ritroveranno insieme sul palco per simboleggiare la necessità di cooperare nella gestione dei flussi migratori. Il festival, che includerà anche un dibattito su questo argomento, si svolgerà dal 9 all’11 luglio in tre importanti location di Monaco: la MS Alte Utting (una nave sospesa su uno scalo ferroviario), dove avrà luogo l’inaugurazione, la Pasinger Fabrik e la Ebenburg Haus, dove avranno luogo in concerti.

Durante il periodo in cui è stato Ambasciatore in Zimbabwe ha assistito a un colpo di stato. Com’è stato per lei gestire quest’emergenza?

Per fortuna si è trattato di una transizione armata ma poco cruenta, che non ha comportato grande pericolo per i nostri connazionali. Personalmente, un paio di volte ho vissuto qualche momento di tensione, quando la mia automobile è stata circondata dalla folla, ma con il sorriso e con qualche parola nella lingua locale me la sono cavata. Più in generale, la sfida vera è stata quella di gestire la reazione politica a quell’evento, ma questo argomento richiederebbe molto, troppo spazio.

Dopo lo Zimbabwe, lo scorso anno, è stato nominato Console Generale a Monaco di Baviera, come si sente a vivere in una città in cui la cultura italiana si sente camminando già tra le piazze di Marienplatz, Karlsplatz o Königsplatz? Una città, in cui la nostra cultura è apprezzata e rivisitata sia nella ristorazione che nella moda, due eccellenze di fama internazionale. Quanto è forte secondo lei la presenza italiana?

A Monaco sono molto affezionato, essendoci stato anche da studente per un breve periodo. È una città vivibilissima, con evidenti legami culturali ed economici con l’Italia. Paradossalmente, propria a causa di questa grande dimestichezza dei monacensi con la cultura italiana, è difficile proporre manifestazioni culturali che siano in grado di lasciare il segno. Ecco perché ho pensato di proporre iniziative un po’ fuori dal comune. L’anno prossimo a maggio, se i musei saranno di nuovo aperti, si inaugurerà all’Antiken Sammlungen la più grande mostra mai fatta sul Sannio e i Sanniti, una nazione italica di cui si sa davvero poco in Germania (e anche in Italia), che non eccelse solo nell’arte della guerra. La mostra sarà accompagnata da una promozione del territorio sannita e delle sue realtà produttive. Poi, a metà luglio, all’Alte Utting, alla Pasinger Fabrik e all’Ebenburg Haus avrà luogo il festival MOVE ON, con la partecipazione di jazzisti dall’Italia, dalla Germania e dall’Africa. Sarà un modo di ricordare, attraverso il simbolo della collaborazione musicale, che il flusso migratorio al quale assistiamo attualmente ha bisogno di intensa collaborazione tra europei – e anche tra europei e africani – per essere gestito al meglio.

Nonostante l’emergenza, pensa quindi al futuro?

È l’unico modo di affrontare questa situazione, a mio parere.

Parliamo di questa emergenza sanitaria, che si è imposta nel suo mondo lavorativo: come ha gestito l’avanzata del coronavirus a Monaco di Baviera? Come ha diretto i flussi migratori e gli spostamenti dall’Italia alla Germania e viceversa?

La prima ondata, in marzo aprile, ha colto tutti di sorpresa e la gestione della situazione è stata davvero complessa, con tanti connazionali che tornavano da tutto il mondo in Italia passando da Monaco. Aiutarli a capire la situazione, cosa fosse possibile fare quando, ad esempio, non si disponesse di un biglietto aereo che consentisse la prosecuzione del viaggio per l’Italia, è stata una sfida imponente in quei giorni. Abbiamo istituito linee telefoniche speciali, risposto alle chiamate 24 ore al giorno, è stata, insomma, una vera emergenza, ma è per questo che ci sono i consolati, no? Poi ci sono le iniziative di solidarietà che abbiamo organizzato e quelle che abbiamo aiutato a gestire. Tra queste ricordo l’accoglimento di alcuni pazienti italiani nei reparti di terapia intensiva degli ospedali tedeschi. Qui in Baviera sono stati dieci, tutti da Bergamo, e otto di loro si sono salvati.

Infine, caro Console, come una chiusura ad anello, torniamo alla promozione della cultura e della lingua italiana, più precisamente alla sua scrittura, può dirci per curiosità se sta lavorando ad un nuovo libro?

Ho appena finito un nuovo romanzo, ambientato nel 1955. È un thriller giocoso, se mi passa l’espressione, ma i temi sono serissimi. È, infatti, in quegli anni che vanno ricercate le radici di tanti mali di cui soffre il nostro Paese oggi. È la storia di un apprendista fotografo nella bottega di un vecchio russo nel cui retrobottega, al centro di Genova, si svolgono strane riunioni. Ma è anche la storia di un tradimento (e di un riscatto).

Sembra interessantissimo! A quando la pubblicazione?

Se trovo una casa editrice di buon livello disposta a investirci, presto.

anna.raimo@live.it

L'autore

Anna Raimo
Anna Raimo è nata a Pisa il 25 dicembre 1995. Laureata magistrale con il massimo dei voti in Linguistica e didattica dell’italiano nel contesto internazionale presso l’Università degli Studi di Salerno e l’Universität des Saarlandes di Saarbrücken, ha in seguito conseguito un Master di II Livello in Didattica dell’Italiano L2 presso l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale. I suoi interessi di ricerca spaziano dalla linguistica e didattica della lingua italiana alla storia, letteratura e poesia contemporanea. Si è infatti occupata dell’italiano dei semicolti nella sua tesi di Laurea Magistrale e ha recentemente pubblicato un articolo su una particolare varietà della lingua italiana: "L’e-taliano: uno scritto digitato semifuturista?", in (a cura di S. Lubello), Homo scribens 2.0: scritture ibride della modernità, Franco Cesati Editore, Firenze 2019, pp. 159-164. Tra i suoi autori preferiti vi sono Mario Vargas Llosa, Jung Chang, Philip Roth, Azar Nafisi, Orhan Pamuk, Anna Achmatova, Rainer Maria Rilke, Federico García Lorca, Alda Merini, Bertolt Brecht e Wisława Szymborska. Le sue passioni sono la lettura, la scrittura di poesie e i viaggi, soprattutto in Germania, paese di cui adora la storia, la cultura, l’arte e i magnifici castelli.