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Storie di metrica militante, tra Fortini e Guccini. Giulio Pantalei dialoga con Fausto Amodei

Non poteva esser altro luogo se non Torino il punto di partenza per avviare il progetto di dottorato in Lettere che da ormai più di tre anni conduco tra le Università di Roma Tre e Cambridge col titolo di Letterati parolieri: i testi per musica degli scrittori italiani (1955-1975). Più precisamente, nel capoluogo piemontese, la casa e l’archivio privato di Fausto Amodei, il primo grande “protest singer” del nostro dopoguerra e parte del nucleo storico di quel laboratorio interartistico che fu Cantacronache, assieme a Sergio Liberovici, Italo Calvino, Michele L. Straniero, Emilio Jona, Margot Galante Garrone e Franco Fortini, solo per un rapido elenco cronologico dei collaboratori più illustri.

Nella possibile traduzione e accezione italiana della formula, “cantautore di protesta” Amodei lo è stato certamente, iniziando già alla fine degli anni Cinquanta a scrivere sia la musica sia i testi di ballate dalla forte connotazione politica e satirica sul modello di Georges Brassens, vero e proprio nume tutelare per l’artista torinese nato nel 1934, che avrebbe poi proseguito la sua carriera in un’altra pagina fondamentale del Folk e dell’etnomusicologia nostrani come il Nuovo Canzoniere Italiano, al fianco tra gli altri di Roberto Leydi, Gianni Bosio, Ivan Della Mea, Dario Fo e Giovanna Marini, della quale già si è avuto ampiamente modo di parlare qui:. Un impegno, quello del cantautore, tale da farlo addirittura divenire Deputato in Parlamento, eletto nella fila del PSIUP, tra il 1968 e il 1972.
Vincitore del Premio Tenco, omaggiato da Guccini, Jannacci, Vanoni e anche dalle leve militanti delle decadi successive (CCCP e Modena City Ramblers in testa), Fausto Amodei rimane una delle personalità più gentili, briose, acute e discrete che ho avuto il piacere di incontrare lungo questo percorso di poesia e musica. Dal suo archivio personale sono venute fuori alcune preziose primizie, sulle quali mi riprometto di tornare in altra sede; qui mi limito a riprodurre alcuni stralci delle nostre conversazioni.

Fausto caro, lei è stata una delle grandi menti musicali di Cantacronache prima e del Nuovo Canzoniere Italiano poi, divenendo con Per i morti di Reggio Emilia, scritta nel ’60 all’indomani di una delle pagine più tristi dell’Italia contemporanea, uno dei pionieri del cantautorato militante e della canzone di protesta. Poco dopo, nel ’61, ha musicato la Canzone della Marcia della Pace di Franco Fortini. Mi sembra perciò un’ottima annata per cominciare…

Beh, innanzitutto grazie per il “pioniere”, non so se lo sono stato, io studiavo architettura ma la mia passione fin da bambino era stata la musica. Io sono nato nel ’34, sono cresciuto durante la guerra e alla fine della guerra la musica mi sembrava il suono della liberazione. Suonavo la fisarmonica all’inizio, poi ho aggiunto il piano e dopo sono passato alla chitarra. Quando mi sono unito a Cantacronache avevo nemmeno venticinque anni, non avevo certo una formazione musicale di rango o di conservatorio, ero di estrazione modesta, ma Sergio Liberovici – che un pioniere lo fu sicuramente – ha visto qualcosa in me, nel mio approccio un po’ sui generis alla musica, e Sergio era interessato innanzitutto alla ricerca della creatività in modo inusuale e libero da vincoli. Aveva una formazione culturale e musicale in grado di competere coi maggiori maestri del tempo (e ce n’erano di grandi eh!), ed era sostanzialmente un autodidatta. Mi ha insegnato moltissimo, voleva aprire vie nuove e la sua bellissima Dove vola l’avvoltoio? scritta con Calvino, la primissima forse canzone di Cantacronache, ricordo che ebbe una grande importanza per me.

La militanza politica era l’altra faccia della nostra iniziativa e l’altra mia grande passione. Il mio punto di riferimento era Brassens, la sua ironia, la sua vena satirica, che a quell’epoca era il punto massimo delle due cose – arte e politica – per me. La Canzone della Marcia della Pace direi che è un ottimo esempio di questa cosa: l’occasione fu la Marcia della Pace da Perugia ad Assisi organizzata da Aldo Capitini, la prima ad aver avuto mai luogo in Italia, un evento storico. Noi siamo partiti da Torino con una spedizione guidata da Paolo Gobetti e da sua moglie, con un piccolo pullman, al cui interno c’erano loro due, Calvino, Fortini, Norberto Bobbio e noi del Cantacronache.
Io avevo con me la chitarra. Ricordo che eravamo tutti molto felici e allegri di prendere parte a un evento così; a un tratto ci ritroviamo con Fortini a parlare di Naja – io poi ero particolarmente coinvolto perché essendo il più giovane, avevo da poco finito i diciotto mesi – e Fortini inizia a citarmi una incredibile serie di aforismi antimilitaristi, provenienti da tutto il mondo e molto divertenti, come “Soldato che fugge è buono per un’altra volta” oppure “Branda a due piazze non fu mai inventata”. Gli si accese un sorriso in volto e mi disse: “Hai la chitarra vero? Facciamo una canzone! Aspetta un attimo qui!!”; e si mise qualche fila indietro con carta e penna alla mano. Lui ne aveva già scritto una d’argomento militaresco, tra di noi lo si chiamava Inno nazionale, del resto era nato un po’ con quell’intento lì… per fare il verso ai valori finto-patriottici di fine anni Cinquanta. Insomma, scrisse dei versi lì per lì, il testo per la canzone e io la musicai memore della melodia di una canzone di coscritti. La provammo (il viaggio era piuttosto lungo…) e la suonai più volte durante la Marcia, che era di quasi venticinque chilometri. E in testa al corteo ricordo bene che c’era Calvino.

Dev’esser stata una giornata veramente eccezionale ed è molto interessante questo episodio, oltre alla valenza storico-politica, anche perché mi dà modo di chiederle come lavoravate ai brani da un punto di vista tecnico. In questo caso avete lavorato assieme sull’interazione tra parola e nota, quindi vorrei capire anzitutto quale fosse il rapporto di un poeta come Fortini con la canzone. Più in generale poi, era questa la modalità più consona agli scrittori con cui collaboravate di far musicare i propri versi per musica?

Vedi, Fortini era forse tra i nostri collaboratori letterati di professione il più appassionato e al tempo stesso il più sospettoso. Forse non è la parola giusta, ma non dava l’impressione di pensare che quello che facevamo potesse avere grosso peso, ma era sicuramente molto interessato alla nuova forma-canzone sulla quale stavamo lavorando e, sarà perché così fine poeta, uno di quelli a cui scrivere testi per musica veniva più naturale.… Così, lui intonava un ritmo poetico, dandomi gli accenti sui quali voleva si mettesse particolare enfasi e io con la chitarra classica e un foglio di partitura in mano provavo a trascrivere quello che lui aveva in mente col suo testo. Anche lui, che era sempre composto e riflessivo, si entusiasmò fintanto che non l’avemmo finita e pronta da eseguire (N.d.R.: intona le prime tre strofe a memoria):

E se Berlino chiama
ditele che s’impicchi:
crepare per i ricchi
no! non ci garba più.

E se la Nato chiama
ditele che ripassi:
lo sanno pure i sassi:
non ci si crede più.

Se la ragazza chiama
non fatela aspettare:
servizio militare
solo con lei farò.

 

Molto musicale, molto ritmata già anche solo a sentirla senza musica, come vedi. Lo stesso succede in Campane di Roma e in Quella cosa in Lombardia per Laura Betti, ma in generale in più o meno tutte le canzoni di Fortini. È poi un perfetto esempio del versante “politico” del fare canzoni à la Cantacronache: narrare la cronaca, da un fatto o un’occasione reale, con un linguaggio chiaro e diretto. Il messaggio doveva poter arrivare a tutti.
Sull’altro quesito, è un punto importante e bisogna sempre fare attenzione a una cosa. Non abbiamo musicato delle poesie preesistenti, ma gli scrittori si presentavano come veri e propri parolieri, con dei versi scritti appositamente per musica ai quali poi si lavorava o insieme o dando delle direttive di massima a noi musicisti che poi le musicavamo in separata sede.

Dunque, dalla sua prospettiva di musicista, la questione principale doveva essere quella metrica, immagino…

Dibattevamo a lungo sui metri poetici, sulle quantità delle parole e su come apporre la musica su di esse o, viceversa, su come andare a inserire le parole – nel massimo rispetto di esse – su di un’aria o un motivo, se magari esso era già stato composto. L’endecasillabo poi, non è che ti lascia scampo, con i suoi a maiore e a minore, ma anche i settenari e gli altri versi “storici” della tradizione: dovevamo riuscire a capire come fare e al tempo stesso provare, per così dire, a fare degli esperimenti. La fedeltà a quello che il poeta ci aveva inviato era assoluta, si poteva proporre di modificare una sillaba o suggerire un troncamento di tanto in tanto se proprio non tornavano i conti ma in un modo o nell’altro noi musicisti ci mettevamo sempre a disposizione del testo che ci veniva dato senza alterarlo mai. Anche perché quando hai un testo di Calvino, Fortini, Jona, Eco e così via, se hai consapevolezza di un tale spessore nella scrittura, non ti senti di voler modificare neanche una virgola!
Per i morti di Reggio Emilia, che hai nominato già, fu la prima canzone a tema politico-sociale (“di protesta” di lì a breve), anche simbolicamente, a segnare una strada diversa dal momento che ho scritto io sia le parole che la musica, ed ebbe comunque una grande circolazione, soprattutto tra le nuove generazioni, quelle a cui poi appartenevo anche io. Diciamo che avevo avuto un apprendistato da maestri d’eccezione, ma mentre in Cantacronache si era sempre lavorato a coppie o addirittura “a terne” – come con Tutti gli amori scritta da Fortini, musicata da Liberovici e interpretata da Michele Straniero  – in quell’occasione sul modello di Brassens e degli chansonnier scrivevo per intero musica e parole della canzone, suonandola e cantandola anche. Il contatto col pubblico diventava più diretto così, c’erano meno mediazioni.

Da lì ho iniziato anche a incidere i miei dischi, tutti con canzoni scritte ed eseguite interamente da me. Quindi come vedi è un po’ il passaggio tra una prima fase un po’ più collettiva e variegata sulla forma della canzone, che comunque poi è continuità egregiamente su altre basi con il Nuovo Canzoniere Italiano, e una seconda incentrata sull’iniziativa di un singolo autore, in linea con quella che di lì a poco sarebbe diventata la stagione del grande cantautorato italiano e della figura del cantautore come “singolo”.

Rimanendo invece a quegli anni iniziali, c’è stato a un certo punto un passaggio di testimone tra Torino e Roma con Laura Betti e il circolo di scrittori che realizzava canzoni per lei. Che rapporto avete avuto con lei e con quella “scena romana” nel pieno della Dolce Vita?

Sì, il passaggio c’è stato, lei ha preso un po’ la nostra idea e ha coinvolto anche autori della nostra prima ora: Calvino e Fortini in testa, che per lei ha scritto la bellissima Quella cosa in Lombardia, una delle pagine più riuscite a mio avviso di Giro a vuoto.

 

La differenza con Roma era, oltre che sul piano strettamente artistico, anche politica diciamo. Sul piano musicale, anche se alcuni compositori come Fiorenzo Carpi li avevamo in comune (aveva musicato Sul verde fiume Po di Calvino per noi ad esempio), c’era una diversità di approccio e di resa: noi eravamo molto più vicini agli chansonnier francesi e alla tradizione del canto di protesta, a quello che sarebbe esploso come il Folk, chitarra e voce, al massimo piano e clarino o fisarmonica.
La Betti invece aveva invece messo in piedi uno spettacolo à la page di teatro, musica e cabaret intelligenti, registrava i dischi con i complessi swing e jazz, era tutto pieno di trombe tromboni e cose mirabolanti nei suoi dischi; con questo suo sperimentare, l’indirizzo politico era meno evidente, se c’era lo si trovava solo nei testi degli scrittori. Infatti litigò subito con Liberovici quando andammo a Roma, avevano tutti e due dei caratteri abbastanza impervi e le differenze dei mondi e degli intenti furono subito chiari a entrambi. Noi venivamo dalla grigia Torino operaia e industriale, Roma era tutta luci e lustrini, sembrava una festa continua; per noi che giravamo l’Italia in tournée, posso dirti che era una città per molti aspetti del tutto diversa dal resto del paese in quel momento.
Sergio Liberovici aveva una disciplina artistica ferrea, un grande rigore professionale, non cercava mai il grande nome o la voga del tempo ma il contenuto prima di tutto: pensa che Eco, che parlava con noi ed era un nostro interlocutore, non ancora trentenne aveva fatto delle parodie politiche di canzoni, un po’ estemporanee, e le aveva proposte a Cantacronache, Sergio apprezzò il tentativo ma lo invitò a concentrarsi sulla teoria della canzone piuttosto che sulla “pratica” per così dire, perché trovava le sue idee davvero brillanti principalmente sul piano teorico. E come dargli torto, col senno di poi. L’introduzione di Eco alle Canzoni della cattiva coscienza è infatti davvero eccezionale. Un altro che si ritrovò la porta chiusa fu il giovane Furio Colombo, che aveva scritto un paio di testi di prova, ma secondo Sergio non erano adatti a noi e quindi si rifiutò di musicarli. Secondo me erano belli invece, ne presi di nascosto uno e lo musicai io!

Un’ultima domanda sull’influenza per le generazioni successive, dai cantautori a Milva, dai Modena City Ramblers fino ai CCCP negli anni Ottanta. Non so se sa che uno dei loro primi EP si intitolava Compagni, cittadini, fratelli, partigiani (1985) in onore al primo verso della sua Per i morti di Reggio Emilia…

Li conosco di nome e di fama, ma non sapevo di questa cosa perché dall’inizio degli anni Ottanta mi sono defilato dalla scena musicale, dopo vent’anni di intensa attività e di militanza. Beh, mi fa molto piacere! Come ti dicevo, quel brano in particolare ha segnato un suo corso, è stato di ispirazione per tanti negli anni e la cosa più importante per me era creare un ponte, una continuità, tra le battaglie di ieri – la Resistenza – e quelle che stavamo combattendo noi in quel momento. Per dirlo col titolo di un’altra canzone, doveva diventare chiaro che i partigiani erano i nostri “fratelli maggiori” e che chi pagava a caro prezzo, spesso purtroppo con la vita, lo faceva per portare degli ideali più grandi, gli stessi ideali di libertà, pace, equità sociale, ripudio del blocco clerico-fascista per cui avevano dato la vita i nostri padri e le nostre madri.

 

Per quanto riguarda i cantautori, il più generoso con me negli anni è stato probabilmente Guccini, che ha ricordato in numerose sedi il mio nome tra i musicisti italiani che stimava e ascoltava nella sua prima gioventù, dicendo di aver ricevuto da Cantacronache e da me degli importanti spunti per quello che avrebbe fatto come artista, soprattutto nei suoi primi dischi. Gli altri pure li ho conosciuti un po’ tutti nel tempo, in un modo o nell’altro ognuno di loro aveva preso qualcosa anche dall’operazione di Cantacronache e del Nuovo Canzoniere Italiano; tu immagina anche che noi eravamo stati tra i primi ad andare in tournée, oltre che nei teatri, nei circoli culturali, operai, nelle sezioni di partito, nei festival e nelle feste dell’Unità, spesso rischiando pure le botte dai fascisti, ma arrivammo ad esibirci davanti a decine di migliaia di persone in alcune occasioni, a un certo punto potevamo contare sull’attenzione di un vasto pubblico anche di giovani, quindi riuscivamo a percepire che questo passaggio di consegne stava avvenendo.

giuliocarlo.pantalei@uniroma3.it ; giuliopantalei@gmail.com

L'autore

Giulio Pantalei
Giulio Pantalei
Nato a Roma e laureatosi in Italianistica all’Università di Roma Tre con una tesi su P. P. Pasolini, Giulio Carlo Pantalei è oggi dottorando in Lettere nella stessa Università e Visiting PhD presso la University of Cambridge. Cantautore e musicista, oltre che ricercatore, è fondatore della band “Panta” e ha collaborato con artisti nazionali e internazionali tra cui Paolo e Carlo Verdone, Calexico + Iron & Wine, David Lynch Foundation, Capovilla, Canali e l’ong ONE di Bono Vox. La sua tesi, svolta tra Roma e Oxford, riguardo il rapporto tra la Letteratura Italiana e la musica angloamericana è stata pubblicata nel 2016 da Arcana col titolo di Poesia in forma di Rock, oggi alla seconda edizione.

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