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Alberto Arbasino a Voghera e nel mondo

Per festeggiare i 90 anni di Alberto Arbasino, amici ed estimatori di Voghera, la città in cui lo scrittore ebbe i natali, trascorse infanzia e giovinezza, avrebbero voluto, come racconta Elisabetta Balduzzi, dedicargli varie iniziative, purtroppo venute meno. Lo ricorda ora, nella collana “Memorie” della Libreria Ticinum Editore, un volume intitolato Passeggiando con Alberto Arbasino, che si distingue per la grande A rossa della copertina, il risalto dei colori e per la bella fotografia di un giovane Arbasino ripreso da Carlo Bavagnoli. Che Voghera sia stata la città, cui il pensiero dello scrittore tornava spesso con immutato affetto e con uno sguardo sempre attento e partecipe, lo dimostrano non solo la Cronologia, da lui stesa col contributo di Raffaele Manica, del Meridiano Mondadori Romanzi e racconti, ma diversi scritti di questo libro, che rievocano particolari della vita del giovane Nino Alberto, mentre altri saggi ne delineano il percorso intellettuale e artistico, accompagnati, nella seconda parte, da un Album di fotografie, da una breve Antologia di scritti rari, come la gustosa Traviata. Scritta telefonica stradale di Voghera scritta da F.M. Piave in collaborazione con la Stipel, uscita su «Capricorno» nel 1956, e da interviste.
Molti sono i momenti della giovinezza di Arbasino messi in evidenza in queste pagine, ma tra le più vive vi sono quelle di Gigi Giudice, che ce lo fa riapparire, con garbo e simpatia, alla guida della Lambretta o seduto sulla panchina vicino al pozzo del cortile, con giornali, libri e un taccuino. Era allora in attesa di Tino Giudice, che gli fu molto amico e condivise con lui il mito dell’Inghilterra e vari interessi culturali, che andavano da Gadda a Carlo Dossi, da Eliot a Fitzgerald, da Edmond Wilson a Praz a Roberto Longhi, mentre leggevano riviste di teatro, di cinema e di letteratura. Si preparava così l’apertura vasta di Arbasino alla civiltà letteraria nazionale e internazionale, che nutrì la sua narrativa e la sua saggistica, con una ricchezza davvero straordinaria, qui ampiamente documentata. Ma già Tino Giudice, recensendo Parigi o cara nel giugno 1961, sottolineava la «miniera inesauribile» che si poteva trovare nelle prose ora ironiche ora irriverenti e frivole, mai prive di dati e dettate, con le parole di Arbasino che ammoniva: «Prima vedere, poi parlare», da «un’indagine piuttosto seria sulla maggior parte delle avventure intellettuali che hanno significato qualche cosa in Europa dal ’55 al ‘60».
Dopo gli ottimi studi liceali a Voghera e universitari a Pavia e a Milano, dove scoprì nei Pomeriggi Musicali e a teatro grandi artisti, Roma fu il luogo che lo accolse nel 1958, brillante laureato in Diritto Internazionale avviato a diventare «diplomatico-scrittore» al modo anglosassone, e agevolò la sua decisione di scegliere la via della letteratura e del giornalismo culturale, come ricordano Ambrogio Arbasino (Alberto Arbasino e la sua città) e Vittorio Emiliani (Il nostro Nino Alberto). Egli sembrò rifiutare la Voghera provinciale dei suoi giovani anni, quando dichiarò nell’Autodizionario degli scrittori italiani: «Nato a Voghera nel 1930, rinato a Roma nel 1957». Gli ambienti intellettuali e letterari romani gli permisero certamente molti incontri stimolanti; tra questi l’amicizia con Carlo Emilio Gadda, del quale si disse, in un libretto magistrale, «nipotino» (L’ingegnere in blu, 2008), o l’appartenenza al Gruppo 63, accanto ad autori più vicini alla sua modernità. L’impasto stilistico della sua scrittura, il montaggio sempre originale, per complessità e contaminazione di generi e di linguaggi diversi fu frutto per Clelia Martignoni (Onore al grande Arbasino) della sua formazione agile e ricca, cosmopolita, ma anche di un’insoddisfazione creativa che lo portava a scrivere e a riscrivere, come confessò a Franca Lavezzi:

[…] forse non esistono delle redazioni definitive e ne varietur di testi; per quello che mi riguarda, se per qualunque ragione- ristampa, rilettura – rileggo una cosa mia tre, quattro, cinque volte, sono portato a riscriverla tre, quattro, cinque volte, non la vedo mai come definitiva.

Così accadde con le tre edizioni del romanzo Fratelli d’Italia, opera centrale dello scrittore e rappresentazione epica del secondo Novecento italiano. Di acrobazie, di «mirabolante trottola narrativo-critica» parla Roberto Barbolini (Arbasino, il fratello italiano), che riconosce allo scrittore il ruolo di chi ha fatto i conti «con il cronico ritardo culturale di un’Italietta provinciale messa flaubertianamente alla berlina attraverso il “catalogo di Leporello” dei suoi luoghi comuni, cementati da vezzi e vizi secolari». Sotto il segno di una memoria prodigiosa, di un’instancabile abilità metamorfica e di sperimentazione linguistica, capace di sfruttare, con Angelo Vicini, termini vogheresi e lombardi, lo colloca Guido Conti, che identifica l’autoritratto in progress di Arbasino come proprio di colui che non riesce a racchiudere in una sola forma il caos del mondo. Grande ritrattista, lo scrittore (memorabile Greta Garbo) offre esempi di una tecnica di accumulo, che gioca con parole, ritmi, elenchi, in un continuo crescendo, che può essere vertigine, ma soprattutto invenzione continua e testimonianza degli umori e dello spirito di un’epoca (Un Solimano della letteratura Alberto Arbasino: nell’officina dello scrittore).
Sempre contemporaneo al suo tempo fu dunque Arbasino, uomo e saggista civile. Ne accenna Emiliani, si sofferma lungamente in La Musa civica di Alberto Arbasino Ambrogio Arbasino, ripercorrendo l’itinerario familiare, intellettuale e politico di grande spessore di Alberto, attraverso i tempi, gli interventi e le opere che segnarono il suo impegno, che dal locale «Il Cittadino» al «Mondo», dal «Giorno» alla «Repubblica» e all’elezione alla Camera dei Deputati nelle liste repubblicane, rivelarono una presenza costante, razionale e critica alla vita italiana ed europea. Altri studi intervengono a delineare il volto di questo scrittore, che seppe, viaggiando, aprirsi al mondo, stendendo notevoli reportage e articoli sul teatro d’opera, su concerti, musical e commedie a Berlino, Parigi, Amburgo, New York, San Francisco, Los Angeles e in altre città di quegli USA cui dedicò il bellissimo America amore. Eppure egli seppe anche raccontare con amara ironia i conformismi e le mutazioni, le rovine e le tragedie umane e politiche della società nazionale, ora in presa diretta, come nell’instant book sul drammatico caso Moro (In questo stato, 1978), ora congedandosi da anni poco amati, come in Un paese senza del 1980 e in Paesaggi italiani con zombi del 1998.

Tra gli scritti riportati nella sezione Antologia Arbasino si può notare l’acuta registrazione di situazioni, che, a distanza di anni, conserva sapore di attualità, in un Village, cartolina che si lesse su «la Repubblica» del 18 novembre 2009:

Periodicamente ci viene rammentato che nella nostra Italia il confronto politico diventa guerra fra nemici. Con vero odio, e tutto. Ma l’ha provato e vissuto Dante, lo sapeva anche Shakespeare: Guelfi e Ghibellini, Bianchi e Neri, Capuleti e Montecchi in tutta la penisola, eccetera.
Forse si illudeva G. B. Vico discorrendo di “corsi e ricorsi storici”; o forse il Croce, scorgendo malaugurati incubi che all’alba si dissolvono.
E avevano piuttosto ragione gli altri autorevoli studiosi: trattasi di costanti e caratteri. Antropologi, etnici…

Quanto a Voghera, fu certamente la città cui tornava spesso, col pensiero e con i ricordi. E mi sia concesso ripensare ai miei incontri con lui, durante gli intervalli dei concerti sinfonici dell’Accademia di Santa Cecilia, e al piacere, reciproco, di parlare di luoghi, dell’arte del pittore vogherese Paolo Borroni, di persone e fatti avvenuti in quella città di provincia, della quale si sentiva ancora parte: «Dimenticare Voghera? Non è umanamente possibile, direbbe Gadda», sottolineò Arbasino, rispondendo a Giovanni Testori (È possibile fare poesia in Bulgaria?) a proposito del rapporto tra marginalità provinciale e verità della creazione artistica, tra realtà del cuore e passaggio al mondo intero.

 

L'autore

Gabriella Palli Baroni
Gabriella Palli Baroni laureata in Lettere Classiche a Pavia, allieva di Lanfranco Caretti, perfezionata a Chicago e a San Diego sul pensiero scientifico rinascimentale e su Machiavelli, vive a Roma. Scrittrice e saggista, è studiosa di letteratura dell’800 e del 900 ed è critica di letteratura contemporanea. Collaboratrice di «Strumenti Critici», «L’Illuminista», «Il Ponte» e di altre riviste italiane e straniere, si è dedicata in particolare ad Attilio Bertolucci, del quale ha curato il Meridiano Mondadori Opere, le prose Ho rubato due versi a Baudelaire, gli scritti sul cinema e sull’arte, e a Vittorio Sereni, del quale ha curato i carteggi con Bertolucci (Una lunga amicizia. Lettere 1938-1983, Garzanti 1993) e con Ungaretti Un filo d’acqua per dissetarsi. Lettere 1949-1969, Archinto, 2013). Ha inoltre pubblicato l’antologia Dagli Scapigliati ai Crepuscolari (Istituto Poligrafico dello Stato 2000) e Tavolozza di Emilio Praga (Nuova SI, 2008). È autrice di saggi sulla poesia di Amelia Rosselli e ha collaborato al Meridiano L’opera poetica, uscito nel 2012 e al numero monografico XV, 2-2013 di «Moderna» (Serra, 2015). Nel 2020 ha pubblicato di Attilio e Ninetta Bertolucci, Il nostro desiderio di diventare rondini. Poesie e lettere (Garzanti).