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A proposito di “C’era una volta la città dei matti”. Ilaria de Seta intervista Marco Turco

A complemento del mio recente articolo su Il folle dettaglio e la società sistema. Nell’Ottocento russo di Cechov e nella narrativa italiana post-Basaglia, propongo adesso un’intervista a Marco Turco, regista di un film per la RAI dedicato a Franco Basaglia e in particolare all’apertura dei manicomi di Gorizia e Trieste. Il film ha il formato della fiction in due puntate con attori di grido, tra cui Fabrizio Gifuni, nel ruolo dello psichiatra, e Vittoria Puccini, che interpreta una paziente “esemplare”. Realistico, crudo nelle prime scene in cui il medico e la sua equipe scoprono insieme agli spettatori il mondo dei reduci, ma carico di forza vitale come lo è stata la rivoluzione basagliana. Il regista romano, di cui è recentemente andata in onda una fiction su Rino Gaetano, ha firmato la regia di un altrettanto impegnato e splendido film sui brigatisti italiani rifugiati a Parigi, Vite in sospeso, 1998, con il giovane talentuoso Gifuni, Ennio Fantastichini, Isabella Ferrari e il bravissimo Massimo Bellinzoni, nonché di un recentissimo documentario su Primo Levi, con Thomas Trabacchi nel ruolo di protagonista. L’impronta del regista emerge non solo nella scelta dei temi, ma anche nella direzione degli attori e delle atmosfere ricreate, al crocevia tra finzione e documentazione cinematografica. C’era una volta la città dei matti va visto oggi a distanza di 11 anni dalla sua uscita per l’attualità dei temi affrontati. Se la narrativa recente, con un’insistenza marcata sul disagio mentale ha riscosso un forte successo di critica e pubblico, è evidente quanto i lettori e gli spettatori, metonimia della società, siano oggi non solo sensibili ma anche desiderosi di saperne di più e di contribuire al benessere dei dettagli devianti con la volontà di integrazione e cura in un sistema più sano. Marco Turco, usando scaltramente gli utensili del proprio mestiere, restituisce un’immagine nitida, accorata e incoraggiante dell’epoca in cui la rivoluzione psichiatrica ha mosso i primi essenziali e sconvolgenti passi in Italia: un cammino che ora – grazie anche all’attenzione di scrittori, registi, artisti – è evidente vada ripreso.


Come le è venuta l’idea di girare questo film? 

Mi interessavano in generale gli anni Settanta, la militanza politica. Il mio interesse specifico era sulle assemblee che si tenevano negli ospedali e a cui partecipavano medici, paramedici e pazienti. Non erano poi così diverse dalle assemblee studentesche a cui avevo dedicato un mio altro film.

Cosa la lega alla psichiatria? 

Nulla in particolare, nulla di diverso da chiunque altro, ognuno di noi ha qualcosa da imparare da questo mondo. Sono stati i pazienti a fare la rivoluzione, a dare la forza a Basaglia e agli altri di aprire i lager.

O forse è stato un film “commissionato”?

In parte, cioè solo nel senso che la RAI, dopo il successo del film su Rino Gaetano, mi ha chiesto una fiction, una biografia, anche se alla fine non è solo una biografia di Basaglia, e mi ha dato carta bianca.

Ha avuto rapporti scorrevoli con la RAI?

Devo dire di sì.

Non c’è stato alcun tentativo di censura?

No, non c’è stata censura. Nonostante le scene iniziali molto dure, il film è andato in onda in prima serata e la mattina seguente era evidente che “tutti” lo avevano visto. Nelle trasmissioni radiofoniche non si parlava d’altro. La fiction aveva risposto a un’implicita domanda del pubblico.

Ho letto che ha lavorato con lo psichiatra Dell’Acqua; anche con qualcuno del personale paramedico degli ospedali psichiatrici di Gorizia e Trieste? O familiari discendenti dei personaggi rappresentati?

Assolutamente sì. Dell’Acqua è stata una guida essenziale, a partire dal suo libro Non ho l’arma che uccide il leone, che è stato fonte di ispirazione, e ha seguito la lavorazione del film. Abbiamo lavorato molto anche con il Teatro della follia che è ancora attivo. Ho realizzato oltre cento ore e di interviste con i pazienti di Gorizia e Trieste che erano ancora vivi quando preparavamo il film. Sono testimonianze impressionanti e preziose.

Ho letto che tra i figuranti ci sono persone affette da disagio mentale delle realtà di Gorizia e Trieste. Come è stato lavorare con loro?

È stato molto bello, quando eravamo in pausa cadevano tutte le distinzioni, non si capiva più quali erano i gli attori, quali i pazienti etc, eravamo un’unica comunità.

Nelle storie che ha ricostruito ci sono varie tipologie di traumi e sofferenze nonché immagino alcuni fatti di cronaca… 

Sono tutte storie vere, alcune accorpate, ad esempio quella di Margherita racchiude due biografie. Margherita l’ho conosciuta, l’abbiamo intervistata, viveva con le due gemelle del film, era stata una ragazza vivace e tutto quello che raccontiamo nel film è vero. Alcuni personaggi sono presi dal libro di Peppe dell’Acqua. Boris ad esempio nella realtà si chiamava Ljubo ed era un pittore sloveno.

L’ex funzionario di partito uxoricida involontario in seguito a lite per gelosia durante una delle prime uscite?

Quella è una storia vera, si chiamava Miclus.

Gli scambi di pazienti con il carcere psichiatrico (Boris e Lampo che torna in carrozzella)?

È tutto vero. Il carcere è quello di Aversa.

La signora Bianchina con la fisarmonica, così pacifica, che è abbandonata dalla figlia? L’infermiera Nives, combattuta, poi divorziata e convinta sostenitrice?

Nives è un peronaggio reale, Mariuccia Giacomini.

Mi sembra anche, in alcuni casi, gli attori abbiano fatto uso delle proprie esperienze di vita, lasciando trasparire ed esacerbando dei tratti del proprio carattere. È stato lei ad assegnare i ruoli?

Ho fatto mesi di provini, ogni attore ha dovuto fare improvvisazioni di ore, non era facile, la selezione è stata lunga e difficile.

Penso al ruolo interpretato da Vitaliano Trevisan (che conosco come scrittore, ma che ho visto interpretare anche altri ruoli, e in questo caso più che mai a proprio agio), a quello di Thomas Trabacchi, che a quanto ho letto ha avuto un’adolescenza agitata e a cui Gassman aveva rimproverato la parlata incomprensibile (irriconoscibile rispetto ai ruoli “leccati” delle recenti e numerose fiction televisive a cui ha preso parte). Gli stessi Fabrizio Gifuni e Vittoria Puccini hanno un’aria molto diversa in questo contesto. Per interpretare Basaglia ha convocato una rosa di attori o ha chiesto direttamente a Gifuni che incarna perfettamente il medico che ispira la fiducia dei pazienti?

Gli attori più noti hanno fatto prova di una bravura che io stesso non immaginavo. Vittoria Puccini ad esempio è camaleontica e Gifuni ha superato tutte le aspettative. Trevisan è turbolento, ma abbiamo lavorato bene insieme.

Gli attori sono stati autonomi o molto seguiti?

Gli attori vanno diretti.

Quanto tempo è durata la preparazione del film?

È stata una lunga lavorazione preparatoria di ricerca e interviste.

Cosa mi dice di Branko Djuric e del ruolo che interpreta? Oggi sembra che i traumi di guerra siano riconosciuti e trattati, nel prebasaglia sorprende una totale assenza di diagnosi e terapia a tale proposito. In tal senso i flash back sulle violenze viste e subite (da Boris e dalla madre di Margherita) si intendono come spiegazione per lo spettatore o alludono anche a una terapia che veniva fatta da Basaglia e i suoi, ma che nel film non c’era spazio di illustrare?

L’unica terapia era la ricerca di restituire l’identità ai pazienti. L’abbiamo rappresentato attraverso la scena dei comodini, [N.d.R. ai pazienti vengono restituiti gli effetti personali, e microtracce della vita precedente fuori dal Manicomio]. Non c’era una terapia specifica sui traumi di guerra. Per Basaglia era una questione sociale prima che psichiatrica.

La rappresentazione delle tre città principali, risponde a caratteristiche diverse, Venezia è incorniciata dalle finestre di casa Basaglia, Trieste è la più attuale, con la sua luce e il mare, Gorizia cupa…

L’ospedale di Trieste è in realtà quello di Imola [NdR: come in Rapino]

Che risonanza ha avuto il suo film in Italia e all’estero?

La RAI mi ha chiesto di farne un “puntatone” cioè ridurlo per mandarlo in onda in una sola serata, ma ho detto no, non si può tagliare una storia come questa. All’estero abbiamo avuto un successo assolutamente inimmaginabile. Il film è stato premiato a festival internazional, da Montecarlo a Shangai. Il film ha girato il mondo dalla Svezia all’Iran.

L'autore

Ilaria de Seta
Ilaria de Seta
Ilaria de Seta si è formata all’Università di Napoli Federico II, ha perfezionato gli studi all’University College Cork e insegnato all’Université de Liège. Attualmente vive a Bruxelles, è Research Associate alla Katholieke Universteit Leuven e Freelance Editor presso la casa editrice Peter Lang. Ha dedicato numerosi studi alla rappresentazione dello spazio nella narrativa otto-novecenetesca e alla parabola intellettuale di Giuseppe Antonio Borgese. Ultimamente si sta concentrando sull'opera di Federigo Tozzi e sulla rappresentazione di medici e pazienti nella letteratura europea moderna e contemporanea.