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Achille Perilli esploratore dell’universo

Arithmétique
algèbre
géométrie
trinité grandiose! triangle lumineux!
Lautréamont

danzate, danzate, macchine irreali,
come su fili di lame, su picchi e crinali,
danzate, vi dico, danzate, perché vi sia gioia.
Angelo Maria Ripellino

A Scaletta, la campagna che circonda Orvieto Scalo e che si raggiunge percorrendo una strada bianca, tra due ali di querce e di castagni, accensioni improvvise di acacia, l’argento degli ulivi e il rosso bruciante delle vigne, dagli inizi degli anni Ottanta vive Achille Perilli. Dallo studio romano a Borghetto Flaminio e a via Margutta, dopo gli anni d’infanzia a Monte Sacro e l’adolescenza e la prima giovinezza a Piazza Dalmazia, in simbiosi con la vita di quartiere, eccolo porre alle sue spalle l’imponente piattaforma tufacea, la grande rupe su cui si staglia la città umbra. Eppure, anche in questa conca verde, atmosfere e suggestioni che hanno alimentato per millenni il mito di Orvieto non scompaiono, anzi ne amplificano il mistero. Girando tra l’ampio studio, il deposito dei dipinti e delle sculture, l’archivio delle avanguardie storiche, i grandi “Alberi” riparati sotto la tettoia che invita a una sosta prima di aprirsi alla civiltà del design, degli oggetti etno-antropologici o della scultura africana, ti aspetti, da un momento all’altro, di incappare in qualche testimonianza archeologica di epoca etrusca, di ritrovare tracce di quelle vie del traffico utilizzate per l’esportazione di ceramiche e bronzi, di porre i piedi su una necropoli. A blocchi modulari, che dia un ulteriore contributo alla conoscenza di una società multietnica, non dissimile da quella odierna e dalla stessa struttura abitativa di Perilli.
Le “grandi curiosità” e i “molteplici interessi” dei quali parla Perilli nell’autoritratto scritto nel 1990, il lavoro sull’illogico e sull’a-razionale affrontati con metodologia quasi scientifica e un puntiglioso senso della provocazione, gli slittamenti di senso e sprofondamenti metaforici da pioniere irrequieto, le istanze libertarie di chi si è messo in cammino riservandosi una posizione di superamento se non di sfondamento del realismo prima e dell’informale poi, le interferenze tra pittura, scultura e scenografia, le tracce di cultura métèque, ci sono tutti in questa casa-studio, “le storie di cubi e di rombi, di soldatini-lineette, di lune-triangoli” (cfr. A. M. Ripellino, Epistola al Signor Perilli, 1957) con cui era trascorsa l’infanzia prima che la terra affiorasse “come un’Atlantide sotto un festoso luccichìo di insegne”, di arabeschi, di fili a grovigli, di scarabocchi, di ideogrammi, ma anche la vocazione sperimentale di Lucia Latour e del ”Gruppo Altro”, i venti libri d’artista della “Librericciuola” dove le incisioni, realizzate tra il 1991 e il 2004, duettano ad armi pari con le fotografie, le pagine di musica, i disegni di architettura, i testi dei poeti amici di una vita: Elio Pagliarani, Alfredo Giuliani, Nanni Balestrini, Leonardo Sinisgalli, Cesare Vivaldi, Emilio Villa, Jean-Clarence Lambert. Tuttavia, il primo impatto è con una nuova entità architettonica che dal 1947 si è liberata dai vincoli della rappresentazione della natura (Composizione 11/47), con i colori dai toni squillanti e allegri (Praga, 1948) che rimbalzano, simili ad acqua piovana, dalla catasta di dipinti e disegni degli ultimi anni accumulati sul fondo dello studio o distribuiti sulle pareti, quasi a voler riaccendere le intuizioni felici della giovinezza e a esibire la spinta innovativa che l’ha incalzato fin dagli esordi, con la speranza, mai tradita, di ricostruire una cultura europea.

Achille Perilli, Forme in nevrosi, 1948
Achille Perilli, Forme in nevrosi, 1948

Da un quadrato all’altro, le tele 20×20 sono sparpagliate come un mazzo di carte magiche che dispongono figure geometriche abbaglianti, piatte e lisce, lontane dalle regole classiche della prospettiva (“La prospettiva – scrive – è la forma più repressiva della fantasia”), dalla natura “cava” dell’aria che tanto aveva occupato Mallarmé. Recuperando luce e ombra, tirando fuori l’immagine ora da ceppi di fili (Monumento ai confini del mondo, 1956) ora da punti (Viaggio nel cuore delle cose, 1958), vortici (Il volo del drago, 1960) e rigurgiti di stanze care a Brunelleschi e Piero della Francesca, Paolo Uccello e Albrecht Dürer (La triste storia, 1964, Les proportions, c’est l’infini, 1967, Obliques, 1969, La debilitante convergenza, 1970, Theatrum mundi, 1973, Il palazzo dei sogni, 1978), il tono si distende lentamente su superfici omogenee, attento ai fulgori improvvisi e al tremolio di una sensazione, ai fantasmi leggeri e ilari, alle forme labili eppure dinamiche, non diversamente dall’amato Antonio Donghi dei paesaggi, con le foglie degli alberi dipinte una ad una, dal fiume in piena Luigi Bartolini, rincorso per anni lungo le prode delle sue incisioni, dalla sintesi di piani tendenti alla superficie di Alberto Magnelli, suo costante stimolo mentale, dalle composizioni rigorose di Atanasio Soldati, organizzate intorno a un asse diagonale e con un’idea precisa dell’arte non oggettiva (“La pittura astratta – anche se l’aggettivo può non essere adatto – ama l’analisi, l’ordine, gli armoniosi rapporti della geometria, la chiarezza… Né riproduzioni della natura, né sensazioni della vita. Per esprimere il dramma, non c’è bisogno di coltelli o cadaveri, [] ma semplicemente di linee, di colori, di superfici, come dire di tutti i mezzi propri della pittura, senza impianti di alcuna sorta: al di sopra della letteratura. Le percezioni dell’artista sono infinitamente più preziose che le descrizioni più fedeli della realtà”, 1935), dalla creatività di Hans Richter manifestata in una smisurata varietà di campi, pittura – disegno – cinema – scrittura – editoria – insegnamento, collaborando e dialogando con alcuni tra i principali esponenti dell’arte del suo tempo, da Marcel Duchamp a Kazimir Malevič, da Theo van Doesburg a Kurt Schwitters, da Max Ernst a Sergej Ejzenštejn. Un esempio da seguire, dalla prima parentesi figurativa agli esordi espressionisti nella Berlino dei primi anni dieci, per ritrovarlo, poi, accanto a Tristan Tzara, Hugo Ball, Jean Arp e Marcel Janco, protagonista geniale della straordinaria stagione del Dadaismo zurighese. La seduzione per quadrati, rombi e rettangoli, le eleganti astrazioni dei disegni, dei collage, delle sculture, delle incisioni e delle litografie, dei libri d’artista, volti all’esigenza di articolare lo spazio attraverso l’analisi e l’utilizzo di forme semplici e pure, duttili elementi in espansione e contrazione con cui dare nuovo ritmo alla visione del reale, non collimerà, dal 1969 in poi, con la “pittura in continuità” di Perilli, teso a comporre continue variazioni di un tema visivo che, in sequenza, si sviluppa, prende rilievo, si muove come una navicella spaziale alla scoperta di nuovi mondi?
La bella sintesi di settant’anni di vita e pittura che la casa restituisce (costruire un proprio universo, proprio come il Dadaismo gli aveva insegnato) sarebbe poca cosa se si fermasse alle curiosità e agli interessi e non analizzasse, in continuum, “l’esigenza di una materia complessa, di un segno più comunicante” da riproporre come codici pittorici e strumenti di conoscenza che, in progressione, di decennio in decennio, Finestra paesaggio Paesaggio  astratto (1947), Forme plastiche Forme in nevrosi (1948), Due forze in contrasto nello spazio Composizione analitica (1950), E dietro infiniti spazii (1951), Trino (1954), La fiesta triste (1955), Le rocce dell’antica saggezza (1957), La grande Eva (1958), Secretum secretissimus noster (1959), Raffigurazione dei contenuti occulti (1960), La pagina 4 e Georgia in wonderland (1961), Manoscritto per Carla L’attesa (1962), La prima (1963), Rosa Luxemburg (1964), Allegoria per [Gaetano] Bresci (1965), La source e Le strutture del primario (1967), Omaggio a Brancusi (1968), Orizzontale e verticale (1969), La fuga dalla vocazione (1972), L’occhio di Marat (1974), Il complicato (1975), La testa acefala (1978), Dialectique du hasard (1982), Il solare I quattro luoghi del mentale (1986), Hommage à monsieur Joseph-Ignace Guillotin, (1989), Monumento ad una goletta (1996), Il nocino recuperato (1996), Apollo e Dafne (1997), Un pieno di stelle (1998), L’allegria del pianeta (2002), Elogio della lussuria (2005), evidenziano con la determinazione della luce che rode la rigidità dei contorni delle opere tra il 1987 e il 2006 (Il nuovo paradigma, 1987, Descrizione/Costruzione, 1988, Dove sta Urano?, 1989, A cavallo di Andromeda, 1991, Figli della luna e delle ombre, 1995, Un mare nel deserto, 1998, Ombre de lumière, 2001, Arriva il domaniTipico manufatto, 2006) e apre varchi tra le tenebre dell’ignoto per una originale riflessione sullo spazio e un preciso disegno del mondo a venire.
Le prime luci, una sorta di lavaggio della retina (cfr. Finestra paesaggio, 1947), appaiono con l’inusuale lezione di storia dell’arte ricevuta dalla mostra “Pittura francese d’oggi” che il 12 ottobre 1946 si apre alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Ottantotto opere, provenienti dal Museo Nazionale d’Arte Moderna di Parigi e dai maggiori galleristi/collezionisti del secolo (Louise Leiris, Pierre Colle, Jean e Henri Bernheim, René Drouin, Roux Hentschel, Paul Rosenberg, Jeanne Bucher, Pierre-Jean Jouve, Georges Maratier), suddivise in tre sale con evidenti intenzioni didattiche (Generazione anziana. I Caposcuola; La nuova generazione. Tendenza a un ritorno alla realtà; La nuova generazione. Tendenza a un rinnovamento della pittura pura), ripropongono Parigi con i suoi artisti, diversi frequentati nel corso degli anni (Picasso e la Natura morta con una testa antica, del 1925, capofila, e poi Robert Delaunay della Natura morta portoghese, 1915, Léon Gischia di Composition, 1940, Charles Lapique di Marina, 1940, Jean Le Moal di Calvaire, 1946, André Lhote di 14 juillet, Port de Bordeaux-Poincaré, 1913, Alfred Manessier di Faro di Port Navalo, 1945, André Masson di La metamorfosi delle piante, 1940, Gabriel Robin di Paesaggio: la strada, 1944, Gaston Louis Roux di Madre e bambino, 1942, Gustave Singier di La casa dell’Infante, 1942, Pierre Tal Coat di Composizione, 1943, Jacques Villon di La donna in rosso, 1937), quale centro nevralgico dell’arte, asse portante delle diverse tendenze susseguitesi nei decenni e delle azioni necessarie agli sviluppi espressivi che lo accompagneranno dal dopoguerra ai primi annunci del nuovo secolo.
Questa mostra solleciterà il viaggio a Parigi nel 1947 (con le visite all’atelier di Singier e di Henry-Georges Adam, ospite quest’ultimo nello studio di Picasso in rue des Grands-Augustins) e lo guiderà a redigere il manifesto programmatico di “Forma 1” che, partendo dalle premesse, le affermazioni e le negazioni del Futurismo, rendendo distinguibili provenienze e situazioni degli altri adepti (Carla Accardi, Pietro Consagra, Piero Dorazio, Mino Guerrini, Antonio Sanfilippo, Giulio Turcato), si oppone all’espressionismo e al sentimentalismo, guarda di traverso la Scuola Romana, sorride dei “Quattro fuori strada” (Toti Scialoja, Piero Sadun, Arnoldo Ciarrocchi e Giovanni Stradone) teorizzati da Cesare Brandi alla Galleria del Secolo, proclama il sostegno dell’astrattismo di contro al verismo sociale impegnato sul fronte politico, cerca la “bellezza armoniosa”. Non poteva essere diversamente per chi, incalzato da Lionello Venturi, aveva consumato gli occhi sulle riproduzioni, da Monet a Cézanne, e sulle pagine de “Il Politecnico” (1945-1947) di Elio Vittorini, frequentato quasi quotidianamente Enrico Prampolini e la sua idea di Europa, di avanguardia e di movimento moderno nutriti alle fonti del dadaismo, della Section d’Or, del Bauhaus, di De Stijl, del gruppo Abstraction-Création (quindi Klee, Kandinsky, Mondrian, Van Doesburg, Gropius, Piscator, Max Jacob…) ed espressa attraverso l’“Art Club” o un libretto come “Arte polimaterica (verso un’arte collettiva?)”, del 1944, caro a lui e a Dorazio, letto Vie des Formes di Henri Focillon appena uscito nelle Edizioni Le Tre Venezie di Padova, parlato e discusso a lungo, con Ripellino (L’eccellenza Ripellino, 1954), di Schlemmer e Schwitters, del formalismo russo e del surrealismo cecoslovacco, di Kolář e Lhoták, della rivoluzione d’ottobre, dei rapporti con l’avanguardia, delle “frecce di Klee, bianchi specchi di Mondrian”, di danzanti macchine acchiappanuvole prive di peso ma anche di Vladimír Holan e Velimir Chlebnikov e di tutto ciò che poteva aumentare la potenzialità creativa, era stato folgorato da Locus Solus di Raymond Roussel e da “le sentiment de l’infini” di Giuseppe Ungaretti. E quanto aveva contato il Furor mathematicus di Leonardo Sinisgalli la cui gestazione aveva avuto principio con il Quaderno di geometria nel 1935-1943 e di anno in anno si era sottratto a tutti i campi già sarchiati della pittura, dell’architettura, della poesia? Essere formalisti e marxisti, rivisitare le esperienze censurate dal fascismo, ammettere che in arte esiste soltanto la realtà tradizionale e inventiva della forma pura di contro al realismo socialista che condannava la ricerca autonoma, era il modo migliore per avvertire gli stridori dell’eccessiva meccanicità di quanto si andava facendo, scrollarsi di dosso il peso ideologico esteso dal Partito Comunista sulla cultura, combattere il Novecento di Margherita Sarfatti deteriorato con Ferruccio Ferrazzi, ciò che restava della Scuola Romana vedova di Corrado Cagli trasferitosi negli Stati Uniti e, fatto salvo Mario Mafai beffeggiato da Renato Guttuso, sottrarsi al clima provinciale di Roma.
Soprattutto dopo i giorni trascorsi a Praga e a Monaco, l’incontro con il cubismo analitico di Picasso e Braque bruciava tutti i trucioli accumulati nelle lettere a Dorazio, spingeva a partecipare con convinzione alla trasformazione degli ordinamenti interni dell’arte, fissava per la prima volta nella sua opera la struttura lineare (Pollice di spazio, 1951), segnava il colore di un qualcosa di diverso che non fosse il ricordo cromatico futurista (Piccolo omaggio a Cravan, 1954), prendevano evidenza scenica le scorrerie dell’immaginazione (Lasciate giocare i pittori, 1955) e le ambiguità oniriche. E qui, l’intuizione di Klee sarà cruciale, a tal punto da rendere evidenti i punti di forza del lavoro basato sul multiculturalismo (Omaggio a Klee, 1959), sul dialogo con le correnti artistiche proiettate nel futuro, dadaismo in primis, che “incorpora” in maniera personale, su qualità cromatica e forza espressiva, su un rigoroso disegno geometrico associato al motivo architettonico, senza mai rinunciare all’aspetto teorico (Tentativi di ricostruzione di Golem, 1974), alla vocazione didattica.

Achille Perilli, il sigillo, 1960
Achille Perilli, il sigillo, 1960

Il pittore svizzero diventa un universo nascosto da scoprire, un serbatoio di idee ma anche, come Magnelli, il fil rouge di un’esistenza caratterizzata dall’autonomia e dal rifiuto di sottomettersi al dogmatismo, tanto da far azzardare un parallelo tra le sue “Colonne” prima, i suoi “Alberi” poi, e le marionette di Klee che, con una buona dose di sarcasmo, suonano come una critica alla perdita di umanità dell’universo industriale. In questa accezione, il disegno, sua prima intuizione divenuta dal 1951 grammatica delle idee (Il primo di una storia), strumento di analisi efficace per acquisire altri mezzi e necessario per analizzare le diverse fasi di una mutazione espressiva carica di problematiche e di storia, a partire dall’autoperfezionamento, dalla disciplina nella sperimentazione (cfr. Trasformazione dello spazio, Edizioni di Boccadasse, Genova 1967), costituisce il lento avvicinamento al colore, in un gioco di associazioni e sospensioni bloccate in un punto preciso del quadro, lì dove la forma primaria, creata anche attraverso la tecnica del collage e poi frantumata in una conflagrazione di segni, alla fine genera una nuova struttura. Ogni opera successiva, quasi dovesse innestarvi l’allegria della fantasia, partirà da quel punto, dove il pensiero non si riduce al personale codice linguistico ma si estende a ogni possibile identificazione, non più ancorata alla conquista di capacità pregresse delle avanguardie storiche, bensì proteso verso tutto ciò che è osservazione e cimento, ordini e corrispondenze, raccordi e rastremazioni, percezione e visione, insieme di conoscenza e di attenzione al mondo circostante, di occhio vivo che predispone “une vraie métamorphose”. Terreno sperimentale, del 1956, è la matrice di quanto si svilupperà nel corso degli anni successivi, fino al 1969, quindi da Per conoscenza, 1957, a I miei amici poeti, 1958, Il suono nel tempo, 1959, L’umore del sole, 1960, Confessione di un peccatore, 1961, Il sogno dell’astronomo, 1962, Marx brothers, 1963, Il suono del cinese, 1964, Paesaggio 3, 1965, Passando attraverso un occhio della luna, 1966, Il palazzo di Venere, 1967, L’imprevedibile evento, 1968.

Achille Perilli, La prima, 1963
Achille Perilli, La prima, 1963

Da questa persistente evoluzione vide la luce “Grammatica”, dal palesarsi di un metodo espressivo chiaro nel corso del suo sviluppo e capace di definire le regole dell’immaginazione creativa e ogni susseguente formulazione del proprio linguaggio mediante una serie di sottintesi, partecipazioni, estasi, scorrerie, regole arbitrarie, forme abilmente convergenti nelle costruzioni prive di radici fisse perché una ne nasconde tante altre, quasi un’infinità di possibilità, tutte da tentare, addentrandosi negli innesti e nei sistemi di corpi geometrici in equilibrio nello spazio cosmico, nelle suggestioni del volo e nei legami col balletto, nelle scatole ribaltate e nei prismi derivati da interstizi minimi e subito diffusi in vari formati. Infatti, la messa in scena di questo metodo compositivo che, per una inedita realtà architettonica, sulla scia di El Lissitzky, adotta la geometria come codice linguistico, esasperato in complessità negli ultimi anni, mira a cogliere tutte le potenzialità che si annidano in questa sorta di mosaico cesellato dove ogni opera si incastra nell’altra.
Elemento originario, la rivolta a ogni costrizione, accarezzata in più occasioni come scatto di pensiero, invenzione aperta in libertà, linea di poetica, soprattutto negli anni in cui lo scarabocchio da graduale e approssimativo si fa severa parabola sociologica, coglie il suo messaggio più segreto in Time capsule, un libro del 1958 dove la tensione mentale si affida alle citazioni per ritrovare, all’insegna della leggerezza e della misura, della chiarezza, la castità della geometria dispiegatasi in uno spazio immaginario, una sorta di sopramondo privo di peso. Come dire, la risultante razionale di una combinazione illogica attraverso cui articolare elementi diversi che gli permettano – invadendo, se necessario, anche la scena teatrale e quella musicale – di affrontare il problema dell’invisibile e della prospettiva multipla.
È che Perilli, dall’armonia cara a Pitagora, vista come una vera e propria figura, la danza segno naturale, all’ “esprit de géométrie” di Pascal, ovvero di un senso della misura e della posizione¸ ha fiducia nel suo occhio e conosce perfettamente il meccanismo della visione. Il lemma di Archimede (dati due segmenti, si può sempre trovare un multiplo di uno qualunque di essi che superi l’altro) gli dà la possibilità di esercitarsi all’infinito sulla costruzione di forme, stabilendone al tempo stesso corrispondenze, varianti, rapporti logici. Non diversamente dai Ludi Mathematici di Leon Battista Alberti: “Se ’l campo non sarà di queste due forme dette e pur sarà terminato con linee rette, fate così. Abbiate una squadra grande, e cominciate da uno dei lati quale vi pare più atto, e secondo che vi termina la squadra, dirizzate e’ fili e cavatene tutti e’ quadrangoli, e fate come di sopra multiplicando loro insieme. E simile, se rimane triangoli, fate con la squadra vostra di notare gli angoli retti dividendo dove vi pare il luogo più atto, e accogliete le somme, e starà bene. Qui per darvi qualche similitudine posi essemplo del modo di dividerli”.
È la “geometria negata” di cui parla Gabriella Drudi, fatta di “incroci sbilenchi, triangoli supplementari, diagonali rientrate, ipotenuse ipertese, in un contorto ma non sconnesso schieramento di poliedri precari. Paiono le sue opere impregnate di uno humor di matrice dada-surrealista, sono “macchine produttrici di immaginazione”. Infatti, quasi a voler concludere l’analisi teorica del proprio lavoro, dopo il Manifesto della Folle Immagine nello Spazio Immaginario (1971) e Machinerie, ma chère machine (1972-1975) che è la continuazione di quel procedimento di manipolazione della prospettiva (“Machinerie” è un’operazione mentale atta a elaborare e a definire strutture variabili in continua modificazione e soprattutto non riscontrabili nella realtà), nel 1982 Perilli scrive la Teoria dell’irrazionale geometrico, continuando a sostenere la necessità di spostarsi verso uno spazio immaginario. Nei quadri di quel periodo la geometria continua ad essere declinata nei modi più disparati, le strutture giocano tra bidimensionalità e tridimensionalità, o diventano spigolose e acute, si allungano tanto da poter continuare anche fuori della tela, con colori brillanti, quasi lucidi.
In questo ambito, l’incontro con Alfredo Giuliani e quindi con i “novissimi” e il “Gruppo 63”, la frequentazione dei musicisti e compositori immersi in Europa (Franco Evangelisti, Aldo Clementi, Domenico Guaccero, Antonio De Blasio, Egisto Macchi, Mario Bertoncini, Mauro Bortolotti e gli altri del “Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza”), l’amicizia con Tadeusz Kantor, le vicende del Teatro Cricot 2, i pittori che vi collaboravano, le influenze del Costruttivismo russo, i programmi della Galleria Foksal tra il 1966 e il 1994, a Varsavia, dove nel 1979 sarà presente il “Gruppo Altro”, la partecipazione attiva di Kantor nella preparazione del numero speciale di “Grammatica” (1969) e della mostra dell’Avanguardia Polacca al Palazzo delle Esposizioni di Roma (1979), il suo contributo allo sviluppo dell’happening e dell’installazione, il lavoro teorico svolto con la scrittura e la pubblicazione di vari manifesti, sono determinanti per liberare Perilli da ogni influenza di teorie costituite o legami col passato. Come Kantor, in un cosmo pullulante di immagini che la memoria trattiene in maniera indelebile, lo scandaglio e lo sconfinamento di diversi linguaggi, che Perilli chiama “intercodice”, costituisce un elemento essenziale per portare sulla tela o in scena, al di là di ogni convenzione rappresentativa, la realtà del tempo che verrà. Una realtà popolata di fantasmi, di oggetti sospesi tra passato e infinito, tesa com’è a far percepire emozioni scavate nel profondo del subconscio mediante evocazioni struggenti.

Achille Perilli, Hommage à monsieur Joseph-Ignace Guillotin, 1989
Achille Perilli, Hommage à monsieur Joseph-Ignace Guillotin, 1989

Appare evidente, allora, il nutrimento proveniente dai movimenti d’avanguardia, il fatto di considerare tutto materia del proprio spettacolo, anche il disegno degli alfabeti, il collage, la performance, l’happening, l’installazione, la geometria, la sperimentazione dell’incisione e il linguaggio della stampa, con quella unitarietà, propria de “L’Esperienza moderna”, capace di “trovare una base comune” per ampliare la propria comunicazione. Come non ricordare, a tal proposito, Collage, con Aldo Clementi, al Teatro Eliseo di Roma, nel 1961: un’azione astratta in sei scene, senza intervento alcuno di attori o ballerini, con sculture mobili di fili di ferro o in plastica trasparente, luci inquietanti, flippers, film, carpiti al caos, utili per “smontare l’illusione della loro autonomia, avvicinandosi sempre più al reale funzionamento della mente”? O le sei scene e i costumi del balletto Mutazioni, su libretto di Nanni Balestrini e musica di Vittorio Fellegara, dato alla Scala di Milano nel 1965? Scrive: “Non è più la pittura, la bella pittura, il fine del discorso, ma solo uno degli strumenti per rendere visibile quanto ancora è ignoto nell’uomo e all’uomo. […] Sentirsi elemento del cosmo e avvertire in sé qualcosa che è ancora cosmo produce quell’incontro tra poesia e pittura che è la sintesi raggiunta da Klee”. È il Klee di “Io e il colore facciamo ormai tutt’uno”, ovvero del colore come parte integrante nella preparazione del quadro, del disegno come scavo e annotazione delle profondità della natura, di fronte al soggetto e tramite il linguaggio rappresentativo, ora carico di tratti filiformi o geroglifici e subito dopo pronto a sezionare l’alveolo di un’arnia per indicare la via d’uscita dal labirinto come struttura linguistica in cui la geometria lo trascina. E più il disegno si organizza, si associa, si oppone, oscilla, si ribalta, più il colore si esalta, sottraendosi alla complementarità, collega i piani, origina i ritmi sulle pause emotive, modulando i valori tonali in rapporto ai prismi luminosi in movimento nello spazio. Non diversamente dai riquadri in sequenza che, con rigore e gaiezza, accolgono una rivisitata calligrafia zen (Zekkai Chūshin, Ikkyū Sōjun, Seigan Sōi, Jiun Onkō, quest’ultimo abilissimo pittore) e i comic strips americani capaci di svuotare il rocchetto sbilenco di fili e grovigli divenuto, annodando e snodando, per proiezione, quel “fumetto” che, al contrario, nello spirito delle avanguardie in cui Perilli è cresciuto, è il punto nodale di una “comunicazione nuova”, un inedito strumento per rendere visibile quanto è ancora ignoto, liberandolo dalla visione prestabilita e dal metodo codificato. Con pungente ironia.
L’assetto visionario, tutto relazioni e reazioni tra superficie, segno e materia, è caratteristico di chi vuole inventarsi uno stile e vede l’opera come genesi di uno spazio interiore. O come suggerisce Luciano Anceschi, di chi vuole adottare una metodologia del nuovo, poi assimilata dal “Gruppo 63”, ovvero “coerente convergenza tra le arti nella ricerca comune, e un orientamento di pensiero capace di intendere, di dominare, di sollecitare il tumulto del nuovo”.
Che questa convergenza sia alla base del lavoro di Perilli è ormai dimostrato, così come appare evidente il crollo di molte certezze fino a quel momento accolte, sia in poesia che in arte, così da scatenare reazioni in quanti, per educazione e formazione, sentono un limite per ricerche che travolgono dogmi codificati. Basta scorrere, nel passaggio da una tecnica all’altra, senza che avvenga mai una tangibile incrinatura nei modi linguistici, l’appassionato impegno nell’incisione e nei libri d’artista che segnano questo fervore. Intanto, acquaforte-acquatinta o litografia che sia, non è mai una trasposizione di immagine dal disegno o dalla pittura, tanto sono diversi i procedimenti e i tempi di esecuzione, i modi di affrontare la lastra o la pietra nel rispetto di una tradizione secolare, dalla forte, complessa e ambigua componente alchemica (cfr. Jean-Clarence Lambert, Theatrum sanitatis, Roma 1960), che gli offre valori nuovi di creatività, angolazioni esclusive di sequenze formali, eccitanti per smarrire e ritrovare la via d’uscita dal personale labirinto esistenziale (cfr. C. Vasio, Le centodue parole, Roma 1962; A. M. Ripellino, Un progetto di vita, Verona 1976), sorta di canto notturno, di solitudine immensa nel quale si condensano i segni della memoria.
Tutto ciò, prendendo atto di una storia e di un contesto che appartengono anche ad alcuni degli artisti che sostengono e sono sostenuti dal “Gruppo 63” (Toti Scialoja e Gastone Novelli in primis, Nicola Carrino, Nato Frascà, Pasquale Santoro e Giuseppe Uncini, poi, che hanno rotto ogni ponte con la rappresentatività e la figuralità tradizionalmente intese), senza mai uscire dal discorso della contemporaneità, dagli strumenti che l’arte velocissima di quegli anni, soprattutto la scultura, gli fornisce, affrontando le situazioni e reagendovi, vivendone i molteplici intrecci affidati a idee della forma e a opere che verificano nuove tecniche attraverso molteplici materiali (cemento colato, terre, filtri, iuta, polistirolo, plastica, masonite, cellophane, trafilato, acrilico, vinavil, formica, lamiera, plexiglass, tufo, carbone, segatura, calce, resina sintetica, anticorodal, cenere). Evitando ogni possibile complicazione, anche dei supporti, che insieme alle tecniche, debbono far combaciare l’immagine con i materiali e rompere i margini della pittura come della scultura costruite pensando con le mani, da homo faber che congiunge e distrugge, chiude e apre, giustappone, materializza lo spazio e il segno, coniuga una serie di riflessioni sulla luce e sull’ombra in relazione all’oggetto.
Ecco, allora, Perilli figurarsi la scultura in grande e non essere monumentale o celebrativo (Monumento alle esplorazioni polari, 1964), farla lievitare nello spazio e sentirla leggera senza essere ingombrante (La Prima, 1963), più segno che massa (Gli Spartachisti, 1964), ora architettura, ora collage tridimensionale, ora racconto-scrittura (La piccola colonna d’Ercole, 1966), ora macchina teatrale che invade la scena, ruota, simile a una macchina da presa (Colonna Georgia,1963), e proietta su se stessa spazi percorribili, ora colonna da leggere volgendo rapidamente intorno alle nostre memorie a fumetti (La grande colonna Schwitters, 1967). Una sorta di spazio globale, costruito secondo le regole dell’“irrazionale geometrico”, idonee per liberare la fantasia, e la scoperta di una materia, il legno, dalla quale far emergere l’immagine che sta nuotando nel più profondo inconscio (Consacrata al Tao, 1964). Dove il segno, quasi dovesse svolgersi nel modo del rullo di pellicola dei vecchi film proiettati nel giro delle colonne, senza mai perdere un senso di misteriosa magia, mescolando realtà e memoria, viene restituito al suo significato originario, simbolo di una condizione di reminiscenza infantile tesa a costruire un piccolo universo familiare con un nume tutelare: Brancusi.
La tensione, individuata da Eco, “di proporre all’uomo la visione di più forme contemporaneamente e in divenire continuo”, è evidente sia nelle tematiche che Perilli si propone, sia nei mezzi utilizzati. Entrambi rifuggono da un linguaggio chiuso o limitato e da concetti artificiali, dagli stessi schemi analitici del “neocostruttivismo” di ispirazione gestaltica per un più tenace tumulto psicologico del riguardante. Lo stesso accade per Novelli e Scialoja che si sfilano dall’ombra ambigua e minacciosa degli scultori compagni di strada per immergersi in quella maniacale ricerca dello spazio propria della scultura come valore espressivo, poesia e luce.
Le componenti visive esplorate mediante le false leggi prospettiche, l’irrazionale o il casuale assorbiti da surrealisti e subito calati in una personale metodologia, danno a Perilli possibilità inaspettate di indagine sulla percezione e sugli spostamenti di campo, tanto da non poter aggirare l’immagine che costruisce la propria struttura interna con un segno che, senza rinunciare all’automatismo, sagoma la forma, sfaccetta i volumi, li ritocca scomponendo la luce in tasselli vibranti. Si snoda, così, un racconto (Hommage à Monsieur Joseph Ignace Guillotin, 1989) che suddivide senza sosta un dedalo fantastico affidato a una figura geometrica, dissonante anche nell’impulso emotivo che la muove e nel colore che la caratterizza per infinite varianti disposte per accogliere i passaggi dal gesto al segno e dal segno alla forma.
Il percorso che ne deriva, non solo visivo, è il più coerente dopo quello di Alberto Magnelli e di Sonia Delaunay che, in anticipo sui tempi, si affidarono a una composizione rigorosamente architettonica, indipendente da ogni teoria, svuotata d’ogni valore rappresentativo. Perilli fa un passo avanti. Con I quattro luoghi del mentale (1986), memore dei rinnovati viaggi nello spazio, affida ai quattro rettangoli del telaio la contrazione dei mezzi alla semplice espressione di un rapporto, e all’articolazione dei cubi l’astrazione ideale delle figure matematiche.
Si sottrae, così, allo stesso schema pitagorico di Mondrian, orchestra inediti accostamenti di colore alla ricerca di uno spazio globale e non nasconde dietro l’enigma l’emozione delle infinite mutazioni ritmiche dei motivi dell’irrazionale geometrico, la ripetizione divergente di tralicci cari al costruttivismo ma analizzati, di anno in anno, proprio come la scrittura de Il concetto di libertà (1959), dove la messa in pagina conserva il gusto della germinazione spontanea, o le quattro fasi del Dies irae (1978) andato in scena, in una rigorosa scatola prospettica, al Teatro dell’Opera di Roma su nastro elettronico di Aldo Clementi.
L’avventura poetica della folle immagine nello spazio immaginario (“La Folle Immagine è il momento della coscienza irrazionale collettiva condensatasi in una situazione reale”) non si è dunque acquietata. Gli “alberi” (legno di tiglio, olmo, noce, pioppo, quercia, ulivo, corroso dal tempo, levigato, scavato, mosso da pieni e vuoti), iniziati nel 1996 e presentati nel 2006 a Frascati, nelle Scuderie Aldobrandini, come una stravaganza della scultura che si impone e sovrasta lo spazio circostante, nelle loro diverse articolazioni e deformazioni-cicatrici-nodi-nervature (La creatura, 1998, Il laocoonte, 2000, Feu FolletLa chimeraLe bizare, 2002, L’assente, 2004, Il giardino dell’amoreElogio della lussuria, 2005) sublimati o cancellati da rilievi geometrici che ne accentuano la leggerezza per liberarla da ogni retorica, trovano la possibilità di sottoporre l’impegno plastico di Perilli a un vero e proprio esame di comunicazione spostando gli strumenti di ricerca dall’intuizione delle tensioni alla percezione della memoria. Ancora un’esplorazione in profondità dei sentieri dell’immaginazione, una riduzione al minimo della tecnica, un hazard, lo sguardo puntato verso orizzonti insoliti. Per andare oltre ogni limite e rintracciare la strada di quella rabbia che, come diceva Pound, distrugge “il fumo e l’ombra di un mondo abbuiato”.

(2019)

 

L'autore

Giuseppe Appella
Giuseppe Appella
Giuseppe Appella è uno storico e critico d'arte.