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L’Inferno di Pasolini

La Divina Mimesis è l’ultimo libro pubblicato da Pier Paolo Pasolini prima della morte per omicidio nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1975. Lo scrittore ha rielaborato La Divina Mimesis per anni, dal 1963 all’inizio degli anni Settanta, poi ha deciso, vedremo perché, di lasciare tutto allo stato frammentario. Una finta nota dell’editore spiega che l’autore non ha potuto assistere alla pubblicazione, perché ucciso poco prima a bastonate su una spiaggia di Palermo. Andrà esattamente così. Pasolini morirà subito dopo aver licenziato le bozze, ucciso a bastonate nei pressi della spiaggia di Ostia. Non vedrà mai il volume in libreria. La Divina Mimesis, tutto considerato, non si può ritenere in alcun modo un libro postumo se non dal punto di vista strettamente cronologico. Piccola nota a margine, Pasolini probabilmente voleva anche alludere al convegno della neoavanguardia che si svolse a Palermo nel 1965. Era il secondo incontro del cosiddetto Gruppo 63 durante il quale si consumò una feroce polemica contro Pasolini e gli intellettuali impegnati.
La Divina Mimesis è una riscrittura della Divina Commedia. Sono stati completati solo due capitoli. La riscrittura di III, IV e VII canto è in stato di frammento. Volutamente, perché La Divina Mimesis ha anche il compito di illustrare le nuove idee di Pasolini riguardo alla scrittura in prosa. Al lettore bisogna fornire una sorta di edizione critica del testo, alle prime fasi, però, non il risultato finale ma il lavoro in fieri. Dunque è presente il testo, ma anche una lapidaria prefazione, le note al testo, i frammenti, una sezione di documenti e un apparato fotografico. Si procede per appunti, tutti datati ma non necessariamente disposti in ordine cronologico, potrebbero anche essere spostati o cancellati durante la composizione o la revisione del testo.
In un certo senso, Pasolini chiede al lettore di rapportarsi al testo come farebbe un regista giunto alla fase di montaggio: per Pasolini è il montaggio a dare un senso al girato, e questa idea lavora così a fondo da diventare una sentenza sulla vita. È il montaggio operato in morte a stabilire che uomini siamo stati o avremmo potuto essere. Il lavoro del filologo, per Pasolini, non è tanto diverso: anch’egli deve giungere a dare un significato alle carte, in fondo “montandole” secondo le sue capacità e secondo le sue (motivate) scelte.

 

Questa idea prende corpo con Teorema (1968). Il romanzo alla base dell’adattamento cinematografico è un insieme di frammenti, in prosa e in versi, con indicazioni di regia. Il film, inoltre, secondo il suo autore, seguiva un filo cronologico, ma non sarebbe da intendere per così dire, alla lettera. È solo uno dei montaggi possibili. Queste idee trovano pieno compimento solo in Petrolio, il complesso romanzo al quale Pasolini stava lavorando quando fu ucciso all’Idroscalo di Ostia.
Le note che seguono i frammenti hanno una funzione programmatica: nella prima, Pasolini affronta il tema della struttura dell’opera; nella seconda, affronta il problema della lingua dell’opera. Nella nota dell’editore (finta) racconta la genesi dell’opera e i titoli alternativi ai quali l’autore aveva pensato. Poi ci sono ancora tre brevissimi frammenti. Il libro include una sezione fotografica assai composita, si va dai funerali di Togliatti a un ritratto di Sandro Penna. Infine c’è un Piccolo allegato stravagante, estratto da una recensione malevola di Pasolini alla antologia di Gianfranco Contini, il suo maestro, a scanso di equivoci, dedicata alla Letteratura dell’Italia unita, 1861-1968. Nell’estratto, Pasolini rimprovera Contini di non aver capito la lezione sulla lingua di Gramsci, e di averne depotenziato le teorie.
Siamo qui per parlare di Dante in Pasolini, anzi di Pasolini che riscrive Dante. Però dobbiamo aggiungere un tassello fondamentale al punto che l’autore ce lo scaglia in faccia nelle prime righe de La Divina Mimesis. Alla radice dell’ultimo Pasolini, c’è tantissimo Giacomo Leopardi, cosa non molto sottolineata dalla critica. L’influenza del conte Giacomo è stata notata soprattutto nelle poesie 1943-1948 in lingua italiana, raccolte nell’Usignolo della Chiesa cattolica (uscirà solo nel 1958). Giustissimo. Là però era un punto di riferimento stilistico ed estetico. Nell’ultimo Pasolini, in modo più profondo, è un amaro punto di riferimento esistenziale.
Ecco l’incipit de La Divina Mimesis: «Intorno ai quarant’anni, mi accorsi di trovarmi in un momento molto oscuro della mia vita. Qualunque cosa facessi, nella Selva della realtà del 1963, anno in cui ero giunto, assurdamente impreparato a quell’esclusione dalla vita degli altri che è la ripetizione della propria, c’era un senso di oscurità. Non direi di nausea, o di angoscia: anzi, in quella oscurità, per dire il vero, c’era qualcosa di terribilmente luminoso: la luce della vecchia verità, se vogliamo, quella davanti a cui non c’è più niente da dire».
È un incipit terribile. Solitudine, aridità, vecchiaia, morte. Fine di ogni illusione. Non c’è più niente da dire. Il popolo vagheggiato da Pasolini non esiste più, è diventato piccolo borghese. La società contadina è stata spazzata via dal capitalismo globale. Il Potere non ha più volto, ci sono nuovi padroni, ma chi sono? L’omologazione completa, il conformismo totale, si fanno strada implacabili attraverso i media, in particolare la televisione. Moriremo di risate, l’intrattenimento al posto della cultura. Il consumismo sarà la nuova “ideologia”, simpatica e tollerante per finta, totalitaria nella realtà. Al nuovo mercato mondiale, occorrono consumatori fatti con lo stampino, uguali uno all’altro, intercambiabili: è una questione di efficienza, e l’efficienza è l’unica regola del capitalismo globale. Si legge nel Canto secondo de La Divina Mimesis: «Questo qui, così ben dotato, non sarà padrone di fabbriche o di catene di giornali, non possiederà feudi nel Sud, ma le sue ricchezze saranno spirito aziendale, capitale cartaceo, e patria plurinazionale». Aggiungiamo un passaggio logico devastante, che Pasolini non si cela: il fallimento del presente travolge anche il passato. Se è finita così, vuol dire che quel passato vagheggiato e rimpianto forse non è mai esistito o era inconsistente. Allora non resta davvero niente. Il futuro è orrore. Il presente è orrore. Il passato è orrore. Pasolini ha voluto illudersi con tutte le sue forze. Per farlo ha cercato appoggio, una struttura, un argine al caos, avrebbe detto lui, nel marxismo. Poi si è arreso e in un certo senso “Pasolini” è tornato a essere Pier Paolo.
Più dello Zibaldone, vengono in mente i versi del Passero solitario, di A se stesso o del Tramonto della luna:

Tu, solingo augellin, venuto a sera
del viver che daranno a te le stelle,
certo del tuo costume
non ti dorrai; ché di natura è frutto
ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
la detestata soglia
evitar non impetro,
quando muti questi occhi all’altrui core,
e lor fia vòto il mondo, e il dí futuro
del dí presente piú noioso e tetro,
che parrá di tal voglia?
che di quest’anni miei? che di me stesso?
Ahi! pentirommi, e spesso,
ma sconsolato, volgerommi indietro.

Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta ormai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanità del tutto.

(…) In fuga
van l’ombre e le sembianze
dei dilettosi inganni; e vengon meno
le lontane speranze,
ove s’appoggia la mortal natura.
Abbandonata, oscura
resta la vita. In lei porgendo il guardo,
cerca il confuso viatore invano
del cammin lungo che avanzar si sente
meta o ragione; e vede
ch’a sé l’umana sede,
esso a lei veramente è fatto estrano.

Troppo felice e lieta
nostra misera sorte
parve lassú, se il giovanile stato,
dove ogni ben di mille pene è frutto
durasse tutto della vita il corso.
Troppo mite decreto
quel che sentenzia ogni animale a morte,
s’anco mezza la via
lor non si desse in pria,
della terribil morte assai piú dura.
D’intelletti immortali
degno trovato, estremo
di tutti i mali, ritrovâr gli eterni
la vecchiezza, ove fosse
incolume il desio, la speme estinta,
secche le fonti del piacer, le pene
maggiori sempre, e non piú dato il bene.

E ora Dante. Premessa di carattere generale. Pasolini affronta ogni tema a partire da una riflessione sulla lingua. Da giovane, sceglie la lingua friulana in opposizione all’italiano retorico e burocratico del regime. Le denunce dello scrittore corsaro nascono dalla constatazione (secondo molti studiosi errata, ma questo non importa) che l’italiano della televisione, divenuto egemone, abbia perduto ogni profondità storica e ogni carica espressiva. Per questo la nota n. 2 de La Divina Mimesis dice: «La Divina Mimesis … si presenta miticamente come l’ultima opera scritta nell’italiano non nazionale, l’italiano che serba viventi e allineate in una reale contemporaneità tutte le stratificazioni diacroniche della sua storia. Nell’Inferno si parla dunque questo italiano, in tutte le sue combinazioni storiche: osmosi col latino (quello classico e quello medioevale), incroci dialetto-latino, koinè-latino, lingua letteraria-latino, tecnolingua-latino: poi, dialetto-koinè, lingua letteraria koinè, tecnolingua-koinè; poi ecc. ecc. – tutti gli incroci possibili, secondo le esigenze dei discorsi liberi indiretti dei vari personaggi, socialmente diversi».
L’intenzione era di scrivere, dopo i frammenti infernali, i frammenti paradisiaci: due sarebbero stati i Paradisi, capitalista e comunista, ed entrambi sarebbero stati caratterizzati dalla “supposta lingua nuova” con la sua «assoluta prevalenza della comunicatività sull’espressività». Si arresterà molto prima.
L’idea de La Divina Mimesis viene “divorata” da Petrolio, in cui troviamo davvero l’Inferno. Il Merda, simbolo dei giovani imborghesiti, attraversa con la sua fidanzata le periferie di Roma, le traverse dei viali sono gironi. L’idea nasce chiaramente ne La Divina Mimesis. Dantesco è anche Salò o le 120 giornate di Sodoma, l’ultimo film di Pasolini, che si presenta diviso per gironi, tra cui Il girone della Merda, in cui gli innocenti, i ragazzini rapiti al popolo, sono atrocemente torturati dai peccatori, i rappresentanti del potere in tutte le sue forme (politico, ecclesiastico, giuridico e militare).

Dantesco è La mortaccia, un progetto anteriore a La Divina Mimesis, abortito ma pubblicato in Alì dagli occhi azzurri. Pasolini immaginava il viaggio nell’aldilà di Teresa, una prostituta di borgata, un personaggio appartenente al mondo stilistico e ideologico dei romanzi romani Ragazzi di vita e Una vita violenta. Del resto il progetto si sviluppa a cavallo tra l’uno e l’altro e prende corpo nel 1959. Teresa si era fatta prestare da un cliente la riscrittura Disney, a fumetti, della Divina commedia, riscrittura che fu pubblicata con successo nel 1949-1950.

Per questo si rende conto di essere piombata all’Inferno. Virgilio è un agente di polizia che parla come Gioacchino Belli ed è marxista. Sulla porta dell’Inferno si legge “Carcere penitenziario”. L’idea, dal punto di vista stilistico, era di allargare il plurilinguismo sperimentato nei romanzi. Scrive Pasolini nel 1964, sulle pagine della rivista Vie nuove: «Ci sarà dunque la fusione tra la sua lingua – il romanesco della malavita – e la mia di relatore – l’italiano letterario. Ma poiché all’Inferno si incontreranno personaggi di tutti i generi – dai ministri democristiani a Stalin, dai ladri e dai magnaccia a Moravia, dai napoletani ai milanesi – è chiaro che nelle storie particolari di questi personaggi dovrò adottare diverse contaminazioni linguistiche». Queste idee non nascono dal nulla. Decisivo, come sempre nella carriera di Pasolini, è il magistero di Gianfranco Contini. Ma ci ritorneremo alla fine.
Entriamo ora nell’Inferno insieme a Pasolini, che ripercorre la strada di Dante. Pasolini, come è lecito aspettarsi, incontra tre animali: la lonza, il leone e la lupa. La lonza è l’incoerenza, il leone è l’egoismo, la lupa è la lussuria, una lussuria degradante e violenta. Per Dante, probabilmente, la lonza indica la frode; il leone è il corrispettivo della superbia e la lupa forse incarna l’avarizia o la cupidigia. Davanti alla lupa, Pasolini dispera di poter proseguire il cammino. Per fortuna incontra una guida: il se stesso degli anni Cinquanta, una copia sbiadita, ingiallita come un vecchio foglio di giornale. La guida si presenta, in una felice parodia delle parole di Virgilio in Dante: «fui poeta … cantai la divisione della coscienza, di chi è fuggito dalla sua città distrutta, e va verso una città che deve essere ancora costruita». Missione fallita. Ormai si è insinuato il dubbio che sia stato un sogno senza speranza. Per questo la guida è un Pasolini sbiadito. Senza dimenticare che Dante descrive Virgilio come “fioco”. È divertente notare una cosa messa ben in luce da Walter Siti. Il Pasolini-guida è anche Arthur Rimbaud, l’eroe di gioventù di Pasolini stesso. Fu ascoltando i suoi versi, letti da un supplente nell’ora di italiano, che Pasolini aprì gli occhi sulla cultura conformista imposta dal fascismo. La guida dice di aver amato Gramsci e Rimbaud, ma senza aver imparato nulla: è rimasto soltanto un piccolo poeta civile degli anni Cinquanta. Se guardiamo gli appunti e i frammenti del capitolo IV, troviamo una miriade di citazioni dirette o indirette di Rimbaud, sciolte nel testo, per così dire, spesso tratte da Una stagione all’inferno, com’è abbastanza ovvio.
Nel Canto secondo, Pasolini, come Dante, dichiara di non essere in grado di descrivere ciò che vede. E come Virgilio convince Dante, Pasolini-Rimbaud convince Pasolini. Il problema però non è morale come nella Commedia. È un problema di ordine stilistico. Pasolini-Rimbaud invita Pasolini a guardare tutto dall’alto (dello stile nobile) per poi abbassarsi all’osservazione da vicino (adattando quindi la lingua a quella dei dannati). Dice Pasolini a Pasolini-Rimbaud: «Tu sai cos’è la lingua colta; e sai cos’è quella volgare. Come potrei farne uso? Sono entrambe ormai un’unica lingua: la lingua dell’odio». Virgilio allora replica che invece di abbassare dovrà dilatare: ovvero introdurre asimmetrie, sproporzione, arbitrarietà. Pasolini si convince ma si vergogna, non vuole mostrare l’ingenuità del suo rinnovato fervore. Eppure è proprio il fervore che rende l’uomo degno del suo nome. I rimandi al testo dantesco sono limitati, anche se il tema è simile. Ma nel Canto secondo della Divina Commedia, Pasolini trova un verso fondamentale: «Andovvi poi lo Vas d’elezione». Il “vas electionis” è San Paolo negli Atti degli Apostoli IX 15. Nella seconda lettera ai Corinzi (XII 2-4) Paolo narrò di essere stato rapito in Paradiso («sive in corpore nescio sive extra corpus nescio, Deus scit») e di avere udito «arcana verba». San Paolo è “vas electionis” perché eletto di Dio e interprete della sua volontà. Al di là del fascino che San Paolo esercitò sempre su Pasolini, qui conta la parola Vas, che è il titolo primigenio di Petrolio. Il San Paolo di Pasolini predica nel deserto creato dal consumismo, a persone indifferenti al messaggio evangelico. È un provocatore, la sua parola è scandalosa. Leggendo Petrolio è davvero difficile capire come il titolo potesse essere rappresentativo dell’opera, e non a caso fu cassato. In realtà c’è una spiegazione. Pasolini ha probabilmente rovesciato la frase di Dante. Non Vas electionis ma Vas reductionis. Il protagonista del romanzo, Carlo, dovrà fare esperienza di un mondo sordido, dove la luce divina non può entrare. Lo vedremo tra poco.
Siamo al frammento del Canto terzo. Nella Commedia dantesca incontriamo gli Ignavi e Caronte. Le cose vanno un po’ diversamente ne La Divina Mimesis. Alle porte della Città infernale, una massa di anime insegue uno stendardo, lamentandosi. Pasolini chiede alla sua guida chi siano quelle persone. Risposta: sono i moralisti del dovere di essere come tutti, quelli che hanno eletto l’essere come tutti a ideologia. Ora si lamentano per non aver goduto della vita, per aver rinunciato a vivere. Sono l’equivalente moderno degli ignavi di Dante, «Sciaurati, che mai non fur vivi».

Inferno, III, 33-36:
Ed elli a me: Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ’nfamia e sanza lodo.

Pasolini osserva meglio: «Non mi fu difficile accorgermi che in realtà tutta quella gente, lungo le strade del loro mondo di impiegati, di professionisti, di operai, di parassiti politici, di piccoli intellettuali, in realtà correvano come matti dietro a una bandiera. Per le viuzze medioevali, o per le grandi strade burocratiche, liberty, o, infine, per i quartieri nuovi, residenziali o popolari, essi non si agitavano trascinati – come pareva – dall’orgasmo del traffico o dei loro doveri: ma correvano dietro a quella bandiera. Si trattava, in realtà, di uno straccio, che sbatteva e si arrotolava ottusamente al vento. Ma, come tutte le bandiere, aveva disegnato nel suo centro, scolorito, un simbolo. Osservai meglio, e non tardai ad accorgermi che quel simbolo non consisteva in nient’altro che in uno Stronzo». E qui nascono, insieme, il Sogno del Merda di Petrolio e Il girone della Merda di Salò o Le 120 giornate di Sodoma.
Ed eccoci ad Appunti e frammenti per il Canto quarto. Pasolini dichiara irrimediabile la sproporzione tra quello che dovrebbe dire e quello che è capace di dire. D’altronde non c’è bisogno di descrivere l’Inferno. Basta ricordare la prima metà del Novecento. Odiamo il conformismo degli altri perché è questo che ci trattiene dall’interessarci al nostro. Ognuno di noi odia nell’altro, come in un lager, il proprio destino. Non sopportiamo che gli altri abbiano una vita e delle abitudini sotto un altro cielo. Vorremmo sempre che un terremoto, un bombardamento, una rivoluzione rompesse le abitudini dei piccoli borghesi. Un desiderio tipicamente piccolo borghese: «Per questo è stato Hitler il nostro vero, assoluto eroe. Egli è stato il deputato dei Rimbaud di provincia, che hanno passeggiato sui selciati delle loro città con la stessa spavalderia con cui gli altri giovani piccolo borghesi … hanno accettato il conformismo dei padri». Ci sono i conformisti ma ci sono anche i conformisti dell’anticonformismo. Non c’è scampo. È questo l’Inferno. Siamo arrivati al momento della Commedia dove Dante, nel Limbo, incontra i non battezzati e, tra loro, i grandi poeti Omero, Orazio, Ovidio e Lucano. Pasolini vede un gruppo di poeti ma questo fatto innesca un ricordo. Siamo in una villa boema del Settecento, nel giardino circolano gruppetti di poeti cechi e slovacchi. C’è anche qualche italiano. I poeti dell’Est, riconosciuti come tali dai loro paesi, sono più dignitosi, ma una vergognosa (per loro) povertà li assimila ai piccoli borghesi. I poeti italiani sono invece piccolo borghesi fatti e finiti. Hanno trasformato la scrittura in un lavoro da impiegati, per campare. Poiché la piccola borghesia è volgare, i poeti sono volgari. Quelli comunisti, poi, ritenendo l’invito in quel giardino una promozione dal punto di vista mondano, sono squallidi fino a far stringere il cuore.
Finito il ricordo si torna al giardino infernale. Pasolini-Rimbaud prende la parola. Fare poesia è ancora possibile. Il grande poeta sfugge alle determinazioni economiche, è insieme ricco e povero. Come tutti è un consumatore ma produce un bene che non si può consumare perché non ha funzione nell’universo capitalistico.
Eccoci all’ultimo frammento, siamo al Canto settimo. Abbiamo dunque saltato il Canto V con Minosse e i lussuriosi con il celebre racconto di Francesca da Rimini e Paolo Malatesta. Saltato anche il Canto VI, con Cerbero e i golosi. Nel Canto VII dovremmo incontrare avari e prodighi, iracondi e accidiosi. In realtà le cose vanno un po’ diversamente ne La Divina Mimesis.
Pasolini si trova di fronte al cartello «OPERA INCREMENTO PENE INFERNALI, ZONA TROPPO CONTINENTI (O RIDUTTIVI)». Qui sono sorvegliati, da una polizia infernale femminile, quelli che sono stati conformisti per convenienza. Avrebbero potuto evitare il loro peccato, ma hanno deciso di non farlo. Si tratta soprattutto di uomini di cultura, abituati a stare zitti nei momenti di pericolo e ad alzare la voce quando non c’è nulla da perdere. Furono “vas di riduzione” e non d’elezione, dice Pasolini-Rimbaud. Questi dannati hanno odiato e calpestato tutto ciò che metteva a repentaglio la loro meschinità. Nella Commedia, il canto VII è occupato da avari e prodighi e poi da iracondi e accidiosi. I troppo continenti sono forse l’equivalente (o meglio l’accrescimento come recita il cartello all’ingresso) degli avari. Avari di cosa? Non di denaro. Avari nel mettersi in gioco.
Mentirei se dicessi che tutto torni. Pasolini lascia alcune contraddizioni parziali o complete, senza contare che la differenza tra un peccato e l’altro, a volte è poco più di una sfumatura. Ma ormai avrete capito, non è questo il punto.
Com’era fatto l’Inferno immaginato da Pasolini? Lo possiamo sapere grazie a Progetto di opere future, un componimento in versi incluso in Poesia a forma di rosa (1964). Accanto al peccato, Pasolini indica come lo avrebbe illustrato e quali personaggi avrebbe incontrato. Riassumo.
Nei “troppo continenti” sono inclusi:
– conformisti (descrizione del salotto Bellonci, premio Strega)
– volgari (ricevimento al Quirinale)
– cinici (un convegno di giornalisti del “Corriere della Sera” e affini)
– deboli, ambigui, paurosi (nel salotto di casa loro)
Negli “incontinenti” zona prima:
– eccesso di rigore (socialisti borghesi, piccoli benpensanti che si credono piccoli eroi)
– eccesso di rimorso (Soldati, Piovene)
– eccesso di servilità (masse infinite senza anagrafe, senza nome, senza sesso)
Negli “incontinenti” zona seconda:
– raziocinanti (Landolfi), gente che sta seduta sola nel suo cesso.
– irrazionali (l’intera avanguardia internazionale che va dagli Endoletterari – De Gaulle – alle vestali di Pound teutoniche o italiote)
– razionali (Moravia, rara avis, e le ali degli impegnati neo-gotici)
Manca completamente il contrappasso dantesco. Per Pasolini essere rinchiusi con i propri simili è una punizione infernale.
Nel dattiloscritto autografo, un brogliaccio con carte del tipo più disparato, troviamo alcuni passi, anche estesi, espunti da Pasolini nel momento in cui prepara la versione che andrà in stampa (il dattiloscritto finale si è salvato, è una trascrizione in pulito di alcune parti del brogliaccio, e si vedono nei margini le indicazioni per la tipografia del redattore Einaudi che seguì l’opera). Le carte preparatorie, dunque, sono più corpose della versione andata in stampa. Ci sono tre brani in particolare interessanti. Il Canto terzo faceva il verso a Dante, e si concludeva sulle bombe in Vietnam. Il Canto settimo era spietato e massacrava il salotto di Goffredo Bellonci, il salotto dunque del Premio Strega, assimilato con acido sarcasmo a una birreria di paese, però rispettabile. Ci rimettevano le penne anche amici di Pasolini stesso, come Aurelio Roncaglia, simpatico ma ridicolo tenente del Genio. Il terzo brano riguarda ancora il Canto settimo ed è una raffica di mitragliatrice contro Emilio Cecchi, descritto come un piccolo critico che tutto vuole ricondurre alla propria minuscola statura. Chiaro dunque il motivo per cui gli ultimi due brani sono stati cancellati: evitare grane. E il primo? Probabilmente Pasolini avrà trovato fuori luogo il paragone, che il testo esplicitava, tra le bombe in Vietnam e le bombe cadute su Casarsa nel 1943-1944.
Facciamo un passo a lato. Possiamo affermare che Dante sia una influenza di primo piano per Pasolini. Questa preferenza non si capisce senza tenere presente il contesto storico e culturale degli anni Cinquanta e Sessanta. Nel 1951 Contini pubblica il saggio Preliminari sulla lingua del Petrarca, dove contrappone il plurilinguismo di Dante al monolinguismo del Canzoniere. Dante, a differenza di Petrarca, sarebbe capace di utilizzare ogni registro linguistico accanto al volgare illustre. Può quindi rappresentare con realismo (linguistico) ogni strato della società, dal popolo alla eletta cerchia dei poeti laureati. Pasolini si appropria delle idee di Contini e le mette a confronto con quelle di Gramsci. Il politico sardo raccomanda di emancipare il popolo attraverso la cultura. L’intellettuale organico, che si cala nella vita del popolo, elabora una cultura (e una lingua) accessibile alla massa, mettendola in grado di sviluppare una coscienza di classe. Per certi versi, la visione di Gramsci fa a pugni con quella di Contini e perfino di Pasolini stesso. Gramsci in fondo immagina una “borghesizzazione” del popolo. Proprio quello che Pasolini intende evitare a tutti i costi. Il richiamo a Gramsci però non è meno importante. Pasolini si sofferma proprio sul “calarsi” nella vita del popolo, mettendo in gioco la propria. Più che organico, l’intellettuale di Pasolini è mimetico. Ecco perché Pasolini frequenta le borgate: è attratto in tutti i sensi dai giovani proletari. Culturalmente, linguisticamente e anche eroticamente. Adesso dovrebbe essere chiaro perché Pasolini ha voluto includere nel libro la nota solo all’apparenza stravagante su Contini e Gramsci. L’incontro tra Gramsci e Dante in Pasolini è tutto focalizzato sul modo di rappresentare gli esclusi, i proletari, i borgatari. Gramsci offre l’idea, Dante lo strumento, il plurilinguismo. In questo senso, Dante è il primo scrittore ad aver mostrato una coscienza “sociologica” e quindi una lingua capace di passare dal comico al tragico, dal basso all’alto. C’è un terzo nome da aggiungere. Per appropriarsi di Dante, Pasolini si appoggia al filologo Auerbach e alle sue opere Mimesis e Un’idea di Dante. Da Auerbach preleva due idee fondamentali: il realismo non può essere dogmatico e monolitico ma deve essere pronto ad adattarsi a ogni cambiamento; rappresentare la realtà comporta una mescolanza di stili e di linguaggi. Questa lezione è alla base del cinema pasoliniano. Ma anche della svolta che porta Pasolini ad abbandonare il romanzo tradizionale e a sostituirlo con quella magmatica materia di cui è composta La Divina Mimesis (Auerbach fin dal titolo!) e ancor più Petrolio. Ma la mescolanza di stili e linguaggi viene da lontano. Prendiamo Teorema: è un film, e un romanzo già composto da materiale diverso: note di regia, poesie, prosa. Già nel caso di Teorema, Pasolini sosteneva che l’ordine cronologico era solo uno dei possibili montaggi. Alla fine, all’altezza di Petrolio, Pasolini deciderà che sarà il lettore a dover effettuare il montaggio del materiale raccolto, inventato, scritto, documentato e fotografato dall’autore. La Divina Mimesis si colloca poi alla stessa altezza cronologica del saggio La volontà di Dante a essere poeta (1965) che sviluppa proprio il tema del plurilinguismo dantesco. Dante appunto unisce la visione dall’alto con quella dal basso, grazie alla doppia natura del suo poema, in cui un narratore colto comunica con anime di ogni livello sociale, adattando il registro linguistico.
Se questo fosse un libro, a questo punto dovremmo inserire un capitolo su come questa riflessione si collochi nel panorama culturale italiano, in particolare sarebbe interessante valutare il suo rapporto col neorealismo e con lo sperimentalismo delle avanguardie anni Sessanta. Non possiamo farlo. Ma possiamo notare una distanza siderale sia dal primo che dal secondo. Il neorealismo non è una scuola, dunque è una etichetta che appoggiamo su scrittori diversi. A tutti, Pasolini contesta di essere rimasti nella posizione tradizionale dello scrittore e di aver dato una pennellata di dialetto a una lingua che resta istituzionale, burocratica. Infatti le estreme propaggini di questo non movimento sono i romanzi di Cassola: la restaurazione del monolinguismo. In quanto alle avanguardie, giocano con le parole, anche i marxisti. Con le dovute eccezioni, Arbasino ad esempio, gli scrittori del Gruppo 63 proprio non gli interessano: li liquida con disprezzo nei suoi feroci epigrammi. Un posto a parte occupa Gadda, grande sperimentatore, padrone di ogni lingua, ma irrimediabilmente legato al mondo borghese. Il suo plurilinguismo non è funzionale alla caratterizzazione col popolo. È l’espressione della caotica realtà del mondo. Per Gadda, comunque, Pasolini aveva grande rispetto e per molti anni anche affetto, l’ingegnere era ospite fisso a tavola, nella casa romana, insieme con Attilio Bertolucci e Giorgio Caproni. La madre di Pasolini, Susanna, apparecchiava e cucinava per tutti. Poi, sempre nell’ipotetico libro, ci sarebbe il capitolo su come le teorie linguistiche di Pasolini si intrecciano alla questione dei dialetti: in breve, i poeti dialettali si rifanno a una tradizione illustre, e hanno a che vedere con ermetismo e simbolismo. Il popolo non c’entra.
E ora concludiamo con La Divina Mimesis. Pasolini la dà alle stampe “come documento”. Come documento di cosa? Come documento del proprio lavoro e piccolo manifesto del Pasolini futuro che sta accumulando migliaia di appunti per il suo nuovo romanzo, il più ambizioso, Petrolio. Come documento di un tipo di sperimentalismo linguistico che negli anni Sessanta pare ormai improponibile: per un verso, come abbiamo visto, l’italiano è mutato, diventando lingua dell’odio; per un altro, l’idea di scrittore militante è appannata e apertamente contestata da molti scrittori della cosiddetta avanguardia. Come documento, anche, di una crisi esistenziale intollerabile: l’aridità della vecchiaia, il sesso spogliato di ogni romanticismo e rivestito di sadomasochismo sempre più violento, la certezza di essere stato sconfitto dalla Storia, i dubbi radicali perfino sulla consistenza delle sue trasgressioni ideali.
La Divina Mimesis è davvero un libro tragico. Pasolini non risparmia nessuno. Soprattutto non risparmia se stesso. Questo libro è il suo Tramonto della luna, come Petrolio sarà la sua Ginestra, l’ultimo, inutile tentativo di resistere all’oscurità.

L'autore

Alessandro Gnocchi
Alessandro Gnocchi
Alessandro Gnocchi è nato a Cremona il 3 agosto 1971. Ha studiato a Pavia e Firenze. Tra le sue pubblicazioni, l’edizione critica delle Stanze di Pietro Bembo (Sef, 2003) e la curatela degli scritti di Guido Keller, Ala = Pensiero e Azione. Scritti di un rivoluzionario fiumano (Giubilei Regnani, 2019). È caporedattore (cultura e spettacoli) del “Giornale” dal 2009.

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