avvenimenti

Vanità delle vanità

alla compianta Elena Fasano Guarini,
e a tanti altri «poveri morti»

Sono in voga le autobiografie anche nel mio settore di ricerca e studi. Il parlare di sé, infatti, accomuna molti studiosi, che si identificano con il sant’Agostino delle Confessioni e, per certi versi, si ispirano alla lettura del bel libro di Andrea Battistini (Lo specchio di Dedalo, Bologna, il Mulino, 20073) che, sebbene sembri circoscritto al barocco, rivela, non solo nella premessa, ma in molti altri spazi, aperture che aiutano a manifestarsi pure nel presente, scavando nella genesi e studiandone le fenomenologie. E non è solo l’Italia a vantare un’ampia gamma di vite scritte da sé medesimi; il genere è altresì molto frequentato in Spagna e in Francia, per citare Paesi, sulla cui produzione editoriale riesco ad essere sufficientemente aggiornata.

Nel bel libro di Giuseppe Bellosi, fin dal titolo, sembrerebbe, ad una prima lettura, che l’autore non tratteggi il percorso narrativo della propria vita, ma che, per vanitas vanitatum, come è dichiarato nei preliminari della descrizione, finanche nella copertina, si avvalga di una delle chiavi di quelle imprese personali, prevalentemente seguite da gran parte degli accademici.
Se l’autobiografia è molto frequentata, anche nell’aspetto con cui è trattata da Bellosi, a prima vista, sembrerebbe non lo fosse l’autobibliografia, come potrebbe definirsi, in forma esplicita e palese, la struttura del libro di Bellosi. Sono molte le autobibliografie che, frutto non dichiarato, si ritrovano in calce a numerose Festschrift, e che si devono allo stesso festeggiato, per riferirmi alla vanitas evocata dal nostro autore e spesso implicita in tali pubblicazioni.
Quanto al lemma, autobibliografie, rimanendo in ambiti storico-letterari, non è comune rilevarne la presenza. Anche in rete c’è ben poco in materia: pochi record, fra cui spicca il volume di Carlo Battisti (1882-1977), studioso molto vicino a Bellosi per essere stato glottologo, bibliotecario, accademico italiano e celebre linguista. Vi è anche il caso, che mi è parso unico, di una ricercatrice i cui studi appartengono a discipline, come la bibliologia, proprie del gruppo accademico degli studi archivistici e bibliografici (M-STO/08). Mi riferisco al sito di Giuseppina Zappella, la quale, elencando i propri interventi a stampa, utilizza il sostantivo, Autobibliografia, sia come titolo della pubblicazione per lavori dell’arco cronologico 1976-1993 (Avellino, Pergola, 1994), sia online per laggiornamento del proprio repertorio a stampa.
Anche questo lemma non è stato recepito da Bellosi, il quale ha scelto il termine più usato e più neutro, Bibliografia, trovando il modo per approdare a pieno titolo nelle discipline del libro, rinsaldandole nella particolare metodologia scelta e applicata, in un campo dove, sempre più frequentemente, gli addetti ai lavori si affidano a modalità di elencazione differenti le une dalle altre, in gran parte dovute alla mancanza di un protocollo unico, che inviti a seguire criteri comuni.
Fra le elencazioni più tradizionali si colloca l’impianto scelto da Bellosi per il posizionamento dei suoi titoli: la disposizione dei record, nelle sue accurate descrizioni, si presenta infatti in stretto ordine cronologico, e con la disposizione alfabetica dei singoli item collocati per anno, sempre in una pagina nuova, aspetto che dà ariosità alla stampa e, nel contempo, facilita la lettura.
L’amore per il libro “bello” ha spinto l’autore che, insieme con l’editore, ha governato e portato a compimento il volume, ad applicare scelte innovative già nella veste editoriale che, pescando nell’antico, si presenta anomala rispetto ai libri di stampa contemporanea. Perché tutto l’enunciato verbale è racchiuso in una sorta di colophon, proprio del libro antico, espresso di frequente in forma triangolare o, meglio, trapezoidale, ed espressione a cui si ricorreva più in chiusura del testo ma pure in apertura. In Vanitas vanitatum gli elementi bibliografici propri di un colophon, uniti a quelli del frontespizio, accampano già nella copertina, che contempla, oltre al titolo in corsivo, il nome dell’autore anche nella sua variante romagnola e termina con quel sibi et amicis, richiamo a una espressione cara a possessori illuminati di un lontano passato.
Un’altra particolarità della copertina sta nel retro, o meglio nella quarta, che è speculare in ogni lettera stampata, alla posizione degli elementi bibliografici della copertina anteriore, a cui  corrisponde medesimo carattere, utilizzando gli elementi della descrizione, racchiusi nella gabbia di stampa ma nel loro contrario.
Fin qui sono stati segnalati gli aspetti più collaudati del passato, a cui Bellosi è ricorso e che, rispetto alla produzione attuale, in linea di massima e fatte le debite eccezioni, presentano i loro libri in modo molto meno inventivo, pur ricorrendo a elementi elaborati sui modelli dei libri antichi. Bellosi, inoltre, evita gli ultimi passaggi propri della filiera del libro: la distribuzione, che comporta che la pubblicazione sia posta in vendita. Il libro è infatti destinato solo agli amici, come suona anche l’espressione della tiratura, «222 copie non venali». Inoltre, il libro di Bellosi aspira a essere compulsato da intenditori, che, oltre al gradimento per la veste estetica e per la possibilità di meglio conoscere l’autore, rileveranno che l’eleganza si fonde con l’utilità del libro, che aspira ad essere una sorta di repertorio, tenuto in considerazione dai lettori, o meglio dai consultatori, che non esiteranno a collocarlo nel palchetto insieme con i “rari”, dove lo destineranno anche i bibliofili più “affamati”.
Dire dell’autore è quasi inutile: la conoscenza dei suoi lavori travalica le Alpi, non solo nella   specializzazione della dialettologia, sempre improntata a rigore filologico, ma pure per la vasta cultura che trapela da ogni suo scritto. Posso solo aggiungere che Bellosi era già stimato quand’era molto giovane, ovvero a metà degli anni ’70 (è nato nel 1954),  all’epoca in cui dirigevo a Faenza la Biblioteca Comunale, ora Manfrediana, A lui ci si riferiva per consigli, così come per ‘traduzioni’ dall’italiano al romagnolo, dialetto diverso da città a città, anche fra le più limitrofe, Faenza e Forlì, ad esempio, distanti meno di venti chilometri l’una dall’altra. Bellosi era infatti già conosciuto come etnologo e glottologo di rilevante respiro.
Nonostante fosse chiamato all’epoca in varie occasioni culturali, Bellosi è stato sempre un ligio direttore di biblioteca, sempre di quella di Fusignano, senza mai approfittare della notorietà che già aleggiava su di lui. E attento a non sgarrare in nessun modo lo è stato fino alla giubilazione nel 2018, rinunciando anche a inviti prestigiosi, per non assentarsi dalla biblioteca.
Nella Bibliografia dove elenca i suoi titoli scientifici, e che è anche la sua autobiografia, l’autore ci conduce per mano tratteggiando, cronologicamente, i propri percorsi, quei «sentieri dei nidi di ragno», che, come nella premessa di Calvino al suo primo romanzo, è consapevolezza di ordire  «pezzetti di storia». È infatti nel tessuto narrativo delle pagine di apertura, che Bellosi intreccia gli anni dei suoi studi con la produzione dei propri scritti, le cariche prestigiose rivestite e gli altrettanto prestigiosi premi conseguiti.
Cinque le sezioni per le descrizioni elencate: in apertura quella di un indice dei periodici nei quali l’autore ha collocato suoi studi; seguono 416 registrazioni bibliografiche, suddivise fra la prima, che  comprende le opere in versi, seguita dalle monografie e dai saggi, descritti con anche note personali, collocati sempre in una pagina nuova per ciascun anno. Tre sezioni, dedicate alle tipologie altre rispetto alle pagine a stampa, sono per i suoi E-book, e per studi in forma sia analogica sia digitale.
Le registrazioni così trovano una loro forza, per la gamma e la qualità dei titoli di Bellosi, tutti da segnalare e non solo per gli amanti del dialetto romagnolo, bensì per tutti coloro che sanno, senza abusarne, custodire ciò che eravamo, un bene da conoscere.
Tutte le bibliografie si possono ‘leggere’ e trarre molte indicazioni anche per i contenuti dei titoli elencati. Preme segnalare che fra le poesie di Bellosi, le prime a figurare nelle registrazioni sono soprattutto quelle tradotte da Loris Rambelli, uno squisito intellettuale versato in molte specialità, oltre ad essere stato ottimo docente con breve passaggio anche per l’Università di Bologna.
Rambelli si è interessato infatti di letteratura per l’infanzia, si è prodigato nel genere del giallo, divenendo esperto di fama, pur sempre dedito all’amatissima poesia, non solo romagnola, come traluce pure dalle sue traduzioni di Bellosi. Questo unico accostamento di Rambelli con l’autore della Bibliografia è perché entrambi si sono prodigati pure nel libro d’artista. Piace ricordare il Requiem di Bellosi con xilografie di Umberto Giovannini, tirato in soli 51 esemplari, e alcune plaquette contenenti haiku sempre di Bellosi, ma con la cura editoriale di Rambelli.
È infatti anch’egli figlio di quella Romagna che in tutti i secoli ha saputo dare il meglio in tante specialità o “professioni”, come un suo augusto figlio, Tommaso Garzoni (1549-1589), ha lasciato nella sua Piazza universale, opera fortunatissima, come già si evince nella monografia, a cura di Italo Michele Battafarano e Antonio Castronuovo (2009).  Basti pensare alla Romagna che accolse il sommo poeta Dante Alighieri, che, oltre a cantarla, vi morì settecento anni fa, a Ravenna, e di cui fra pochi giorni si chiudono le onoranze per l’importantissimo genetliaco.

 

 

L'autore

Maria Gioia Tavoni
Maria Gioia Tavoni
M. G. Tavoni, già professore ordinario di Bibliografia e Storia del libro, è studiosa con molti titoli al suo attivo. Oltre a studi che hanno privilegiato il Settecento ha intrapreso nuove ricerche su incunaboli e loro paratesto per poi approdare al Novecento, di cui analizza in particolare il libro d’artista nella sua dimensione storico-critica. Diverse sono le sue monografie e oltre 300 i suoi scritti come si evince dal suo sito www.mariagioiatavoni.it