In primo piano · Interventi

Novecento trilingue. A proposito della raccolta “Cumae” di Michele Sovente

Il progetto di una nuova edizione della raccolta di Michele Sovente, Cumae (1998), approntata da chi scrive durante il dottorato di ricerca e pubblicata da Quodlibet sul finire del 2019, nasce con l’intento di riportare all’attenzione del “pubblico della poesia” (ammesso che questa strana entità esista) un’opera di grande rilievo per la letteratura italiana del tardo Novecento e, quasi di conseguenza, per quella dell’inizio di questo nostro XXI secolo. Cumae è infatti opera che ha ricevuto riconoscimenti già nell’anno di pubblicazione, vincendo il Premio Viareggio-Rèpaci, e nei lustri successivi si è meritata l’attenzione della più avvertita critica letteraria, che ne ha riproposto i testi in antologie di poesia contemporanea – penso a quelle più canonizzanti come Dopo la lirica di Enrico Testa e la collettanea Parola plurale, ma anche all’Antologia allestita da Guido Vitiello per il napoletano Pironti.

Un libro che ha dunque avuto, pur nel profluvio di raccolte di poesia di questi ultimi decenni, un suo peso; ciò anche in virtù della miscela linguistica che lo conforma, e che lo rende il primo capitolo “ufficiale” del trilinguismo di Sovente – ad attestarne una volta di più, se servisse, la sua importanza nel percorso intellettuale del poeta flegreo. Il tratto più vistoso e immediatamente intrigante della scrittura soventiana è infatti la compresenza, nelle raccolte della maturità, di tre diverse lingue: l’italiano della vita civile e lavorativa, il dialetto del quotidiano e del familiare, e il latino della giovanile formazione religiosa. Prima di Cumae Sovente aveva scritto poesie in dialetto comparse su riviste, e nel 1990 aveva pubblicato con Garzanti uno straordinario poemetto, intitolato Per specula aenigmatis, in italiano e latino; con il libro del ’98 le lingue maiores della sua produzione trovano una definita geometria, che continuerà a evolversi ma che confermerà in questa triade le tonalità espressive più adoperate.

Ma come proporre, oggi, un libro che si presenta tanto complesso anche soltanto a un livello linguistico? L’idea è stata quella di affiancare alle poesie di Cumae una serie di strumenti critici utili a comprendere le operazioni linguistiche, formali e poetiche dell’autore. Dopo un’introduzione generale, nella quale si indagano gli anni in cui viene pensato il libro, la sua struttura, le lingue e le forme metriche in cui è scritto, e una nota al testo dedicata alla ricostruzione della sua lunga storia elaborativa, i testi sono corredati da commenti destinati a illustrare i procedimenti poetici di Sovente. Non mi sono allontanato troppo dal diffuso modello di commento “tripartito”, cioè formato da un cappello introduttivo, una nota metrica e annotazioni ai singoli versi; al cuore dell’iniziativa esegetica stanno le spiegazioni dei passaggi testuali più complessi e il confronto tra le scelte espressive proprie di ogni lingua – lì dove Sovente, convinto che ogni lingua sia dotata di una sua autonomia, compone testi tematicamente affini ma in cui ogni idioma esige specifiche immagini e sonorità.

Un esempio potrebbe meglio illustrare come si siano interrogati i componimenti. Si prenda il primo trittico della sesta sezione di Cumae. La sequenza comincia con Neque nobis prodest:

Me tenebrae tenent tenaciter,
sitis est mihi taberna
famesque unum meum caelum,
fremunt folia, stridet
sub lucem cupido-telum,
per tabulas pulvis decurrit
hiemalis – hoc est ludibrium
vitae nec potest vitari –,
vertebrae meae limum
Averni mordent, tui non est
mihi amor ultima salus,
utinam nomina nostra pondus
nuda destrueret – hoc est
fastigium mortis neque
nobis prodest –, num nova
sidera omnes dolos delent?

Segue Né ci giova:

Tenaci m’inghiottono tenebre,
la sete è la mia taverna
e la fame è la mia lucerna,
fremono foglie, sibila
la freccia del desiderio al crepuscolo,
sulle tavole scorre la polvere
d’inverno –, è questo lo scherno
della vita né si può vincere –,
le mie vertebre mordono
la melma dell’Averno, l’ultima
salvezza mia non è il tuo amore,
oh, se il mare i nostri ignudi
nomi sbriciolasse! – è questo
il culmine della morte né
ci giova –, forse le novelle
stelle estingueranno ogni dolo?

Infine, il primo testo in cappellese di Cumae, Nun ce abbasta:

Me fótte ’a notte, me gnótte,
’a sete me guverna, ’a famma
me tène comme a na mamma,
sbàtteno ’i ffoglie attuorno, quanno
stò p’ascì ’u sole sghìzzano ’i vvoglie,
’ncopp’ ’i ttàvule ’i ponte se scapìzza
vierno c’ ’a póvere attizza – stò ccò
’u scuorno r’ ’a vita ma niente ce può fò –,
ll’ossa meje se ’mpórpano r’ ’a lutàmma
’i ll’imberno, tu nun sì pe’ me
ll’ùrdemo scuoglio, ammagare putesse
’u mare squagliò ’i nomme nuoste
annure – è chisto ’u meglio cadó
ca ce fò ’a morte ma nun ce abbasta –,
’i stelle mò mò accumparute forze
ponno stutò sti ’mbruoglie?

Tre testi di 16 versi, che intrattengono legami figurali con la coppia formata da In specu e Al buio della sezione precedente – un dato macrotestuale sul quale il commentatore deve soffermarsi per restituire la compattezza del percorso tracciato dall’autore – approfondendone gli elementi ctonî attraverso l’immissione del dettato aspro della terza lingua soventiana; tre testi, ancora, che ben mostrano come l’affinità tematica possa tradursi in realizzazioni molto diverse. Sin dall’attacco si possono notare divergenze tra le «tenebrae» che «tenent tenaciter», trattengono il soggetto, il vorace gesto dell’inghiottire e la versione ancora più brutale del cappellese, in cui «’a notte» (col che l’oscurità viene a coincidere con un preciso momento della giornata, quello deputato al sogno-incubo e al pericolo) «fótte» oltre che «gnótte», riprendendo dunque l’azione che connota la versione italiana ma aggregandovi una violazione della dimensione corporale. Ulteriori discrasie si notano nei versi immediatamente successivi, accomunati però da un ipotesto comune come la Franciscae meae laudes di Charles Baudelaire, della quale tornano, scorporati e ripensati in tre diverse direzioni, i vv. 22-24: «In fame mea taberna, / In nocte mea lucerna, / Recte me semper guberna». Può anche accadere che vi siano punti comuni a soli due testi, implicanti disaccordi con uno solo dei componenti del trittico: se al v. 4 di Neque nobis prodest e Né ci giova si avverte il fremito delle foglie, Nun ce abbasta sonorizza con maggior veemenza questa immagine, visto che «sbàtteno […] attuorno». Come ultimo esempio del triangolo linguistico su cui è architettata questa sequenza, si prenda quanto si legge nei secondi incisi, con il «culmine della morte» del testo italiano in posizione isolata rispetto alla natura ambivalente del latino «fastigium», che è a un tempo “estremità” e “dignità”, e di quella ironica, addirittura spietata dell’“omaggio” di «’u meglio cadó / ca ce fò ’a morte»; quasi che le lingue del passato e della terra riconoscano il valore paradossalmente benefico della distruzione dei nomi degli amanti.

Non credo sia necessario avvertire che quella leggibile nella nuova edizione di Cumae è una proposta di commento tra tante, sicuramente migliorabile e alla quale si possono contrapporre impostazioni differenti. La strategia adottata mi è sembrata la più utile per tutelare quell’autonomia testuale così cara all’autore, che non ha mai considerato i suoi testi “traduzioni”, ma manifestazioni diverse di uno stesso contenuto. La speranza, come si legge nelle ultime pagine dell’introduzione, è che l’edizione Quodlibet di Cumae possa favorire una riscoperta, direi anzi ormai un vero e proprio rilancio, della poesia di Sovente. E mi pare di poter dire che il dissodamento comincia a dare i suoi frutti, se il recentissimo ritrovamento a opera di Michele Longoni di una precoce versione di Cumae tra le carte di Antonio Porta (al quale il Flegreo aveva scritto per chiedere un parere di lettura; cfr. M. Longoni, ‘Cumae’ di Michele Sovente: un nuovo testimone e la corrispondenza con Antonio Porta, «Prassi Ecdotiche della Modernità Letteraria», VI, 2021, online) contribuisce a precisare la complessa e stratificata storia di questo testo, di cui il sottoscritto ha stilato un primo profilo destinato, com’è evidente, ad ampliarsi. Ma molto resta da scrivere a proposito di questo poeta grande, di dimensione meridionale, italiana e sovranazionale a un tempo, con la speranza che possano fiorire studi sulla sua opera, ancora in gran parte da valorizzare.

giuseppeandrea.liberti@unina.it

 

 

L'autore

Giuseppe Andrea Liberti
Giuseppe Andrea Liberti è assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Filologia presso il medesimo ateneo e ha frequentato la Scuola di Alta Formazione “A. Varvaro” in Storia e filologia del manoscritto e del libro antico presso la Biblioteca dei Girolamini. Ha pubblicato un’edizione critica e commentata della raccolta Cumae di Michele Sovente (Quodlibet, 2019) e allestito la bibliografia poetica di Elio Pagliarani, consultabile nell’edizione di Tutte le poesie (a cura di Andrea Cortellessa, Il Saggiatore, 2019). Ha curato, con Salvatore Iacolare, il volume Letteratura dialettale a Napoli. Testi, problemi, prospettive (Cesati, 2020). I suoi interessi di ricerca comprendono la filologia d’autore, la letteratura del Settecento e del Novecento e la pratica del commento al testo poetico contemporaneo.