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Ulisse cento anni dopo

James Joyce volle che Ulysses uscisse nel giorno del suo quarantesimo compleanno, il 2 febbraio del 1922. Era attento ai numeri, Joyce. Questo libro, ad esempio, segue una logica ternaria sulla scia di Dante, suo principale mentore, ma anche come allusione profana, simil blasfema, al dogma della Trinità su cui il suo giovane protagonista, Stephen Dedalus, nutre più di un dubbio. L’opera precedente che ne segue la formazione, Un ritratto dell’artista da giovane (1916) aveva cinque capitoli, sul modello del Pentateuco. Quella successiva, il Finnegans Wake incorpora cifre segrete che gli studiosi non sono ancora riusciti del tutto a decrittare. C’è da credere, dunque, che voler vedere il suo libro della vita pubblicato in una data che potremmo anche scrivere 2.2.22, non sia soltanto frutto di un animo superstizioso, ma riveli qualcosa d’altro. Dualità consustanziali? Forse.

Oggi, a cento anni da quella pubblicazione avvenuta a Parigi per opera di una donna straordinaria, Sylvia Beach, quelle quattro cifre si ripropongono, 2.2.22, e c’è da chiedersi cosa sia cambiato nel frattempo. Questi cento anni di ulissitudine non ci hanno consegnato la morte del romanzo, come qualcuno profetizzava, né hanno segnato un cambio di passo nella narrativa, che sostanzialmente, come argomentava BS Johnson, dopo Joyce ha preferito tornare a paradigmi dickensiani, di realismo consolatorio. Che Johnson avesse almeno in parte ragione ce lo testimoniano i tanti romanzi sugli scaffali delle librerie che non danno sempre l’idea di una letteratura-arte, come la voleva Joyce: libera, slegata dai legacci del mercato, solitaria, eretica.

Il libro di Joyce, quindi, che alla sua pubblicazione fu paragonato a una scoperta scientifica, non ha cambiato né il mondo né la repubblica delle lettere, e c’è da chiedersi perché. I detrattori, tanti, diranno che ha sperimentato troppo, che ha giocato in maniera equilibristica con equilibri precari, distruggendo anziché costruire. Gli iniziati lo difenderanno a spada tratta per sempre, considerando tutto il resto, esangue, mercenario.

Una visione mediana può essere di aiuto. Ricordo sempre il mio professore Declan Kiberd dire che negli anni, la critica specialistica, che di certo ha giocato un ruolo essenziale nella comprensione di Joyce, ma rendendolo inavvicinabile dal grande pubblico come lui avrebbe voluto, si è concentrata più su come Joyce scrivesse e meno su cosa stesse dicendo. Di qui l’adorazione, la museificazione, e anche l’oblio in cui è caduta la sua grande, enorme carica politica. L’altra cosa che diceva Kiberd, in accordo col suo, di professore, Richard Ellmann, era che Ulysses fosse la risposta a una domanda non del tutto formulata. Una risposta sospinta dal vento, che arriverà quando sarà chiara la domanda posta. E infatti, Ellmann aveva avvertito i suoi lettori, all’inizio della monumentale biografia di James Joyce, che dobbiamo ancora imparare a divenire suoi contemporanei.

Ma divenirlo significa al contempo essere contemporanei del passato e del futuro, in un continuum spazio temporale einsteiniano scaturito da quella mente medievale che egli possedeva, come amava ricordare Eco, per arrivare alle visioni futurologiche, blakeane, che proprio da Ulysses si dipartono per poi investire l’universo infinito, bruniano, del Wake, un libro in cui, come è stato detto, ognuno è qualcun altro.

Ma ognuno era qualcun altro anche in Ulysses. Lo spiega bene Stephen stesso nel nono episodio, allorché ricorda di dovere una sterlina al poeta A.E., e poi, ripensandoci, si rende conto di averla presa in prestito alcuni mesi prima, quindi sostanzialmente è stato un altro, un’altra emanazione del sé, non lui, a farsela prestare: “Five months. Molecules all change. I am other I now. Other I got pound”.

Gli anniversari della prima pubblicazione di grandi opere danno spesso adito al risorgere di interesse nei loro confronti, e non soltanto tra gli specialisti. Speriamo sia questo anche il caso di Ulysses, uno dei libri che forse avrebbe dovuto cambiare il mondo più di quanto non l’abbia cambiato, ma che di certo ha cambiato il nostro modo di pensare alla letteratura. Sì, perché per Joyce il mondo della letteratura, a cui non si fregiava di appartenere – e qui ha ragione Gabriele Frasca nel dire che ne fuoriesce – era stato in passato un continuo irretire, un tentare vie consolatorie, lenitive, un adeguarsi alle situazioni. E invece, la scrittura deve essere rivoluzionaria, ribaltare le convenzioni linguistiche, culturali, filosofiche.

In Ulysses, opera mondo, com’è stato detto, ma anche opera universo, direi io – lo sarà ancor di più il successivo Finnegans Wake – viene messo alla prova, e confutato, persino il principio di non contraddizione. Nel libro abbiamo tutto e il suo contrario, wildianamente, ma anche alla maniera di Bruno, altro grande mentore di Joyce. E l’abbiamo per accettazione, per accoglimento e per integrazione dei necessari contrasti che animano il vivere.

Celebrare l’anniversario di un libro è importante ma anche rischioso. Il rischio maggiore è quello di eternare un’opera, cosa che con Joyce è avvenuta per generazioni, ma che né lui né i suoi libri meritavano. Joyce scriveva per cambiare i nostri immaginari mondi (worlds) con le sue parole (words). Parole che, però, da sue divengono nostre: perché Ulysses, come ricordava Burgess, è un libro che ci riguarda tutti; e Joyce, come riteneva Borges, è un autore che ci salva. Non ci salva per consolarci, per redimerci o per accogliere la nostra confessione. Ci salva perché ci fa comprendere che siamo esseri mutevoli, e che il cambiamento è nella nostra natura.

Ulysses ci insegna che l’identità – nazionale soprattutto, ma anche culturale o connotata da qualunque altro aggettivo che anziché spiegarla finisce per complicarla – è una parola ambigua, perché non parla di esseri identici, di pulsioni identiche. L’opera di Joyce ci consegna la lezione che noi siamo gli altri, e siamo anche chi ancora non sappiamo di essere.

enrico.terrinoni@unistrapg.it

 

 

L'autore

Enrico Terrinoni
Enrico Terrinoni

Enrico Terrinoni, nato a Gorizia il 15 settembre del 1976, è Professore Ordinario di Letteratura inglese all’Università per Stranieri di Perugia, e insegna Traduzione editoriale all’Università IULM. Ha un PhD in English / Anglo-Irish Literature and Drama presso l’alma mater di Joyce, University College Dublin, dove ha studiato con Declan Kiberd. È stato Visiting Fellow e Research Fellow in molte istituzioni internazionali tra cui University of Notre Dame, Indiana University, Maynooth University, Marsh’s Library, University College Dublin. È autore di molti volumi tra cui Occult Joyce: The Hidden in Ulysses (2007), James Joyce e la fine del romanzo (2015), Oltre abita il silenzio. Tradurre la letteratura (2019), Chi ha paura dei classici? (2020), Su tutti i vivi e i morti: Joyce a Roma (pubblicazione nel 2022). La sua prima traduzione dell’Ulisse ha vinto il Premio Napoli per la Lingua e la Cultura Italiana nel 2012. Sempre di Joyce ha curato Lettere e saggi (2019), e co-tradotto e co-curato con Fabio Pedone i libri III e IV del Finnegans Wake (2017-1019) vincendo il Premio Annibal Caro nel 2017. Alla traduzione annotata de L’antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters è stato assegnato il Premio Von Rezzori / Città di Firenze nel 2019. Ha tradotto scritti e opere di Bobby Sands, Brendan Behan, James Stephens, Francis Bacon, Nathaniel Hawthorne, Oscar Wilde, Muriel Spark, Michael D. Higgins, Alasdair Gray, George Orwell, Leo Benedictus, Umberto Eco, Gabriele Frasca e Simon Armitage. Per il centenario di Ulysses sta curando, con Declan Kiberd e Catherine Wilsdon, il volume Ulysses: The Book about Everything. Ha co-curato volumi di Joyce Studies in ItalyThe Internationalist Review of Irish Culture Costellazioni. Scrive regolarmente su Il manifesto, Left, e Il tascabile e suoi contributi sono apparsi su diversi quotidiani, blog e riviste nazionali e internazionali. È attualmente presidente della James Joyce Italian Foundation.


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