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Il medico di campagna: Kafka e Bulgakov

Comunque sia la medicina è una scienza incerta, questo va detto.
Michail Bulgakov, Morfina, 1927 

Si potrebbe andare, senza distinzione, «Dai medici-scrittori agli scrittori che parlano di medicina» (cito lo storico della lingua italiana, Luca Serianni, che nel 2005 ha dedicato un libro al lessico medico nella letteratura italiana, Un treno di sintomi. I medici e le parole) oppure, come ho pensato di fare io, distinguere per suddividere il campo d’indagine in due insiemi, come li intende Claudio Guillen in L’uno e il molteplice. Introduzione alla letteratura comparata, trad. it. il Mulino, 1992.

Il primo dei nostri insiemi è fatto di personaggi medici frutto della penna di scrittori-intellettuali:

Honoré de Balzac, Il medico di campagna (1833)
Luigi Pirandello, Il dovere del medico (1902)

Franz Kafka, Un medico di campagna (1919)

Stephen Zweig, Amok (1922)

Thomas Mann, La montagna incantata (1924)

Il secondo insieme è invece composto di personaggi medici creati da medici-scrittori

Anton Cechov, Reparto n.6 (1893)

Louis-Ferdinand Céline, Semmelweis (1924)

Michail Bulgakov, I racconti di un giovane medico (1925)

Axel Munthe, La storia di San Michele (1929)

Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli (1945)

Una volta stabilita questa distinzione “genetica”, di cui ho parlato nei miei precedenti studi su  Carlo Levi e Axel Munthe, intellettuali corretti dalla scienza, si possono mischiare gli insiemi in base alle affinità tematiche. Dopo aver affrontato la rappresentazione della malattia psichiatrica nella letteratura in Il folle dettaglio e la società sistema. Nell’Ottocento russo di Cechov e nella narrativa italiana post-Basaglia, mi sposto ora su un terzo capitolo tematico: il medico di campagna in Kafka, Bulgakov e con un breve antefatto su Balzac. Come nei romanzi a tematica psichiatrica, il narratore, prossimo o coincidente con il personaggio medico, è anche molto vicino al personaggio paziente, al punto da poter passare da un ruolo all’altro. La fluidità dei ruoli è particolarmente sorprendente nell’ottocentesco Cechov. Medici di campagna sono i protagonisti di Kafka, nel racconto intitolato Il medico di campagna del 1919 che dà il titolo alla raccolta di cui fa parte, e di Bulgakov, in una raccolta intitolata I racconti di un giovane medico del 1925. Come vedremo, al di là del particolare ruolo di medico e della prossimità temporale, i due testi hanno molti elementi comuni.

ANTEFATTO

Honoré de Balzac, Un medico di campagna, 1833

Un vecchio militare va in un villaggio e si insedia in casa del medico che, diventato sindaco, si è prodigato per il progresso delle condizioni socio-economiche e dello stile di vita dei suoi abitanti. Il comandante confessa al medico di volergli affidare il figlio malato. Il medico a sua volta confessa al comandante di aver fatto tutto quello che ha fatto per espiare una colpa, non aver capito e poi salvato una giovane donna, il suo primo amore. Nel penultimo capitolo, intitolato appunto La confessione del medico di campagna, (anche in Amok di Zweig il racconto a cornice prende la forma di una confessione) in discorso diretto, Benassis spiega a Genestas che la delusione amorosa lo ha talmente distaccato dalla vita e dal suo piacere da renderlo atto alla vita di campagna e a fare il medico. «Ho molto sofferto, soffro tutti i giorni, ma ho visto nelle mie sofferenze la condizione di un felice avvenire». (Quello della sofferenza del medico sarà un leit-motiv nel corpus sopraindicato). La clausura in monastero sarebbe stata una forma di egoismo sublime e insieme un lungo suicidio: ha deciso di fare il medico e rendersi utile per la comunità. La scelta della professione medica per questo personaggio ha una motivazione etica ed è, seppur esplicitamente distinta, molto vicina per motivazione (espiare, aiutare il prossimo) a quella del Curato di campagna. Balzac differenzia e mescola il mandato del medico con la chiamata divina: «Il dito di Dio mi parve aver fortemente tracciato il mio destino, quando mi accorsi che il mio primo pensiero serio della giovinezza mi aveva fatto inclinare verso lo stato di medico e mi sono deciso a praticarlo qui [..] L’abitudine a vivere con dei contadini, il mio allontanarmi dal mondo, mi hanno realmente trasformato». Balzac illustra le radici della missione del medico, che nel Novecento si sposteranno definitivamente dal piano religioso a quello etico – anche se, come vedremo, per i pazienti delle comunità contadine a diverse latitudini i due piani resteranno confusi.

PARTE I

Franz Kafka, Il medico di campagna, 1919

La raccolta esce nel 1919 ma il racconto omonimo, tradotto anche come Medico condotto, è stato pubblicato prima cioè nel 1916-1917; teniamo presente che La metamorfosi, scritto nel 1912, viene pubblicato per la prima volta nel 1915 dall’editore Kurt Wolff a Lipsia, prima su rivista e poi come volume a sé stante. Il racconto inizia in medias res, con il narratore in prima persona e al tempo imperfetto. I personaggi sono: il medico, narratore in prima persona e protagonista, la serva Rosa, lo stalliere violento, il giovane malato e la sua famiglia composta dalla sorella, la madre e il padre (gruppo familiare ridotto all’essenziale come nei testi narrativi del coevo Federigo Tozzi). Al lettore viene comunicato un senso di fretta, pericolo, mancanza di tempo, condizioni avverse:

«grande difficoltà»

«viaggio urgente»

«malato grave»

«violenta bufera».

Gli aggettivi «grave», «violenta», così come «urgente» concorrono all’atmosfera, tipicamente kafkiana, di situazione che precipita: «un malato grave mi attendeva in un paese distante dieci miglia; una violenta bufera di neve riempiva il vasto spazio tra me e lui». L’urgenza della chiamata durante la bufera (notturna) e la morte del cavallo da traino, la notte precedente, spingono alla ricerca di un cavallo da parte della serva del protagonista, che lo trova, ma lo stalliere straniero è violento, morde Rosa, e minaccioso, chiede che resti con lui mentre il medico va dal malato.

Il carro viene strappato via come legna nella corrente; ancora sento la porta di casa mia spaccarsi e andare in pezzi sotto l’assalto dello stalliere, poi occhi e orecchi mi si riempiono di un sibilo che pervade nella stessa misura tutti i sensi. Ma anche questo solo per un istante, perché, come se si aprisse immediatamente dinanzi al portone del mio cortile il cortile del mio malato, sono già lì; i cavalli sono fermi; la tormenta di neve ha smesso; chiaro di luna tutt’attorno.

Il narratore si sofferma sulla distanza, sulla bufera, sulla mancanza di cavallo, sull’urgenza, quindi molto spazio da percorrere in poco tempo, in condizioni avverse metereologiche e geo-fisiche (la campagna del titolo), ma poi si sorprende dell’arrivo a destinazione, «in un istante». Attraverso l’udito, la partenza e l’arrivo sono contigui, mentre la cavalcata con il carro è elusa dal racconto. Tempo e spazio sono a loro volta elusi con un passaggio brusco (nonostante 10 miglia da percorrere di notte, con la bufera, su un carro trainato da cavalli, in aperta campagna, dalla casa del medico alla casa del «malato»). L’effetto di realtà con il narratore in prima persona è accresciuto dalla narrazione al presente, dopo l’antefatto al passato e attraverso i sensi (pensiamo a Jurij Lotman, Il problema dello spazio artistico, in La struttura del testo poetico, Milano, Mursia, 1976, pp. 261-273):

«Sento» il tintinnare del catenaccio;

«Sento» lo scattare della serratura;

«Vedo» spegnere le luci;

«Sento» la porta di casa mia spaccarsi;

«occhi e orecchi mi si riempiono di un sibilo che pervade nella stessa misura tutti i sensi».

In casa del malato c’è aria irrespirabile, stufa fumante, il medico pensa subito di aprire la finestra, ma non lo fa; la sorella del malato toglie al medico la pelliccia e poi gli porta una sedia per il borsone; il padre gli offre un bicchiere di Ruhm; la madre lo attira al letto del giovane. Ritmo incalzante anche nei rituali domestici. La casa del malato sembra una delle case dei pazienti del Cristo si è fermato a Eboli, dove, in situazioni analoghe, il medico non riesce a guarirli, ma gli sono riconoscenti. In questo racconto la focalizzazione sembra essere proprio sul rapporto tra medico e paziente che viene sviluppato progressivamente in forma di dialogo, di cui possiamo individuare numerose tappe. Lessico: 8 occorrenze della parola medico + 2 di dottore (1 pronunciata dal paziente e l’altra dal protagonista medico) 6 occorrenze della parola malato + 2 di paziente nella filastrocca (in traduzione).

1) Il paziente al medico: «Scarno, senza febbre, né freddo né caldo, con gli occhi vuoti, senza camicia, il giovane si solleva sotto la trapunta, mi si appende al collo, mi bisbiglia all’orecchio:  “Dottore, mi lasci morire”». Il medico al paziente: prima diagnosi (erronea) e riflessioni di sufficienza sulla propria condizione di medico condotto:

La madre è vicino al letto e mi attira; la assecondo, e mentre un cavallo nitrisce forte verso il soffitto della stanza, appoggio la testa al petto del giovane, il quale al contatto con la mia barba bagnata rabbrividisce. Si conferma ciò che so già: il giovane è in salute, il sangue gli circola un po’ male, la madre premurosa lo affoga di caffè, ma è in salute e la cosa migliore sarebbe buttarlo giù dal letto con un colpo. Non sono un riformatore del mondo e lo lascio dov’è. Sono un impiegato della circoscrizione e faccio il mio dovere fino al limite, fin là dove quasi sarebbe troppo. Pagato male, sono tuttavia generoso e pronto ad aiutare i poveri

Presa di coscienza del medico:

Mentre però chiudo la borsa e faccio un cenno verso la pelliccia, la famiglia si raccoglie, il padre che annusa dal bicchiere di rum nella mano, la madre, probabilmente delusa da me – oh, ma che si aspetta la gente? – tutta lacrime, che si morde le labbra e la sorella che agita un asciugamano zuppo di sangue, allora sono in qualche modo pronto, date le circostanze, ad ammettere che forse il giovane sta male.

2) Il medico fa la seconda diagnosi, contraria alla prima: «Povero giovane, non ti si può aiutare. Ho scoperto la tua grande ferita; per questo fiore nel fianco andrai sottoterra». Da notare l’utilizzo della parola fiore, come nella celebre novella di Pirandello intitolata L’uomo dal fiore in bocca. Il paziente a sua volta reagisce alla questa diagnosi in modo contrario, sia alla diagnosi che alla propria prima reazione; stavolta chiede salvezza: «“Mi salverai?” bisbiglia singhiozzando il giovane, completamente accecato dalla vita nella sua ferita». A seguito della diagnosi fatale, il medico riflette sulla fede della società contadina nelle capacità salvifiche del medico, un tempo attribuito ai sacerdoti (pensiamo di nuovo alla testimonianza di Carlo Levi sulle credenze popolari nel Sud Italia).

Così è la gente della mia zona. Pretende sempre l’impossibile dal medico. La vecchia fede l’hanno persa; il parroco sta a casa e strappa le tonache della messa una dopo l’altra; ma il medico deve saper risolvere tutto con la sua delicata mano chirurgica. Ma sì, come volete: io non mi sono offerto; utilizzatemi per scopi santi, mi lascio fare anche questo; che potrei volere di meglio, vecchio medico di campagna, derubato della mia serva!

3) Il medico viene messo nel letto del paziente. È una situazione presa a prestito da una vera usanza?  O il frutto della potente immaginazione kafkiana? Tradizioni popolari, cultura orale, una sorta di filastrocca cantata da una scolaresca in due tempi:

Svestitelo, e saprà guarir,

e se non guarisce, ammazzatelo!

È solo un medico, è solo un medico.

[…]

Rallegratevi, pazienti,

il medico vi è stato messo nel letto!

Il successivo scambio di battute tra paziente, che reagisce con rabbia e insieme prende atto della diagnosi, e medico che relativizza le capacità taumaturgiche dei medici. Paziente: «Sai» mi sento dire nell’orecchio, «ho pochissima fiducia in te. Sei stato certo scrollato da qualche luogo, non sei venuto sui tuoi piedi. Invece di aiutare, restringi il mio letto di morte. Vorrei proprio cavarti gli occhi». Medico: «Giusto» dico, «è una vergogna. Ma io sono solo un dottore. Cosa dovrei fare? Credimi, anche per me non è semplice».

4) Il dovere del paziente e l’ulteriore virata del medico, spiazzante per il paziente come per il lettore. Dapprima il medico sembra attenuare la gravità per poi confermare la letalità della ferita del giovane.

Paziente: «Di questa scusa dovrei accontentarmi? Ah, devo proprio. Devo sempre accontentarmi. Con una bella ferita venni al mondo; questa fu tutto il mio equipaggiamento».

Medico: «Giovane amico» dico, «il tuo errore è questo: non hai una visione d’insieme. Io, che sono stato in tante stanze di malati, in lungo e in largo, ti dico: la tua ferita non è poi così grave. Fatta con due colpi d’ascia ad angolo acuto. Molti offrono il fianco e sentono appena l’ascia nella foresta, per non parlare di quando gli si avvicina».

Paziente: «È davvero così o m’inganni per la febbre?»

Medico: «“È davvero così, portati la parola d’onore di un medico condotto nell’aldilà”. E lui la prese e tacque. Ma ora era tempo di pensare alla mia salvezza».

Il dialogo tra medico e paziente rimanda a quello messo in scena da Cechov nel suo Reparto n. 6 dove il medico psichiatra a furia di parlare con un paziente, l’unica persona del villaggio con cui ritiene valga la pena intrattenersi, finisce per essere forzatamente ricoverato nel reparto psichiatrico di cui fino a quel momento era stato responsabile. La permeabilità dei ruoli è qualcosa che affascina i medici scrittori ma anche gli scrittori intellettuali senza formazione medica, come Kafka. In questo caso, per far accettare la diagnosi fatale al paziente, il medico abbatte la gerarchia dei ruoli, si cala nella situazione del paziente, infilandosi nel suo letto e prosegue il dialogo al cospetto dei familiari.

Terminata la visita, il medico parla della propria salvezza, l’unica possibile, cioè del rientro a casa. Riprende le proprie cose, i vestiti, la pelliccia nominata molte volte, il carro con i cavalli e, pensando ossessivamente alla propria serva Rosa, si incammina. Abbiamo il percorso a ritroso da casa del paziente a casa del medico. Questa volta il tragitto è lungo e lento: «Nudo, esposto al gelo di questa infelicissima epoca, con un carro terreno trainato da cavalli non terreni, io, vecchio, mi aggiro». Il finale è  enigmatico, anche il medico è schiacciato dalla diagnosi fatale, il non poter guarire il paziente è una condanna per entrambi: «Ingannato! Una volta che si segue il suono erroneo del campanello notturno… non si può rimediare mai più». Una crisi che precipita in una situazione senza scampo, tipicamente kafkiana.

Coma abbiamo visto, l’ambientazione è molto schematica: la narrazione si svolge tra due case e due tragitti. La casa del medico, punto di partenza e di ritorno; la casa del paziente, dove la vicenda si divide in due tempi, quello affrettato e confuso della prima diagnosi e quello più elaborato, di accettazione da parte di entrambi i protagonisti, della seconda diagnosi. Il viaggio di andata è difficile da organizzare ma velocissimo, il viaggio di ritorno è invece lento, con il medico nudo, impotente, sconfitto. Il testo, quasi una favola gotica, tematizza il senso di impotenza del medico di fronte alle malattie incurabili, tema ricorrente nella narrativa che tratta di medicina, dal medico scrittore Axel Munthe, che combatte tutta la vita contro il demone della morte, a uno scrittore intellettuale come Stephen Zweig, che fa concludere con il suicidio la vicenda di un medico annientato dalla disperazione per non aver salvato una paziente di cui si è perdutamente innamorato. Come abbiamo accennato, in Balzac la situazione è simile ma contraria; la sofferenza insopportabile generata dalla morte della donna amata spinge il protagonista a espiare il proprio senso di colpa attraverso la professione di medico in un luogo remoto, di campagna. 

PARTE II

Michail Bulgakov, I racconti di un giovane medico, 1925

Bulgakov nel 1909 si iscrive a Medicina a Kiev, nel 1914 fa le prime esperienze di campo della Grande Guerra e nel 1916 si laurea. Come neolaureato viene mandato in un ospedale di un piccolo paese di provincia dove inizia a esercitare la professione. Alla fine dell’anno il registro dà conto di 211 ricoveri e 15.631 visite (molto simile alle cifre di cui dà conto nella raccolta di finzione). Successivamente viene trasferito altrove in un reparto di malattie infettive e veneree (esperienza raccontata nella cornice di Morfina, che vedremo tra poco). Nel 1918 diventa dipendente dalla morfina, con l’aiuto della moglie nel giro di un anno si disintossica. Dal 1919-1920 si dedica alla Letteratura. Nel 1930 riceve una telefonata da Stalin e grazie alla sua intercessione riesce a ottenere un impiego in teatro. Come per Louis Ferdinand Céline – autore di Semmelweis, 1924, tesi di laurea in medicina dedicata al medico che battendosi contro l’ostruzionismo dei colleghi e delle istituzioni internazionali, grazie all’intuizione della disinfezione delle mani, riuscì ad eliminare la febbre puerperale, causa principale dell’alto tasso di mortalità delle partorienti – la fase di medico precede quella di scrittore.

Michail Bulgakov, L’asciugamano col galletto

È il primo racconto (di sette) della raccolta I racconti di un giovane medico. È collocato in apertura e narra il viaggio verso il paese dove il protagonista di questo e dei successivi racconti esercita il primo incarico da medico. Viaggio di 24 ore di cui vengono forniti gli estremi temporali: 16 settembre 1917 ore 14 – 17 settembre 1917 ore 14. Il personaggio medico esercita la professione, come in Balzac, Levi, Munthe, Cechov e Kafka, in un piccolo centro.

Bulgakov, come Kafka, elude il tragitto ma ne descrive il post-factum. Sofferenza fisica: il protagonista medico, narratore in prima persona, ha dolori a gambe, piedi, dita dei piedi, mani, dita delle mani e intorpidimento. Sfoglia manuali per autodiagnosi (medico autoriflessivo) e arriva alla conclusione che si tratta di una paralisi da principio di congelamento: «Maledissi in un sussurro la medicina e la domanda di ammissione che cinque anni prima avevo presentato al rettore dell’Università». La citazione dà conto dell’atteggiamento da intellettuale che mette in discussione le proprie scelte. Ci sono inoltre, come in Kafka in cui la pelliccia è la parte per il tutto, dettagli sui vestiti invernali: stivali, cappotto, berretto. Le condizioni metereologiche e il loro effetto sul viaggio e sul corpo sono reiterate.

Arrivando a destinazione, nel villaggio a cui, proprio come un curato, è stato assegnato, vede due case a due piani: una coi muri scrostati, le pareti di tronchi non imbiancati: è dell’assistente, ci sono gerarchie; l’altra, sempre a due piani, ma piuttosto pulita, con enigmatiche finestre sepolcrali, è la sua (pensiamo ai due reparti di maternità in Semmelweis di Céline, ma anche alla duplicità delle case in cui è ambientato il racconto di Kafka). Tutto è essenziale, vi è un campo arido da un lato, un boschetto rinsecchito con cinque sei casupole dall’altro. Immagina, in una sorta di allucinazione, un tenore, una visione che stride con la situazione, da intellettuale, da artista, nel mondo del teatro che poi, come già detto, diventerà ambiente di lavoro dell’autore. E anche in questo caso vi è un dialogo ma è tra comparse, serve a mettere in rilievo il ruolo di medico del protagonista.

Il vetturino: «Hei, vi ho portato il dottore!»

Il custode: «Salute a voi compagno dottore»

Il medico «Voi chi siete?»

Il custode: «Sono il custode. È un pezzo che vi stiamo aspettando»

Questo scarno dialogo, anch’esso da teatro, aiuta a visualizzare la landa russa desolata e gelata in cui il protagonista e le due comparse si scambiano poche battute. L’arrivo in un piccolo centro di campagna (che sia del Nord o del Sud), con forte senso di responsabilità e insieme di inadeguatezza, è situazione analoga a quella messa in scena da altri medici scrittori: Cechov, Reparto n. 6; Levi, Cristo si è fermato a Eboli; Munthe, La storia di San Michele.

Segue una sorta di autoritratto del protagonista: giovane che sembra troppo giovane per essere medico, gli danno sempre dello studente, pensa di metter gli occhiali per correggere l’impressione, ma ha la vista buona, cerca di comportarsi in modo posato, di non correre e saltellare agilmente come il ventitreenne che è, ma è consapevole di non essere bravo abbastanza per dissimulare la propria età.

L’insicurezza e l’estrema consapevolezza sono tratti tipici dei personaggi intellettuali e questo giovane russo li unisce a quelli del medico, assennato, risoluto, apprezzato. La sua vita interiore, fatta di paure, non corrisponde alla realtà, in cui riesce a salvare tutti i pazienti. Sempre convinto di non essere all’altezza, mettendo il lettore a conoscenza di ogni ansia che accompagna le sue laboriosissime imprese imprese, risolve ogni caso con riconoscimento di colleghi e pazienti (in questo è molto simile allo svedese Axel Munthe, un altro medico tormentato nonostante la propria innegabile abilità).

Fuoco e libri sono i due elementi che lo fanno «ambientare», cioè sentire a proprio agio. Si mette davanti al fuoco e apre le vetrine zeppe di libri. Mangia il gallo che la cuoca (moglie del custode) ha spennato per il suo arrivo. Ha un assistente e due ostetriche. Fa il giro dell’ospedale e si accorge subito che è fornitissimo di strumenti nuovi a lui ignoti. Gli dicono che sono comprati dal predecessore, che «Non faceva che operare da mattina a sera». La reazione del nostro è quella di chi riceve una difficile eredità: «A quel punto mi coprii di un sudore gelido» e pensa «doveva essere davvero un genio», «fui pervaso dal rispetto per quel misterioso Leopold». Il rispetto e l’ammirazione per un altro medico sono accresciuti dal suo senso di inadeguatezza: è giovane e vuole correggere la propria insicurezza con la scienza medica. Cerca di autoconvincersi di non avere responsabilità per aver avuto assegnato quel ruolo così impegnativo per cui non si sente pronto (dirigere l’ospedale). Ecco come argomenta:

  • «Non ho nessuna colpa» (di essere sato nominato responsabile dell’ospedale)
  • «Ho il mio diploma con ben 15 voti massimi» (è giusto che il ruolo gli sia stato assegnato)
  • «Volevo fare il medico assistente, quelli hanno sorriso e mi hanno detto “Si ambienterà”» (ma lui si ambienta grazie ai libri…)

In ogni situazione non crede che riuscirà, ma è guidato da un istinto, una forza che supera le sue paure e incertezze, è un insicuro vincente, mezzo intellettuale e mezzo medico: «E se mi portano un’ernia, appendicite, difterite, tracheotomia, un parto difficile?» (anticipazione dei casi che uno alla volta sono il tema dei racconti). Il caso di questo racconto è un incidente per il quale deve operare un’amputazione e il titolo del racconto, l’asciugamano sul galletto, viene dal regalo che la ragazza salvata gli porterà in segno di riconoscenza.

L’incipit de L’asciugamano col galletto, che è il primo racconto della raccolta di Bulgakov I racconti di un giovane medico, 1925, come abbiamo accennato, presenta numerosi tratti in comune con il racconto sopra trattato di Kafka, Il medico di campagna, 1919. Quali sono le convergenze e le divergenze questi due racconti di Franz Kafka (K), Michail Bulgakov (B)?

Narratore: in prima persona (K e B)

Protagonista medico: vecchio (K), giovane (B)

Stato d’animo del medico: rabbia (K), insicurezza (B)

Abiti e accessori: pelliccia e borsa (K), cappotto, berretto, sciarpa, stivali (B)

Anno: 1919 (K), 1917 (B)

Durata: una notte (K), ventiquattro ore (B)

Evento scatenante: chiamata notturna (K e B)

Ambientazione: campagna (K e B)

Stagione: inverno (K e B)

Condizioni metereologiche: bufera (K), freddo estremo (B)

Viaggio: notturno su carro trainato da cavalli (K e B)

Esito della visita: diagnosi fatale (K), guarigione della prima paziente (B)

Michail Bulgakov, Il battesimo del fuoco

Questo racconto dal titolo a sua volta enigmatico pone il giovane medico russo di fronte a un altro caso esemplare ed estremamente difficile nel suo genere (un parto). L’atteggiamento è sempre quello di chi non si sente all’altezza della situazione ma è avido di sapere e si dedica alla lettura, da buon medico-intellettuale. Quello della lettura è un refrain di questo racconto.

  • «Le sere erano del tutto libere, e le dedicavo all’esame della biblioteca, alla lettura dei manuali di chirurgia e a lunghe e solitarie bevute di thè…»
  • «In una di quelle sere me ne stavo seduto nel mio studio a leggere un atlante di anatomia topografica»
  • «Lessi fino a che le palpebre appesantite cominciarono a chiudersi. Alla fine sbadigliai, misi da parte l’atlante e decisi di andare a dormire»
  • «Si può fare una grande esperienza in campagna» pensai addormentandomi, « bisogna solo leggere, leggere, leggere» (Quest’ultima frase è l’explicit del racconto).

Uno dei leit-motiv della raccolta è il risveglio repentino del giovane medico in piena notte, a causa di un’emergenza medica che viene annunciata dal suono del pugno chiuso di qualcuno sulla porta di casa (come il campanello notturno in Kafka). Bussano alla porta: «Tuttavia, non più tardi di mezz’ora dopo, all’improvviso mi svegliai, come se qualcuno m’avesse strattonato, mi sedetti e, scrutando spaventato l’oscurità, mi misi in ascolto. Qualcuno stava battendo forte e con ostinazione sulla porta d’ingresso, e i colpi d’improvviso mi parvero sinistri. Stavano bussando alla porta del mio appartamento».

Il secondo refrain di questo racconto ginecologico è costituito dal lavaggio delle mani del medico:

  • « “Lavare le mani al dottore! Alskin’ja!” subito gridò Anna Nikolaevna. Il suo volto era serio e solenne. Mentre l’acqua scorreva, portandosi via la schiuma dalle mani arrossate dallo spazzolino…»
  • « “Esaminiamo l’interno”. Di nuovo l’approvazione balenò negli occhi di Anna. “Akssin’ja!” Di nuovo venne versata l’acqua. «Ah se ora avessi qua da consultare il Doderlein!» pensai angosciato, insaponandomi le mani.  ».
  • «E, dopo essermi lavato le mani…»
  • «Dai rubinetti l’acqua scorreva con fragore e io e Anna cominciammo a lavare e insaponare le braccia fino ai gomiti (…) E quando con la garza sterile cominciai ad asciugare le mani d’ideale bianchezza e pulizia…»
  • « “Be, ce n’è di cose che possono capitare” dico, “non è esclusa la possibilità di un’infezione” ripeto la prima frase presa da un manuale che mi passa per la testa. “Ah, questo!” dice Anna, salmodiando tranquilla. Beh, voglia Iddio che non succeda nulla. E come potrebbe? Tutto era sterilizzato, pulito».

Il primo lavaggio è per una palpazione esterna; il secondo per la visita interna; il terzo dopo la visita prima di andare a casa a consultare il manuale con la scusa delle sigarette; il quarto per la manovra del parto; il quinto sono le ossessioni del giovane medico che gli fanno temere il peggio anche dopo il parto avvenuto con successo, ma l’infermiera ostetrica elimina ogni dubbio affermando che tutto era sterilizzato. Céline aveva pubblicato il suo Semmelweis un anno prima, nel 1924. Le conquiste della scienza… 

Michail Bulgakov, Morfina, 1927

Pubblicato su rivista nel 1927, è la penultima opera apparsa in vita. Racconto a cornice e a struttura duplicemente diaristica con narratore in prima persona (finzione autobiografica) e diario di un medico in prima persona (finzione eterobiografica). Questo l’incipit, una variante di un noto adagio sulla libertà: «Da tempo ormai è noto alle persone assennate che la felicità è come la salute: quando ce l’hai davanti non ti accorgi della sua presenza. Ma, col passare degli anni, quando ricordi la felicità, oh, come te la ricordi!». È un racconto pseudo-autobiografico che ripercorre il periodo immediatamente successivo a quello trattato nei Racconti di un giovane medico. Dopo aver lasciato il piccolo ospedale di campagna di cui era responsabile lo stesso medico viene inviato in un centro più grande dove l’ospedale ha più reparti e il protagonista viene assegnato a pediatria, poi malattie infettive, dal 20 settembre 1917 al 19 febbraio del 1918, l’anno della rivoluzione russa, a cui si fa riferimento. È quindi anche un racconto storico. Numerosi sono i richiami intratestuali con i due racconti dello stesso autore precedentemente visti:

1: burrasca, cavalli. Tutto ha principio con una burrasca e un viaggio, dall’ospedale di campagna “condotta” al capoluogo e le osservazioni del narratore in prima persona sul miglioramento delle proprie condizioni di lavoro e di vita.

La burrasca che stava allora iniziando mi sospinse come un brandello strappato di giornale e mi trasportò da una condotta sperduta al capoluogo del distretto. Bella roba, si potrebbe pensare, un capoluogo di distretto! Ma se qualcuno come me fosse rimasto bloccato nella neve d’inverno, in foreste aspre e misere d’estate, per un anno e mezzo, senza allontanarsi nemmeno un giorno, se qualcuno avesse lacerato il pacco contente il giornale della settimana precedente con un tale palpito del cuore, come un amante felice lacera una busta azzurra, se qualcuno avesse dovuto percorrere diciotto verste su una slitta tirata da cavalli in fila indiana per assistere a un parto, questo qualcuno riuscirebbe probabilmente a comprendermi.

2: L’ospedale. All’inizio del racconto la voce narrante crea un ponte (autobiografico) con I racconti di un giovane medico, dichiarando di essere felice ora per aver superato l’esperienza precedente. Il miglioramento rispetto all’esperienza narrata nella raccolta di racconti precedente consiste nelle condizioni materiali ma anche nel fatto che il protagonista non è in questo caso il responsabile, non deve occuparsi di tutto. Le differenze sono marcate a colpi di anafora, con l’espressione: «nell’ospedale»

Dell’ospedale non era nemmeno il caso di parlarne. C’era un reparto chirurgico, uno terapeutico, uno per le malattie infettive e uno ostetrico. Nell’ospedale c’era una sala operatoria dove sfavillava un’autoclave, luccicavano i rubinetti d’argento, i tavoli rivelavano le loro astute strutture, le rotelline, le viti. Nell’ospedale c’era un medico anziano e tre medici assistenti (oltre a me), degli assistenti sanitari, delle ostetriche, delle infermiere, una farmacia e un laboratorio

3: Responsabilità. La più grande differenza è appunto la responsabilità, che in Bulgakov è stata finora emotivamente schiacciante, ma non al punto di impedire al personaggio di essere un buon medico.

Un pesante fardello m’era scivolato via dall’anima. Non mi portavo più addosso la fatale responsabilità per qualsiasi cosa potesse accadere al mondo. Non ero colpevole per l’ernia strozzata e non rabbrividivo quando arrivava una slitta che trasportava una donna con un feto in posizione trasversale, non mi toccavano più le pleuriti purulente che necessitavano d’essere operate. Per la prima volta mi sentii una persona la cui responsabilità era racchiusa entro centri limiti precisi. Un parto? Ma prego, ecco, quell’edificio basso là in fondo, ecco, l’ultima finestra, quella con una tendina di garza bianca. Lì c’è il medico ostetrico, un tipo simpatico e grasso, con dei baffetti rossicci e pochi capelli in testa. È affar suo. Slitta, deve voltare in direzione della finestrella con la garza! Per una frattura multipla c’è il primario chirurgo. Una polmonite? Nel reparto di medicina interna… »

4: Risveglio notturno: «La notte cominciai a dormire, perché sotto le mie finestre non s’udiva il sinistro colpo notturno alla porta che poteva farmi alzare e trarmi nelle tenebre verso il pericolo e l’ineluttabile». L’ultima differenza sottolineata tra il precedente incarico e il successivo, è il fatto che nel secondo può dormire perché non ci sono casi urgenti che si manifestano in piena notte attraverso il bussare alle porte.

5: Lettura: «La sera cominciai a leggere di difterite e scarlattina, certo, in primo luogo, e quindi chissà perché, con uno strano interesse, Fenimore Cooper».L’unica costante è la lettura. È un personaggio medico che legge di medicina ma non solo…

Conclusione della cornice iniziale: «Fui felice nel ’17, in inverno, dopo aver avuto il trasferimento nel capoluogo del distretto da una condotta sperduta preda di burrasche». Questa è la conclusione della cornice che si ricollega all’incipit e precede l’avvio del racconto nel racconto, la vicenda di un (supposto) altro medico amico che da una condotta (quella dove era stato lui precedentemente) lo chiama d’urgenza con una lettera dicendo che sta male senza dare spiegazioni. Seguono le riflessioni del nostro narratore:

… Ma comunque è un bene che sia stato in quella mia condotta… Sono diventato intrepido… Non ho paura… Cos’è che non ho curato?! Per davvero? Eh?… Non ho curato malattie mentali… Tuttavia… A dire il vero no, scusate tanto… Quando l’agronomo aveva bevuto oltre ogni misura… E io l’ho curato, anche se senza grande successo,… Delirium tremens… Non è forse una malattia mentale? Bisognerebbe leggere qualcosa di psichiatria…

Sembra un avvertimento di quello in cui il protagonista sta per essere coinvolto, un disturbo che ha a che fare con una debolezza della psiche che induce alle dipendenze. Tra cornice e racconto nel racconto, c’è un intermezzo epistolare: la lettera di un altro medico che da una remota condotta chiede aiuto. Anche il nostro scrive una lettera al suo superiore chiedendo il permesso di partire per soccorrere il medico amico. Il primario risponde con una lettera. Il medico suicida lascia una lettera.

Ritorna il leit motiv dell’interruzione del sonno notturno del medico per un’emergenza.: «Toc, toc… Bum, bum, bum… Aha… Chi? Chi? Csa?… Ah, stanno bussando, ah, diavolo, bussano… dove sono? Che faccio? Che succede? Sì, sono nel mio letto… Come mai mi svegliano? Ne hanno il diritto, perché sono di turno». Il tentativo vano di rianimazione del medico che si è sparato e che non vuole essere salvato porta ad una strenua e vana lotta con la morte, che ricorda Amok di Zweig; l’attitudine del paziente (che non vuole essere salvato per motivi do coscienza) ricorda la novella Il dovere del medico Pirandello.

Una volta morto il medico di campagna che aveva inizialmente chiesto aiuto per poi suicidarsi, inizia il racconto nel racconto, sotto forma di diario: «Accanto alla lettera del suicida, un quaderno comune, con una copertina nera». È il diario di un medico, ma soprattutto il diario di una dipendenza:

  • «Se non fossi corrotto dalla mia formazione medica direi che un uomo può lavorare normalmente solo dopo un’iniezione di morfina»
  • «Io, l’infelice dottor Poljakov, ammalatosi nel febbraio di quest’anno di morfinismo… »
  • «Ripensateci. Cercate di capire che comunque ritornerete in una clinica psichiatrica, beh, forse tra un po’ di tempo…e per di più ci tornerete in una condizione assai peggiore. Io vi ho comunque trattato come un medico. Mentre allora ci tornerete ormai in una condizione di completa confusione mentale»
  • «Beh, in quanto alla pratica medica aveva comunque esagerato. Sì, sono un degenerato. È assolutamente vero. In me ha avuto inizio la disgregazione del senso morale. Ma posso lavorare, non posso causare il male o un danno a nessuno dei miei pazienti. Già, perché ho rubato?»
  • «Ma è davvero così grave la mia disgregazione? Chiamo a testimoni questi miei appunti. Sono frammentari, ma non sono mica uno scrittore! Contengono forse qualche pensiero folle? A parer mio sto ragionando in modo del tutto sensato»
  • «Durante il periodo di astinenza ho letto un manuale di psichiatria, e ciò ha prodotto su di me una terribile impressione»
  • «Ah, l’assistente sanitario. È brutale proprio come quegli psichiatri, che non sanno essere in nulla, nulla, nulla d’aiuto»

Molti sono i riferimenti alla psichiatria, la malattia mentale come rischio connesso alla professione medica (si pensi a Semmelweis, che morì in un asilo psichiatrico, e il personaggio medico di Cechov, che da psichiatra diventa paziente). Il diario dura poco più di un anno: dal 21 gennaio 1917 al 13 febbraio 1918. E la cornice riprende, per poi congedare il lettore, con la data del 14 febbraio 1918. La conclusione è una lucida osservazione sulla necessità delle memorie del medico morfinomane: «All’alba del 14 febbraio 1918, in una lontana, piccola cittadina, ho letto queste memorie di Sergej Poljakov. E qui le riporto integralmente, senza alcun cambiamento di sorta. Non sono uno psichiatra… Non posso dire se possono essere edificanti o necessarie. Secondo me sono necessarie». Ecco che le due identità di medico e di scrittore generano un valore aggiunto, quello di un intellettuale corrotto e corretto dalla scienza medica.

 

 

 

 

L'autore

Ilaria de Seta
Ilaria de Seta
Ilaria de Seta si è formata all’Università di Napoli Federico II, ha perfezionato gli studi all’University College Cork e insegnato all’Université de Liège. Attualmente vive a Bruxelles, è Research Associate alla Katholieke Universteit Leuven e Freelance Editor presso la casa editrice Peter Lang. Ha dedicato numerosi studi alla rappresentazione dello spazio nella narrativa otto-novecenetesca e alla parabola intellettuale di Giuseppe Antonio Borgese. Ultimamente si sta concentrando sull'opera di Federigo Tozzi e sulla rappresentazione di medici e pazienti nella letteratura europea moderna e contemporanea.