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Il “Decameron” di Pasolini, storia di un sogno. Dialogo con Carlo Vecce

Carlo Vecce non ha certo bisogno di presentazioni. Professore ordinario di Letteratura Italiana presso l’Università ‘Orientale’ di Napoli, ha focalizzato da sempre le proprie ricerche sul Rinascimento italiano ed europeo. Ricordiamo qui alcuni volumi incentrati sulla figura di Leonardo da Vinci: da Leonardo (Salerno, 1998) a Le battaglie di Leonardo (Giunti, 2012), Leonardo: favole e facezie (De Agostini, 2013), La biblioteca perduta. I libri di Leonardo (Salerno, 2017), sino al più recente I giorni di Leonardo (Giunti, 2021); sul genio toscano, lo abbiamo intervistato lo scorso aprile. La sua ultima fatica critica, risalente ad un’epoca a noi decisamente più prossima ed edita da Carocci a pochissimi giorni dal centenario della nascita dell’autore più discusso e controverso dell’ultimo mezzo secolo, si intitola Il Decameron di Pasolini, storia di un sogno. Lo abbiamo intervistato in merito.

Partiamo dalla premessa. Lei scrive: «Il Decameron di Pasolini è un sogno. Un sogno, per certi aspetti, contro la Storia, e al di fuori della Storia», ci spiega questa affermazione? Cosa legava Pasolini al capolavoro di Boccaccio?  

Il sogno è il film, naturalmente. È lo stesso Pasolini a comunicarci questa idea. Il cinema ha una forte componente onirica, a livello non solo di ricezione, ma anche di produzione. Il film è un sogno innanzitutto per chi lo fa. Non è un caso che il Decameron si concluda con la celebre frase, pronunciata dallo stesso Pasolini: “perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?” In realtà, quasi tutte le opere di Pasolini sono così: opere aperte, in movimento. Il momento della creazione prevale su quello del compimento, e anzi l’autore vorrebbe che il sogno (l’atto creativo) non finisse mai, perché finire è un po’ come morire: non solo per l’opera, ma anche per l’autore, che si distacca per sempre dalla propria creatura. È come se la vita fosse un unico piano sequenza, che solo la morte interrompe, compiendo un “fulmineo montaggio” delle sequenze che compongono la nostra esistenza.

Tra Boccaccio e Pasolini, il rapporto è profondo, ed agisce a livello di sintonia e identità di vedute sul mondo e sulla vita. La scelta del Decameron gli appare quasi necessaria, nel momento in cui decide di realizzare un film “allegro, felice, solare, laico”. Nessun’altra opera potrebbe aprirgli meglio questi orizzonti, nell’esaltazione della vita e dei valori dell’umano, del corpo, della sessualità. Così come Boccaccio è stato ‘napoletano’ nel periodo fondamentale della propria formazione, così Pasolini trasporta integralmente il suo Decameron a Napoli. Infine, come Boccaccio, Pasolini, abbandonando la poetica dei suoi ultimi film (Teorema, Medea), cerca di pervenire finalmente ad uno stile medio, un punto di equilibro fra cinema di prosa e cinema di poesia, fra tragico e comico, alto e basso, sublime e umile: un nuovo realismo, ottenuto anche con una tecnica cinematografica più matura, e finalizzato ad una comunicazione diretta col pubblico.

Sempre nella premessa, poco oltre, lei aggiunge: «Appartengo a quella generazione di adolescenti che cominciavano ad appassionarsi alle sue poesie e ai suoi romanzi, e a vedere qualche suo film (gli ultimi no, perché erano tutti vietati a noi minorenni), e che ricordano con angoscia il giorno in cui appresero la notizia assurda e terribile della sua morte». Che rapporto ha con l’autore e le sue opere, al di fuori del suo ruolo strettamente accademico?

Ti ringrazio, Teresa, per questa domanda, perché veramente, alle origini del mio interesse, o direi meglio passione, per Pasolini, c’è anche un motivo personale, un episodio di quando ero ragazzo.

Ricordo di essermi avvicinato, verso i 14-15 anni, alla lettura delle sue poesie, soprattutto le Ceneri di Gramsci, e di libri come Ragazzi di vita. Nel settembre 1975, con altri compagni di classe, stavamo completando un lavoro di gruppo (al liceo si chiamava ‘ricerca’) su tutta l’opera di Pasolini: la poesia, la narrativa, il teatro, il cinema. Non era stato facile, soprattutto per il cinema, perché i film più recenti, di cui i grandi parlavano con scandalo, erano tutti vietati a noi minorenni; potevamo solo vederne poche fotografie di scena, rubate da qualche rotocalco: frammenti di corpi nudi, anche maschili, di volti e di mondi lontani che veramente sembravano anche a noi frammenti di sogni.

E poi, quella domenica, il 2 novembre 1975, improvvisamente, la notizia della sua morte. La ricordo bene, quella domenica, era un giorno di festa. Nella mia città, Napoli, c’era molta attesa per l’inizio delle partite di calcio, trasmesse in diretta su Tutto il calcio minuto per minuto: il Napoli doveva giocare a Verona, e se vinceva poteva balzare in testa alla classifica; era un grande Napoli, il Napoli di Luis Vinicio.

E invece, la tragedia, immensa, assurda. Noi incollati alla televisione, per le edizioni speciali del telegiornale. Poi, ai funerali, le parole di Moravia, quella voce rotta dall’emozione che diceva “abbiamo perso un poeta, e di poeti non ce ne sono tanti … il poeta dovrebbe essere sacro”. Non è facile, per un ragazzo, scoprire di vivere in un paese in cui si uccidono i poeti. E non te lo dimentichi più.

Per me e i miei compagni di classe, la ‘ricerca’ cambiò completamente. Senza pensarci su, prendemmo un magnetofono e scendemmo nel centro storico di Napoli e nei suoi quartieri più popolari, quelli dove Pasolini aveva girato il Decameron. Cominciammo a intervistare la gente, in mezzo alla strada, forse la stessa gente che l’aveva visto cinque anni prima o aveva partecipato alle riprese del film. Le risposte, commosse, spesso in dialetto, sempre di straordinaria umanità, di partecipazione al dolore, alla sofferenza, alla morte.

Quando ho visto Il Decameron la prima volta, solo vent’anni dopo, in televisione, per me è stato come tornare a quel periodo: alla città che giravo da ragazzo insieme a mio padre, ma anche al paesaggio rurale della Campania profonda dove si avventurava mia madre, insegnante di scuola media in remoti paesini del casertano. Da allora, semplicemente, ho cominciato ad inseguire tutte le tracce di quella storia: forse perché, in parte, la sentivo anche come una ‘mia’ storia.

Il suo libro è strutturato in capitoli che si intitolano, rispettivamente: Prima, Durante, Dentro e Dopo. Ci illustra la struttura del volume?

Prima, durante, dentro e dopo: è sottintesa sempre la parola ‘sogno’, cioè lo stesso film.

Il ‘prima’ prende in esame tutta la fase preparatoria: come è nata la prima idea, la lettura del Decameron, le prime decisioni strutturali, la prima scelta di novelle, il trattamento, la sceneggiatura eccetera. Ne emerge la caratteristica tipica dell’opera pasoliniana, cioè di essere sempre in movimento; ma anche il forte controllo autoriale che insiste su tutti questi momenti, su materiali che di solito vengono trascurati dagli studiosi, perché interpretati come di secondaria importanza, o subalterni rispetto al risultato finale del film. E invece per Pasolini anche ogni singola battuta o parola del trattamento e della sceneggiatura è frutto di una scelta attenta, e spesso viene elaborata in una forma autonoma, quasi poetica. L’intero movimento dell’opera nel tempo ci chiede di essere letto e interpretato, con cura filologica, nei minimi dettagli, perché ognuno di questi è portatore di un senso, e di un messaggio d’autore.

Il ‘durante’ è la fase concreta di realizzazione del film, dall’inizio delle riprese fino alla conclusione della copia stampata definitiva. E’ una fase di lavoro collettivo (con specialisti della fotografia e della scenografia come Tonino Dalli Colli e Dante Ferretti, i tecnici, le maestranze, gli attori, le comparse), che Pasolini, anche negli altri suoi film, ha sempre vissuto, appunto, come in sogno, in trance, in uno stato di febbrile e instancabile attività.

Il ‘dentro’ approfondisce lo studio di alcuni elementi fondamentali ‘interni’ al film: il recupero di una comunicazione autentica fra gli esseri umani, la strategia narrativa (e metanarrativa), l’interazione dei linguaggi e delle forme di espressione, le citazioni visuali (dalla pittura del Trecento al cinema giapponese di Mizoguchi), la colonna sonora (le canzoni napoletane e i canti popolari della Campania), la scelta dei luoghi e degli interpreti, e infine le questioni di stile e di poetica.

In un primo momento, mi sarei voluto fermare lì, e restare ‘dentro il sogno’, senza continuare col ‘dopo’, cioè con tutto quello che normalmente succede a un film quando esce nelle sale: prime proiezioni, dibattito critico, successo di pubblico, incassi al botteghino eccetera. Non volevo occuparmene, perché si tratta appunto di una storia esterna al ‘sogno’; e anche perché è una storia triste, fatta di persecuzione (la continua e strisciante persecuzione dell’uomo e dell’intellettuale Pasolini), di tradimenti e di incomprensioni (da parte di tutti: il grande pubblico, la critica, il mondo della produzione culturale e cinematografica, che stravolse completamente il messaggio del Decameron). Ancora oggi, il Decameron è l’opera di Pasolini forse meno conosciuta.

Ma alla fine qualcosa l’ho scritta anche per il ‘dopo’: perché va raccontata anche quella storia che si conclude con l’Abiura della trilogia della vita, con Salò e con la morte di Pasolini, che, ripeto, è stata una tragedia collettiva: forse una delle più grandi nella storia del nostro paese.

Il Decameron di Pasolini, storia di un sogno  è arricchito, inoltre, da tre appendici: Il Decameron: trascrizione del parlato,  La Bella Siciliana, L’opera in movimento …

L’appendice più importante è la prima, che offre la trascrizione del parlato del film, in edizione critica e con le varianti dei dialoghi in dialetto napoletano in prima stesura, che ho trascritto dal copione originale utilizzato durante le riprese del film: un documento straordinario, che testimonia il modo di lavorare di Pasolini sul set, e di inventare spesso al momento soluzioni geniali, e poetiche, di rappresentazione. Ad esempio, la famosa frase conclusiva, “perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?”, si legge proprio lì, sull’ultima pagina, aggiunta dallo stesso Pasolini ma in una forma leggermente diversa: “perché compiere un’opera, quando è così più bello sognarla soltanto?”.

L’opera in movimento non è altro che il diagramma evolutivo del Decameron, dalla prima scelta di novelle fino al film completo. Per avere un’idea della novità critica, basta confrontare con la nota al testo del volume dei Meridiani dedicato al cinema di Pasolini: lì, del ‘movimento’, sono registrati solo tre passaggi (il trattamento, la sceneggiatura, il film). Io ne ho censiti almeno dieci, tutti profondamente diversi tra loro.

La Bella Siciliana, infine, è l’intervista che mi ha concesso Gabriella Maione, l’interprete del personaggio di Fiordaliso nella novella di Andreuccio da Perugia. L’avevo incontrata per caso a Chicago, e qualche tempo dopo, a Roma, Gabriella mi raccontò del suo incontro con Pasolini, e della sua esperienza sul set. Un incontro indimenticabile, perché Gabriella conserva ancora oggi quel sorriso e quella luce meravigliosa con cui appare nell’inquadratura del film. Forse, un po’, ha fascinato anche me, così come aveva sedotto Andreuccio.

Il paragrafo intitolato Perché Napoli, si concentra, in parte, sui rapporti del poeta con la città. Ce ne anticiperebbe qualche dettaglio? Che tipo di legame è intercorso tra Pasolini e Napoli?

Scegliere Napoli per il suo Decameron consente a Pasolini l’avvicinamento alla sua autentica cultura popolare. È una scelta politica: apparentemente, è una Napoli antica, arcaica, ma in realtà è la Napoli di oggi, “una sacca storica”, “l’ultima grande metropoli plebea” che resiste ad ogni tentativo di omologazione e cancellazione da parte della cultura dominante, della società consumista e neocapitalista. Ma è anche un atto d’amore per la sua umanità, e per tutti gli aspetti della sua cultura: la poesia, il teatro, Eduardo De Filippo e Totò, la musica e la canzone, il dialetto e la gestualità.

Un’ultima domanda. Pensa che il centenario pasoliniano riceverà la stessa attenzione riservata a quello dantesco, al di fuori del mondo strettamente accademico? Pasolini – che, a differenza di Dante, a scuola non viene studiato – è ancora un autore “di nicchia” o si sta aprendo anche alla cultura di massa?

Il centenario pasoliniano sicuramente avrà una copertura mediatica immensa e globale. Ma non sono sicuro che i contributi di conoscenza autentica saranno poi altrettanto numerosi. Come personaggio, Pasolini è una figura popolare, lo sentiamo vicino a noi, attuale e presente. Come autore, però, non è molto conosciuto: soprattutto dalle giovani generazioni. Un peccato, perché spesso Pasolini, nei suoi interventi pubblici, riusciva a vedere al di là del suo tempo, e a prefigurare le trasformazioni della società che viviamo noi oggi. Sì, credo che sarebbe importante tornare a leggere i suoi testi a scuola, come accadde a me studente nel 1975, e a vedere i suoi film: perché il modo migliore di ascoltare la sua voce è ascoltarla nelle sue opere, che sanno ancora comunicare, con intatta freschezza, l’altissimo valore civile, l’invito alla difesa dei valori più profondi della vita e della libertà umana.

 

L'autore

Teresa Agovino
Teresa Agovino (1987) ha conseguito il dottorato di ricerca nel 2016 presso l'Università 'Orientale' di Napoli con una tesi incentrata sulle riprese manzoniane nel romanzo storico del Novecento. Insegna Letteratura italiana presso l'Università Mercatorum (Roma) e Metodologie di scritture digitali presso l’Università Europea di Roma. Si occupa di ricerca su Alessandro Manzoni, Primo Levi, Giancarlo De Cataldo, Andrea Camilleri, autori sui quali ha pubblicato numerosi articoli in rivista e atti di convegno. Ha pubblicato i volumi: Dopo Manzoni. Testo e paratesto nel romanzo storico del Novecento e Elementi di linguistica italiana (Sinestesie, Avellino 2017 e 2020); I conti col Manzoni e «Sotto gli occhi benevoli dello Stato». La banda della Magliana da Romanzo criminale a Suburra (La scuola di Pitagora, Napoli, 2019 e 2024);“Non basta essere bravi. Bisogna essere don Rodrigo”: Social, blog, testate online, Manzoni e il grande pubblico del web (Armando editore, 2023). Ha vinto il premio 2023 dell’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti, Classe di Lettere, con il saggio Da Manfredi all’innominato. Suggestioni dantesche in Manzoni.