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Attilio Castellucci intervista Domingo Villar

Entrevista en galego

Domingo Villar (Vigo 1971) ha finora pubblicato tre romanzi di argomento poliziesco, appartenenti tutti a un unico ciclo. Nonostante si tratti di solo tre titoli, ha conosciuto fin da subito un successo enorme, non solo in patria, ma ovunque: i suoi romanzi sono stati tradotti in ben diciassette lingue.

Attualmente vive a Madrid, dove lavora presso una radio come critico gastronomico, ma naturalmente collabora anche come giornalista e scrittore con diversi mezzi di comunicazione a stampa. Inoltre, Villar lavora come sceneggiatore per il cinema e la televisione.

Interessante il suo ruolo di critico gastronomico, che tuttavia -e direi per fortuna- non si riflette nei suoi romanzi. Ormai pare sia una moda che tutti i detective, si tratti di operatori privati o della polizia, siano anche dei gourmet o quanto meno degli appassionati di cibo. La moda, lanciata da Vazquez Montalban e ripresa da Camilleri, sembra aver contagiato gran parte degli scrittori di romanzi polizieschi. Leo Caldas, l’ispettore protagonista dei tre romanzi di Villar, tutti come già detto appartenenti ad un unico ciclo, è fortunatamente immune da questa mania. Mangia in bar del porto o, alla bisogna, in qualunque posto trovi a portata di mano, come accade nella realtà a chi lavora; gli piace il vino ma beve, oltre a quello sfuso delle taverne, il vino prodotto da suo padre, vino fatto in casa con sorti alterne, anche se negli anni il genitore ha affinato le sue capacità di vinificazione. Insomma, nessuna spocchia da fine intenditore eno-gastronomico. Il che me lo ha reso subito simpatico.

Sorprende, nelle opere di Villar, la descrizione fedele e autentica della Galizia contemporanea, senza romanticismo o colorature poetiche. Tutti i suoi romanzi, come indicano chiaramente i titoli, sono legati al mare: Ollos de auga, A praia dos afogados, O ultimo barco, pubblicati in Italia con i titoli Occhi di acqua, La spiaggia degli affogati, L’ultimo traghetto. E l’ambiente del porto, nella sua autenticità e nella sua crudezza e durezza, è quello che meglio viene disegnato dalle abili mani del narratore. Un mondo dove persone umili e dure si guadagnano da vivere giorno per giorno, senza difficoltà enormi, ma nemmeno in maniera facile. Tutto descritto in maniera autentica, immediata, senza filtri. Sorprende, tale genuinità, soprattutto considerando che ormai Villar vive a Madrid, lontano dai luoghi in cui ambienta i suoi romanzi. Anche i suoi personaggi mi azzarderei a definirli quotidiani. In fondo, anche se ci è simpatico, Leo Caldas è un ispettore tutto sommato anonimo, senza nessuna particolare qualità se non il voler svolgere in modo corretto il suo lavoro; non improvvisa, non rompe le regole. Ha un matrimonio fallito alle spalle, che vorrebbe dimenticare non perché non ami più la sua ex, ma perché, nel suo essere ordinario, non sa come riallacciare i rapporti. Insomma, un individuo qualunque, uno come noi. Un po’ più forzata la descrizione del suo diretto collaboratore e aiutante, l’agente Rafael Estévez, un omaccione enorme venuto da Saragozza che incontra, ancora dopo tre romanzi e ormai quindici anni, difficoltà a ambientarsi in Galizia, scontrandosi con tutti i luoghi comuni, anche se qualche volta rispondenti al vero, che si narrano sui galeghi. Non capisce la “retranca”, il particolare senso dell’ironia tipico degli abitanti della Galizia; e non capisce il loro rispondere alle domande con altre domande o con domande retoriche, cosa che lo manda letteralmente in bestia. Inoltre, nonostante non sia poi così vecchio, è un poliziotto della vecchia scuola, chissà un po’ nostalgico di certi vecchi tempi anche se velatamente, incline alla violenza sui sospettati, cosa che mette spesso nei guai il distretto di Polizia presso cui lavorano lui e Caldas. Compito dell’ispettore è anche mitigare le intemperanze del suo braccio destro, che non ha scelto ma gli è stato assegnato dal loro capo.

Capo che risponde al nome di Soto, commissario Soto, anche lui descritto come un superiore normale, nessuna simpatia o antipatia particolare per l’ispettore, il classico funzionario di Polizia che si barcamena tra il mantenere l’ordine e il dover rispondere alla politica in senso ampio. Assieme a lui, comprimari fissi nelle narrazioni sono Clara Barcia, la capace e empatica esperta della scientifica, che spesso dà una mano a risolvere le indagini anche se, come nella realtà, la scientifica non è mai risolutiva, ma al massimo indirizza nella giusta direzione. Poi c’è Carlos, il taverniere dell’Elixio, che spesso condivide un bicchiere di vino e una chiacchierata da amico con l’ispettore; Cristina, del Bar Puerto, dove Caldas mangia quando non può andare all’Elixio. Il padre di Caldas, preoccupato per il divorzio del figlio e che odia la città, vorrebbe che Caldas la lasciasse per trasferirsi in campagna, magari da lui. Infine, lo staff della radio con la quale l’ispettore suo malgrado, e per ordine del suo superiore, collabora, partecipando come co-conduttore alla trasmissione “Pattuglia in onda”, in cui i cittadini possono parlare direttamente con la polizia. Il patròn della radio e conduttore della trasmissione, affiancato da Caldas, è decisamente antipatico e spesso lui e l’ispettore si scontrano; mentre buono è il rapporto con Rebeca, l’assistente della radio che prepara l’ispettore e gli lascia l’elenco delle chiamate. Ma la verità è che la trasmissione funziona, sembra che la seguino tutti e questo fa sì che l’ispettore sia conosciuto un po’ in tutta la provincia,  accattivandosi la simpatia dei cittadini, fattore che non di rado lo aiuta nelle indagini.

 

Domingo Villar, ormai sei un autore internazionale, tradotto  in tutto il mondo. Ti faccio una domanda sciocca: come vivi la fama?

La fama letteraria è sempre relativa. Uno potrebbe stare in metro, seduto accanto a John Irving o a Norman Mailer, senza riconoscerli, perciò non è niente di che. Quello che noto è una grande dimostrazione di affetto da parte dei lettori negli incontri e nelle fiere. La cosa è cambiata, anche se l’affetto è lo stesso, prima veniva molta meno gente. Ma lo vivo molto bene, cerco di continuare a vedere ogni lettore come unico, i libri vengono scritti e si leggono come se fossero creati per ogni singolo lettore e spero che tutto continui così.

Preferisci essere considerato un autore galego o castigliano? Oppure la cosa ti è indifferente?

Per me è abbastanza indifferente. Io sono vighese, sono galego, sono spagnolo, sono europeo e sono cittadino del mondo e penso di potermi riconoscere in ciascuna di queste definizioni. Ho sempre pensato di essere uno che non si fa etichettare. Se per essere vighese pretendessero che smettessi di essere qualche altra cosa, allora preferisco non essere più vighese. Io credo che fuori non si capisca fino in fondo cosa significhi essere galego, così come mi rendo conto che tutto risponde più che altro a esigenze commerciali delle case editrici. Io vivo a Madrid da molti anni, ma sono completamente galego dalla testa ai piedi, sono un figlio della “Ria”.

Ti costa scrivere in galego?

No, al contrario, a livello emozionale mi fa sentire di essere esattamente nel posto dove voglio essere ogni volta che mi siedo a scrivere. Inoltre il galego ha un grande vantaggio, le sue sonorità. Ho sempre pensato che il galego, assieme all’italiano e al portoghese brasiliano, sia una delle tre lingue romanze che ha le sonorità più belle. Man mano che scrivo, ho l’abitudine di leggere ad  alta voce e lo scrivere in galego mi crea l’illusione di star scrivendo meglio di quanto non stia facendo in realtà.

Perché hai lasciato la Galizia? Noi siamo italiani, parlo per me e per molto miei amici, che della Galizia ci siamo innamorati e ci abbiamo vissuto per anni e ora sogniamo sempre di poterci tornare; tu invece che ci sei nato te ne sei andato. Eppure dalle tue pagine traspare il profondo amore che hai per la tua terra. Allora la domanda è quasi banale: perché non ci torni?

Me ne sono andato perché mia moglie, che è di Teruel, ha avuto una buona opportunità di lavoro. Per lei il legame con Galizia non era lo stesso che avevo io, così quando le fecero la proposta per il lavoro ci sedemmo a valutare la cosa. Lei non era neppure abituata alla pioggia, l’ultimo anno che siamo stati lì era il 2000, un anno in cui ha piovuto una volta sola, ma da ottobre fino ad aprile, sei mesi senza mai smettere, e lei mi chiese di portarla via di lì perché per lei era terribile. Così siamo venuti a Madrid, io avevo studiato a Madrid e a dirla tutta io e lei ci eravamo conosciuti qui. Me ne sono andato per amore, ma ogni volta che posso torno in Galizia.

Al di là del posto in cui sei nato e che conservi nel cuore, cosa rappresenta Vigo? Non la Vigo reale, l’importante crocevia navale e industriale, ma la Vigo che reinventi nei tuoi romanzi, lo sfondo e la scenografia su cui si muovono i personaggi delle tue storie.

Da un lato è un territorio ideale per scrivere un romanzo giallo, una città grande, urbana eppure rurale allo stesso tempo, con un mare impetuoso, ma tranquillo all’interno della Ria, riparato dalle Isole Cíes, vicino a una linea di frontiera e con un porto dal quale può entrare qualunque mercanzia; uno scenario ideale. Al di là di questo, per me è un territorio emozionale che mi riporta all’infanzia e mi permette di parlare degli odori, del profumo delle cose, mi permette, a livello emozionale, di tornare in un mondo in cui ero felice. Inoltre, ho sempre pensato che scrivere di un luogo molto concreto è l’unico modo per fare una letteratura che sia comprensibile ovunque nel mondo, di fare letteratura universale. Credo che sarei incapace di scrivere di qualunque altro posto, ogni volta che mi siedo a scrivere e chiudo gli occhi, vedo la Ria, la tavola piena di cose, le feste, gli alalás[1]; è la mia terra.

Gli odori sono quelli che ti portano ovunque, ci sono odori per me inconfondibili, per esempio la mia infanzia è un odore di mare e di fichi, appena annuso un fico torno immediatamente a quando avevo dieci anni.

Mi permetto un parallelo audace: la tua descrizione di Vigo mi ricorda un po’ quella di Ourense di Blanco Amor, un autore che io amo particolarmente. Non nel senso che avete lo stesso stile, ma che descrivete una città non così com’è, ma come la ricordate e forse la immaginate. In pratica, la reinventate attraverso i vostri ricordi.

Io non pretendo di fare una descrizione topografica della città, quello che voglio è fare una descrizione emozionale. Scrivo attraverso i ricordi e i ricordi quando sono affettivi mentono sempre e mentono a fin di bene, mascherano un po’ la realtà e la abbelliscono. Io spesso torno nella mia città, passeggio per le vie e mi guardo intorno e penso di aver esagerato nel descrivere le cose, penso che da quel punto non si vede il mare, come invece ho raccontato, ma per me invece si vede, è sempre presente. La realtà è un po’ diversa. Quando rifletto su questo mi rendo conto che io effettivamente sono di mare. A Vigo accogliamo migliaia di turisti, di villeggianti, e io mi innamoravo sempre di qualcuna delle ragazze in vacanza. All’epoca non c’erano internet e le reti sociali, c’erano le lettere e trascorrevi l’anno immaginando quella ragazza, pensando a lei, e quando ritornava era bella, ma aveva ben poco a che fare con quella magnifica che si era reinventata la tua immaginazione. Mi succede un po’ lo stesso con la città, poiché ne sono innamorato la ricordo più bella di quanto non sia e così è come la descrivo.

 

Quindi quando torni a Vigo la trovi molto diversa da come la ricordi?

Sì, naturalmente, quando torno a Vigo mi accorgo di essermi lasciato prendere un po’ la mano nel descrivere le cose, che è come se l’avessi ritoccata con Photoshop.

La struttura dei tuoi romanzi: capitoli brevi, paragrafi ancora più brevi, dove la paratassi prevale sull’ipotassi. È semplicemente il tuo stile, cioè scrivi così di getto, oppure una scelta consapevole per rendere la lettura più fluida, per chiedere uno sforzo minore al lettore e dunque avvicinare più persone ai tuoi romanzi?

Anche se può sembrare impossibile, dato che ho un romanzo di 800 pagine, non riesco a scrivere niente di eccessivamente lungo. Se penso a ciò che devo scrivere senza riuscire a intravederne la fine è come se mi gettassi a nuoto senza riuscire a vedere l’altra sponda del fiume, affogo perché mi abbandonano le forze, non so dove dirigermi. Con la letteratura mi succede qualcosa di simile, sono in grado di scrivere un capitolo corto, come il gradino di una scala, e allora gradino dopo gradino sono capace di salire fino all’infinito. Ma non sono capace di scrivere niente che mi porti troppo lontano, mi perdo, comincerei a divagare allontanandomi dalla meta verso cui mi stavo dirigendo. Noi che scriviamo romanzi polizieschi abbiamo sempre due vocine che ci bisbigliano nelle orecchie, una che ci dice di avere maggiori ambizioni letterarie, di fare una letteratura più altisonante e l’altra vocina che ci dice di fare attenzione perché l’ipotassi in letteratura può essere come un bastone fra le ruote della narrazione che può interrompersi; allora cerco sempre di mantenermi in equilibrio fra le due cose. I miei tre romanzi li ho scritti racconto dopo racconto, ogni capitolo come se fosse un racconto, solo così, racconto dopo racconto, posso arrivare dovunque.

Ma quando scrivi sai già chi è il colpevole.

Sì, naturalmente so cosa è successo, ho un’idea in testa, più o meno, prendo molte note, butto giù molti appunti, però poi la letteratura prende il comando e spesso mi perdo, mi allontano dall’itinerario previsto, prendo altre strade, e compaiono personaggi che prendono vita e che hanno più sostanza di quella che avevo previsto. La letteratura ha un che di improvvisazione, per questo penso che è assai difficile imparare a scrivere in una scuola, in un corso, non si può imparare l’improvvisazione, è qualcosa che bisogna sentire, e quando arrivi a un incrocio devi saper prendere il giusto cammino, scegliere tra i diversi sentieri e a quel punto decidere dove va la storia.

È ovvio che sin dal principio io ho ben chiaro chi è stato a uccidere, ma la strada per arrivarci a volte percorre sentieri diversi da quelli che avevo previsto.

Ho sempre paragonato il romanzo poliziesco a una canzone di Vinícius de Moraes che si chiama Samba em preludio, che fa parte del disco famoso intitolato La fusa, in cui canta con Maria Creuza e Toquinho. È una canzone di amore, o di disamore, prima canta lui, poi canta lei e infine cantano insieme e le melodie convergono. In un romanzo giallo c’è una storia che è la storia dell’indagine e un’altra storia che è la storia del crimine. Quando comincio a scrivere conosco la storia del crimine, mentre la storia dell’indagine prende corpo mentre scrivo e mi porta per cammini diversi fino a che gli ultimi passi camminano insieme quando viene svelato il finale, quando si scopre il crimine, allora camminano mano nella mano come in Samba em preludio di Vinícius de Moraes.

Nei tuoi romanzi affermi esserci molto il Montalbano di Camilleri. Io invece ci vedo molto di più il Maigret di Simenon.

È possibile. Ho letto con devozione entrambi, Camilleri e Simenon, oltre a Fred Vargas e a  Dürrenmatt, che mi piace moltissimo; ma la verità è che Camilleri per me è stato determinante, perché è l’autore che mi ha insegnato che si poteva fare autentica letteratura con il pretesto di un’indagine su un crimine, che si poteva fare letteratura amena ma allo stesso tempo colta e profonda, ambiziosa eppure divertente e di svago, il tutto con la scusa di un’indagine di polizia. E che si poteva spiegare come va il mondo da un cantuccio del sud-est di un’isola, da quella Vigata che dovrebbe trovarsi tra Noto, Modica e Ragusa, che da lì si potevano trarre romanzi che parlassero della vita interiore e di quella esteriore, sempre solo con il pretesto di un’indagine investigativa. Leggendo Camilleri ho pensato “se quest’uomo racconta il mondo da un cantuccio di un’isola del Mediterraneo, perché non posso raccontarlo io, il mondo, dalla Galizia, dalla Ria, che ha una personalità così decisa. E non c’è dubbio che Camilleri mi ha dato quell’impulso che mi ha spinto a scrivere romanzi polizieschi; scrivevo già, anche se racconti, fin da quando ero un ragazzo, nessuno dei miei insegnanti è sorpreso da quello che faccio; la differenza è che prima lo sapevamo solo io e una cerchia ristretta, adesso lo sa molta più gente.

Pensavo proprio a questo, hai trovato la forza di scrivere solo grazie a Camilleri e oggi vieni tradotto in mezzo mondo. Hai un bel debito di riconoscenza con lui.

Gli devo moltissimo. A dirla tutta, quando stavo scrivendo O ultimo barco ho avuto un grosso blocco e Camilleri, ci siamo incontrati sia a Barcellona sia a Roma, con la sua sigaretta mi ripeteva “Domingo, non aver paura, la letteratura è il tuo mestiere, hai talento, dimenticati di tutto e racconta la storia, pensa ai personaggi e tira dritto, andrà tutto bene”. Non ho mai dimenticato quelle parole di Andrea.

Non ho letto le traduzioni galeghe di Camilleri, ma saprai che non scrive i suoi romanzi in italiano, ma in un siciliano in parte inventato; però in Italia ha successo anche se non tutti capiscono tutto, funziona benissimo

Credevo che solo Catarella e pochi altri personaggi parlassero in siciliano o con queste parole che terminano in “u”, ma il narratore racconta in italiano?

Non sempre, però i dialoghi, che in Camilleri sono molto importanti, sono in questa lingua di Camilleri. Quali sono le tue fonti di ispirazione? Hai autori di poliziesco che ami particolarmente?

Mi piace moltissimo  Cormac McCarthy, mi piace  Dennis Lehane e mi piace moltissimo John Irving. Posso dire che non appena esce un libro di uno di questi due autori, Cormac McCarthy e  John Irving, corro a comprarlo. Tra gli spagnoli mi piace molto Antonio Muñoz Molina, ma a dire la verità sono decisamente onnivoro. Io colleziono due libri, uno è l’Isola del tesoro di Robert Louis Stevenson e l’altro è Il falcone maltese di Dashiell Hammett.

La coppia Caldas-Estevez è particolare, più che Holmes-Watson sembra vicina a Montalbano-Augello, anche se spesso Estevez ha più i tratti di Catarella.

A volte sì. Che siano in due è qualcosa di naturale, con una spiegazione evidente: quando si chiama la polizia vengono sempre in due, per sicurezza, non l’ho inventato io e neppure nessun altro autore. Ma il bello di Estevez è che mi permette di raccontare com’è il mio mondo. Io parlo della Galizia, scrivo in galego e racconto cose che per i galeghi sono scontate, ma grazie a Estevez posso raccontarle a un lettore che non sa come funzionano le nasse o quali sono i nostri costumi senza bisogno che sia il narratore a spiegarlo; non avrebbe senso in galego, parlando per i galeghi che io spiegassi l’arte della pesca o della vendemmia o quali sono le fasi della campagna, dell’uva e della vigna. Tuttavia quello che posso fare è avere un forestiero che non capisce alcune cose e ciò che non capisce, ciò che lo sorprende, lo chiede e così, senza bisogno di grandi descrizioni, attraverso semplici dialoghi, in cui i personaggi raccontano a Estevez quello che non capisce, io posso raccontarlo a un lettore che non ne sa niente. Estevez venendo da fuori mi permette di raccontare com’è la Galizia, mi permette di vedere la mia città e la mia terra con gli occhi di chi è appena arrivato.

Se è vero che in tutto il mondo il poliziesco sta conoscendo un momento molto favorevole, è ancora più vero in Galizia. Penso a Francisco Castro, Xabier Quiroga e moltissimi altri. Ti dai una spiegazione?

Non ne sono sicuro, ma la mia terra, Galizia, per la creatività è un posto con una materia prima di qualità eccelsa. A poco a poco, il poliziesco si sta affermando come il romanzo epico del XXI secolo. Credo che se vivessero oggi, Dumas o Dickens scriverebbero romanzi polizieschi e racconterebbero il mondo a partire da un romanzo poliziesco. Per cui è normale che anche i miei connazionali si avvicinino a questo modo di descrivere i luoghi, partendo da un crimine e partendo da un’indagine. Poi immagino che ci siano lettori che si entusiasmano all’idea di leggere romanzi ambientati nella nostra terra, sto parlando di lettori galeghi, e questo crea un seguito; poi suppongo che gli editori scommettono sul poliziesco perché ci sono molti casi di successo e loro cercano libri che si possano vendere con facilità.

Leggi i polizieschi dei tuoi connazionali galeghi? A chi ti senti più vicino?

Qualcuno. Per esempio un libro che mi piace molto è Ganga di  Antón Lopo. Dei miei coetanei sono buon amico e lettore, per esempio, di Pedro Feijoo, leggo Inma Lopez Silva e Rosa Aneiros, considero Resistencia uno dei grandi libri degli ultimi anni. Xesús Manuel Marcos è un autore che non ha il successo che meriterebbe, a me piace moltissimo e penso che dovrebbe essere più apprezzato. Naturalmente amo Manuel Rivas, che anche se non scrive polizieschi, usa atmosfere non dissimili, pensiamo per esempio a Que me queres amor che per me è quello più notevole, ma anche Os libros arden mal, in cui sì che c’è un mistero, c’è una fuga e la ricerca di qualcosa, insomma un mondo sotto una maschera molto vicina al giallo,  non una vera e propria inchiesta di polizia, ma c’è una sorta di indagine, non lo vedo così distante.

In qualche intervista hai affermato che usi il poliziesco per parlare di tutto, di nuovo la stessa cosa che faceva Simenon. E tu lo fai in maniera egregia: tra le righe dell’indagine, io amo molto di più le riflessioni sulla solitudine in cui tutti viviamo, il rapporto tra padre e figlio, la preoccupazione per un mondo sempre più attento al materiale e meno allo spirituale e quella per lo spazio concesso ogni giorno di meno alla cultura e alla conoscenza, che spesso spinge le persone più sapienti e sagge in una condizione di emarginazione. Inutile che ti dica che ho amato particolarmente il personaggio di Napoleon. Allora il poliziesco è solo un mezzo per parlare di altro, oppure è la tua forma espressiva in cui riesci anche a parlare di altro? Lo so, è una domanda contorta.

Entrambe le cose. Da una parte è la scusa che ho per andare avanti, dall’altra la forma del romanzo poliziesco è quella che mi consente di avere una spina dorsale che tenga insieme tutti questi racconti di cui io parlo nei diversi capitoli, è il filo che cuce assieme i vari capitoli e fa che ci sia unità. L’unità è l’indagine di polizia, ma a cui sono appese molte cose diverse. Credo che l’elemento più valido della mia letteratura non siano le trame poliziesche, ci sono colleghi che ci sanno fare molto meglio di me, credo che i miei romanzi in qualche modo parlino di ciò che abbiamo dentro, della famiglia e dei nostri piccoli mondi, come si sviluppano e come mutano. Di tutte le pagine dei libri di Caldas quelle che più mi piacciono sono quelle in cui Caldas è con suo padre, il cane disteso ai loro piedi, e insieme cercano di guardare le stelle e scoprire dove cavolo sono le Leonidi, senza averne la più pallida idea, e parlano delle cose della vita e parlano anche, in maniera marginale, dell’indagine che sta conducendo Caldas, con il padre che lo mette di fronte a uno specchio per cercare di far ripartire la sua vita.  Mi piace questa sensazione di un Leo Caldas che va a cercare suo padre perché sente che può essere solo e sentirsi abbandonato, ma poi è lui che trova un rifugio, trova calore, è la cosa dei miei libri che mi piace di più. Ma è difficile riflettere sul proprio lavoro, semplicemente lo si fa e non c’è una volontà estetica o tematica, più che altro si tratta di intuizione, si tratta di sedersi e mettersi a scrivere, costruire la storia poco a poco, correggere, pensarci su e vivere questa vita in prestito che è un libro. A me piace stare comodo dentro una storia, sentirmi a mio agio, un po’ come cullato dalla mamma ed è in questo modo che costruisco i miei libri.

Il cibo. Uno dei motivi per cui ho amato il tuo personaggio è perché in fondo non è un gourmet. Diciamo che sono stanco dei protagonisti che si ergono a profondi esperti di cucina. Andava bene all’inizio, quando era una novità, per esempio con il Pepe Carvalho di Montalbán; poi basta. Camilleri fa dei passi avanti, ma non ancora sufficienti, il suo Montalbano dà ancora troppa importanza al cibo, anche se per fortuna più che un gourmet, ama la cucina della sua terra, della Sicilia. Il tuo Leo Caldas, pur apprezzando particolarmente la cucina galega, non ne fa però una religione; anche se ha locali che predilige, mangia un po’ dove gli capita e non è particolarmente esigente con il cibo. E tutto sommato neppure con il vino. La mia analisi è sbagliata?

No, la religione di Caldas è più che altro quella del vino. Ma il vino di suo padre o il vino buono della sua terra, se gli regalano una bottiglia di quelle costose è capace che la regala a qualcun altro.

Il tempo meteorologico e le stagioni. Ogni romanzo è ambientato in un diverso periodo dell’anno: Ollos de auga in primavera, A praia dos afogados in autunno e in O ultimo barco è quasi inverno. Il prossimo sarà un romanzo ambientato in estate?

No, di nuovo in inverno; a dirla tutta, al momento il manoscritto si chiama Ondas de inverno, ma non so come si chiamerà poi, ho bisogno di avere un nome per avere la sensazione di stare scrivendo qualcosa, che non è semplicemente un testo, e al momento si intitola così, ho già buttato giù i primi appunti, naturalmente sarà ambientato in Galizia, a Santa María de Oia, tra Baiona e A Guarda, lungo quella costa così agreste, con i petroglifi del Monte da Groba e con le onde di quel mare piene di surfisti. Il tempo, le stagioni, non erano qualcosa di calcolato, ma se volevo parlare della scuola di arti e mestieri non potevo farlo d’estate dato che è chiusa e se voglio parlare del mare, della riva del mare mezza vuota, senza troppa gente, non posso farlo in primavera o in estate perché sarebbe stipata di gente, allora devo rifugiarmi in territori più invernali in cui mi trovo più a mio agio e nei quali, inoltre, Galizia è molto più fotogenica.

Tra l’altro, nei tuoi romanzi la pioggia, questo luogo comune della Galizia, è molto meno presente di quanto ci aspetteremmo: una denuncia dei cambiamenti climatici oppure solo un modo per sfatare un trito luogo comune?

No, quella che compare è la pioggia intermittente, quella, per esempio, che Estevez  non riesce a sopportare, il fatto che all’improvviso si mette a piovere, poi di colpo fa caldo, quella pioggia che conosciamo bene  noi che viviamo al Sud. Chi come te ha vissuto a Santiago è abituato a quel manto di pioggerellina, una pioggia fine fine che non smette mai; a Vigo è diverso, le nuvole passano, scaricano e se ne vanno, poi torna il sole. Possiamo avere praticamente tutte le stagioni nella stessa giornata. Perciò la pioggia  è una protagonista, ma relativamente, è un po’ un invitato speciale, fa la sua comparsa ogni giorno, ma non è sempre presente, non è uno sfondo costante. Lo sfondo, la scenografia è proprio questo clima in costante cambiamento che tanto fa imbestialire Estevez,

Ollos de auga conta 248 pagine, A praia dos afogados 504 e O ultimo barco 800. Il prossimo romanzo si aggirerà sulle 2000 pagine?

Spero di no, la cosa è degenerata, spero di fare qualcosa di più tranquillo. Se ci pensi, O ultimo barco ha avuto delle recensioni meravigliose, i cacciatori di talenti di tutte le lingue caldeggiano la sua pubblicazione, eppure è quello che ha incontrato più difficoltà a essere tradotto proprio per essere così lungo.

Ti confesso che personalmente ho sofferto molto la lunghezza del terzo romanzo. Non ho niente contro i romanzi lunghi, ma spesso sembra che più un autore diventi famoso più senta l’esigenza di scrivere libri voluminosi. Non è solo il tuo caso, si tratta di una peculiarità diffusa e che ho notato in particolare negli autori contemporanei galeghi. Non credi sia il caso di tornare a dimensioni più ridotte? Non ti nascondo che, se pure ho terminato O ultimo barco in poco tempo e ho apprezzato il romanzo, in alcuni momenti la noia ha prevalso sul piacere della lettura. Cosa che non è successa con Ollos de auga e neppure con le oltre 500 pagine di A praia dos afogados.

Ne O ultimo barco mi trovavo in una particolare situazione emotiva, avevo appena perso mio padre e volevo che Caldas si trovasse in una situazione simile, quella in cui prima o poi si trovano tutti quelli che hanno la fortuna di diventare adulti e di avere ancora i genitori in vita, si tratta del giorno in cui un padre smette di essere un rifugio per iniziare a essere motivo di preoccupazione. Probabilmente il romanzo si è attorcigliato troppo intorno al tema dei padri e dei figli, è pieno di padri e di figli, Monica Andrade e suo padre con la sua madre silenziosa, Camilo e i suoi genitori, Elvira con il suo, perfino Oscar, il ragazzo che studia nella scuola, e Estevez con quel figlio che deve ancora nascere.

La domanda delle domande, il trionfo della banalità: “Madame Bovary c’est moi”. Quanto c’è di Domingo Villar in Leo Caldas? E quanto di tuo padre e del vostro rapporto nel padre dell’ispettore e nel loro rapporto?

Credo non molto, anche se a dire la verità mio padre, fino a quando è vissuto, mi ha sempre proibito di uccidere il padre di Leo Caldas, mi diceva “tu non ucciderlo”, io gli rispondevo “ma papà, non sei tu, è letteratura”, e lui “fa lo stesso, tu non ucciderlo”. E siamo messi così, non l’ho mai ucciso. Lo stesso mi è successo con Carlos, il taverniere della taverna di Elixio, è morto, ma al cimitero ho promesso alla sua vedova che nei miei libri non sarebbe mai morto, fino a quando scriverò romanzi con Caldas, Carlos sarà assieme a lui, dall’altro lato del bancone.

Io e Caldas siamo nati sulla riva della stessa ria, nella stessa città, quindi immagino che abbiamo dei riferimenti in comune; entrambi siamo figli di viticoltori, ma viticoltori che hanno scoperto tardi la loro vocazione; entrambi collaboriamo con la radio, io ho parlato per anni di gastronomia e poi mi sono dedicato alla critica letteraria per la Radio Nazionale Spagnola, adesso seguo le partite del Celta per Radio Marca. La radio mi ha messo in situazioni assurde, perfino i miei amici più intimi mi chiedevano cose che pensavano che io dovessi sapere solo perché lavoravo in radio, come se questo mi mettesse in una condizione intellettuale privilegiata, quando invece loro mi conoscevano più che bene ed era chiaro quanto fosse assurdo che mi facessero le domande che mi facevano, tipo “vado in viaggio di nozze in Vietnam, dove posso mangiare in Vietnam?”, al che rispondevo “per favore, non dire sciocchezze”. Per questo Caldas partecipa a una trasmissione radiofonica in cui non ha niente da dire, niente è di sua competenza, lui si occupa di omicidi e rapine e lì si parla di strade, semafori, perdite d’acqua e roba del genere, tutte cose che non lo riguardano. Immagino che tutto questo io e Caldas lo abbiamo in comune, ma non lo vedo come una mia copia letteraria, al contrario, lo sto conoscendo poco a poco, con il tempo, e man mano che lo conosco mi innamoro sempre un po’ di più di lui, del suo modo di essere. Dietro quest’individuo un po’ malinconico, che può sembrare un po’ triste, c’è una persona enormemente compassionevole, che sa di trovarsi in una posizione dalla quale può mitigare il dolore altrui ed è a questo che si dedica con passione, più che a compiere rigidamente il proprio dovere; quello che vuole fare è mitigare la sofferenza delle persone poiché sa di essere nella posizione di poterlo fare. E per questo essere compassionevole di Caldas lo ammiro sempre di più, non mi aspettavo fosse così, non sapevo se sarebbe diventato più frivolo o cosa, non sapevo quale sarebbe stata la sua evoluzione, ma ogni giorno di più ho voglia di passare sempre più tempo con lui, mi sembra uno di cui ci si può fidare.

Mi ha incuriosito la biblioteca di Luis Reigosa, la vittima di Ollos de auga: quanti di quei libri appartengono anche alla biblioteca di Domingo Villar?

Qualcuno. Quelli di Camilleri, naturalmente, alcuni di Kant e di Hegel, insomma diciamo che alcuni di quei libri stanno anche a casa mia, così come i dischi che ha. A me piace molto la musica e lavoro con la musica, musica in cui non si parla, deve essere solo strumentale. Infatti, Ollos de auga l’ho scritto tutto con un disco di un contrabbassista di Ferrol che si chiama Baldo Martinez, A praia dos afogados l’ho scritto ascoltando Le onde di Ludovico Einaudi e O ultimo barco quasi tutto ascoltando Bill Evans, il pianista. Adesso sto con Hania Rani, una pianista polacca, e con Joep Beving, un altro pianista, olandese, che mi fanno compagnia in questo periodo. E suppongo che tutte queste cose finiscano per intrufolarsi nei romanzi.

Io amo più il violino che il piano.

Ma il violino è troppo stridente per scrivere. Il violino sembra parlare, quando scrivo mi crea più distorsione. Amo il violino, ma non per lavorare.

Parliamo del processo di autotraduzione. Sono di quelli che pensano che un autore, anche se bilingue o diglossico, dovrebbe scegliere di esprimersi in una sola delle due lingue e lasciare che gli altri lo traducano, altrimenti ci troveremmo di fronte più che a una traduzione a una riscrittura del romanzo; per di più filologicamente la seconda scrittura (ovvero l’opera tradotta) sarebbe prevalente rispetto alla prima perché più recente, frutto di una rielaborazione autoriale, quindi della volontà ultima dell’autore. Perché ti autotraduci?

Sono d’accordo con quanto dici, hai perfettamente ragione. Credo che l’ultima versione sia quella buona, ma versione ultima sono entrambe perché io non scrivo il romanzo in galego e poi lo scrivo in castigliano e ciò che era in galego rimane, così come rimane ciò che è in castigliano; dopo il castigliano ritorno al galego di nuovo. Finisco contemporaneamente entrambe le versioni e procedo traducendo il libro racconto dopo racconto, capitolo dopo capitolo. Vedi, lo traduco perché sono un insicuro, perché sono enormemente fragile e scrivere in due lingue mi permette di filtrare due volte il testo, di modo che la maggior parte delle scorie, la maggior parte della posa rimanga nel filtro e il romanzo sia più liquido; e tu sai bene che tradurre non è semplicemente sostituire una parola con un’altra, neppure passando dal galego allo spagnolo, che pure sono due lingue molto simili. Tradurre significa scomporre il testo e ricrearlo e rimarresti sorpreso da quante cose mi erano sfuggite la prima volta che  ho scritto il testo, nella prima stesura; è un testo grezzo e quando lo traduco noto tantissime cose che vanno modificate, che devo cambiare e che capisco che devono evolversi e muoversi in tutt’altro modo. Preferisco lavorare così. Inoltre io vivo a Madrid dall’89, tranne i due anni tra il 1998 e il 2000 in cui abbiamo vissuto a Vigo, dunque ho trascorso la mia vita più a Madrid che a Vigo. La mia famiglia, mia moglie, è di Teruel e con i miei amici di qui parlo in castigliano. La mia vita trascorre quasi per il 98% in castigliano. Tuttavia, scrivere in galego mi permette, a livello emozionale, di essere nel luogo dove voglio essere. Però per esempio ho paura che i dialoghi in galego suonino troppo antiquati, ho paura di far parlar i personaggi nel galego del 1998 invece di farli parlare nel galego di oggi, perché io non lo parlo abitualmente, parlo con i miei editori, con qualche amico e cose del genere, ma non sono per strada ad ascoltare come si è evoluto il galego e come lo parlano oggi. Ma ho deciso di fare così e non me ne pento, anche se penso che hai ragione, che è una sorta di perversione ed è vero che bisognerebbe lasciare che fosse un altro a farlo, a tradurre, ma io credo in questo modo di arricchire le due versioni del libro, che alla fine quelle che io porto a termine sono due versioni originali, ho due manoscritti originali in due lingue, sono stati lavorati insieme, a mano a mano, viaggiando da una lingua all’altra. Traduco capitolo per capitolo, racconto dopo racconto. Quello che faccio è iniziare in galego, passo al castigliano, se ho dei dubbi con il galego ripasso al castigliano e poi torno dal castigliano al galego… la cosa va e viene continuamente da un lato all’altro, da una lingua all’altra.

Ora invece una domanda che riguarda più me che te. In italiano vieni tradotto dal castigliano. Eppure qui abbiamo ottimi traduttori e traduttrici dal galego. Rivas, Conde, Castro, Riveiro Coello, Moure, Reimondez, etc, sono stati tutti tradotti dal galego. Rivas in particolare, all’inizio, condusse una piccola battaglia assieme a noi per convincere Feltrinelli a tradurlo direttamente dal galego e non più dal castigliano. Non ti senti coinvolto? Non credi che proprio per sottolineare l’appartenenza a quella Galizia che per te è tanto importante descrivere nei tuoi romanzi come espressione delle tue radici (e che descrivi così bene) sarebbe più utile e opportuno, anche più “sinxelo” che tu fossi tradotto dal galego, se ci sono traduttori in grado di farlo?

Potrebbe essere. Ci sono due cose: una è che, come hai appena detto, Manolo è l’autore dei suoi libri in galego, non è autore dei suoi libri in castigliano, la versione in castigliano è una traduzione. Nel mio caso entrambe sono due versioni originali. Io sempre, sempre raccomando che mi traducano dal galego, sempre, ma poi a decidere sono gli editori. A me quando chiedono una raccomandazione rispondo sempre che mi piace di più la storia in galego, ha un non so che in più. Ma la decisione non è mai stata mia. In inglese vengo tradotto da una traduttrice che traduce sia dal galego, sia dal castigliano; ma non so da quale versione mi traduce, sfugge al mio controllo. Ma di fatto l’avere due versioni originali mi dà un po’ più di tranquillità, quando penso che se mi traducono dal castigliano non stanno stravolgendo l’opera perché entrambe sono mie versioni. Però sì, preferirei che mi traducessero dal galego.

A praia dos afogados lo pubblichi tre anni dopo il primo romanzo, Ollos de auga; ma per il terzo, O ultimo barco, abbiamo dovuto aspettare 10 anni. Come mai?

È successo che avevo un romanzo già pronto di cinquecento pagine, doveva intitolarsi Cruces de pedra, croci di pietra, e sarebbe dovuto uscire nel 2013; mentre lo stavo correggendo, rivedendolo e rivoltandolo, non ero del tutto convinto, proprio in quei giorni morì mio padre, di modo che emozionalmente io stavo qui (indica in alto con la mano) e il mio libro stava qui (indica in basso con la mano). C’era un abisso emozionale tra me e il libro e avevo diverse opzioni.  O ultimo barco parla dei liutai e mi trovavo nella stessa situazione in cui può trovarsi un liutaio: costruiscono strumenti e c’è il rischio che qualche strumento non venga fuori come si deve. Tu fai un violino e se il violino non suona come dovrebbe hai tre alternative: una è levigare, lavorare il legno per cercare quella sonorità che non hai trovato in un primo momento; la seconda opzione è consegnare il violino e lasciare che il musicista lo suoni sperando che non si accorga che non suona come dovrebbe; poi c’è una terza opzione, smontare il violino, recuperare quei pezzi che possono ancora essere utili e rifarlo daccapo. Io inizialmente ho provato a correggere il testo, a cambiarlo, modificarlo, ma dopo due mesi rinchiuso, quando già avevo avvisato Galaxia e Siruela, i miei editori in galego e in castigliano, di fermare l’apparato per il lancio del libro perché volevo ritoccare il testo, dopo due mesi dicevo mi sono accorto che il libro non era come avrebbe dovuto essere e l’ho riscritto di nuovo da un posto diverso, come ti dicevo prima, collocando Caldas in quello spazio emozionale in cui il padre smette di essere un rifugio per diventare motivo di preoccupazione. E da quello spazio ho scritto il libro tutto d’un fiato, ma anche così mi ci sono voluti altri tre anni, è un libro di ottocento pagine e io non sono eccessivamente fertile; inoltre lo scrivere le due versioni nelle due lingue se da un lato depura il testo, fa in modo che praticamente non abbia bisogno di correzioni, dall’altro rallenta parecchio il mio lavoro.

E quanto ci farai aspettare per Ondas no inverno?

Lo sto scrivendo e vorrei davvero che uscisse nel 2023, vediamo se ne sono capace. Stiamo anche lavorando a una serie televisiva su Caldas e l’ideale sarebbe che i due progetti convergessero, che le due uscite fossero se non proprio simultanee, almeno grosso modo nello stesso periodo, dovrebbe appunto essere nel 2023 o all’inizio del 2024. In questo momento sono molto preso a lavorare a un mio testo teatrale che sarà interpretato da Carlos Blanco, a mio parere il miglior comico galego, che debutterà, se tutto va bene, l’anno prossimo in Galizia, sono molto contento di come sta venendo, si chiama Sibaris, come il porto dell’Italia meridionale.

E così mi hai bruciato la domanda successiva che era “Non ti ha ancora contattato Netflix per fare una serie? Dopo La casa de papel, le produzioni spagnole funzionano molto bene!” Voleva essere un po’ uno scherzo, invece mi hai sorpreso, esiste davvero il progetto di una serie.

Ci stiamo appunto lavorando, con sceneggiatori galeghi. L’idea è che sia diretta da un regista galego, al momento stiamo pensando a Jorge Coira. Il fatto è che le produzioni cinematografiche, come tipico dei prodotti audiovisivi, spesso hanno dei ritardi o prendono direzioni impreviste, poi bisogna mettere d’accordo gli impegni di tutti; ma l’idea è di farla utilizzando solo talenti creativi galeghi, con sceneggiatori galeghi. La casa di produzione, la “Secuoya studios”, che è una casa di produzione spagnola, di Madrid con un direttore per la fiction televisiva che pure è galego, David  Martínez, al momento non si concentra su una sola piattaforma, ma è in contatto con piattaforme diverse. Preferiscono fare prima un episodio pilota e poi mettere la serie all’asta per vedere chi si aggiudica i diritti di trasmissione.

Non ti chiedo nulla delle parole che individuano i capitoli, usate invece del titolo o del numero, ma se ci tieni a dirmi qualcosa, lo scrivo volentieri.

Vedi, all’inizio era solo un gioco, una cosa mia, scrivevo senza sapere se qualcuno avrebbe voluto leggermi, se qualcuno avrebbe voluto pubblicarmi e quando Galaxia decise di pubblicarmi così come Siruela decise di pubblicarmi, io dissi che avremmo tolto le parole all’inizio, ma loro risposero di no, che invece andava benissimo così. Per me era un gioco, da un lato era una metafora proprio del romanzo poliziesco, in cui le cose possono apparire in un modo e poi mostrare una realtà del tutto diversa; d’altro lato era un omaggio al dizionario, che è la tavolozza con cui io lavoro. In castigliano lavoro con il dizionario della Real Academia Española e con il Diccionario ideológico de la lengua española di Julio Casares; in galego lavoro solo con quello della Real Academia Galega perché è l’unico che ho a disposizione. Per quanto riguarda le parole, sono affascinato dalla polisemia, questi distinti affluenti che si aprono nel fiume delle parole e c’è sempre un’accezione che io penso che se ne sta lì, un po’ come una nuvola, in testa al capitolo e gli dà il titolo; poi potrebbe essere come un gioco, tipo prova a trovare la parola nascosta, che viene espressa sempre con una accezione più concreta. Ma in realtà, se io fossi un lettore dei miei libri non sono sicuro che mi fermerei a leggere quelle parole, penso che le salterei, probabilmente le salterei.

Domingo Villar, ma tu un lavoro vero ce l’hai?

Oltre alla letteratura? No. Vivo della scrittura e vivo un po’ con ciò che è collegato alla letteratura: discorsi, conferenze e cose di questo tipo che mi aiutano. Ho la fortuna di potermi dedicare alla scrittura, è stata anche una decisione familiare, mia moglie ha un lavoro più serio, con guadagni fissi e già da tempo abbiamo deciso che io avrei tentato questa vita letteraria che mi appassiona così tanto. Inoltre mi prendo cura dei bambini, abbiamo tre figli, sono quello che cucina e che va a prendere i ragazzi a scuola, che fa i compiti con loro, a dire il vero che li faceva, perché ormai uno ha diciassette e l’altro sedici anni. Poi c’è quello di nove, a cui sto ancora dietro, ma poco. Insomma, sono stato un po’ casalinga.

attilio.castellucci@uniroma1.it

[1]Canti popolari galeghi eseguiti da solisti e di carattere malinconico.

L'autore

Attilio Castellucci
Attilio Castellucci
Attilio Castellucci è laureato in Filologia Romanza presso la Sapienza, Università di Roma, materia nella quale ottiene anche il Dottorato di Ricerca. In seguito si trasferisce per cinque anni a Santiago de Compostela, dove lavorerà presso il centro di ricerche umanistiche “Ramón Piñeiro”. Attualmente lavora come tecnologo all'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, dove si occupa di comunicazione e realizza documentari; in passato ha esercitato anche con la qualifica di direttore di biblioteca. Per svagarsi, insegna alla Sapienza, Università di Roma, dove impartisce Lingua e Letteratura Galega ma, all'occorrenza, anche Filologia Romanza e Lingua Spagnola; materia, quest'ultima, che ha insegnato anche presso l'Università degli studi della Basilicata. Quando può, si dedica alla traduzione, con un discreto numero di titoli tradotti al suo attivo, soprattutto dal galego e dallo spagnolo, ma senza disdegnare altre lingue, quali il francese e l’inglese. È responsabile dell'accordo tra la Xunta de Galicia e la Sapienza, Università di Roma: dal 1999 dirige il CEG di Roma, il Centro di Studi Galeghi. Dal 2019 al 2022 ha fatto parte del Consiglio direttivo dell’AIEG, l’associazione internazionale di studi galeghi; attualmente, nella stessa associazione, fa parte del Consiglio Scientifico.

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