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«un fat udór d’tëra / e d’érba sghêda». Giulia Grillenzoni dialoga con Giuseppe Bellosi

Smaris

La sua antologia s’intitola Smarìs, «smarrirsi». La parola ha tre occorrenze all’interno della raccolta; l’ultima di queste si ha nell’VIII componimento di Requiem, ove l’io lirico s’interroga sul senso stesso dello smarrimento, che pure ha radici accidentali, contingenti: «e s’l’era un’êtra strê?» (v. 3). Dallo sgomento provocato dall’inettitudine dei sensi, la voce poetante arriva a mettere in dubbio la stessa propria identità («che me a so me», v. 6), ineffabile come un sogno la cui immagine svanisca al momento della veglia. Una delle possibili facce dello «smarrimento» può identificarsi con il timore di non essere più in grado di accogliere e quindi esprimere l’ineffabile? È possibile individuare in questo senso di perdita un’origine anche contestuale, sociale, oltre che intima e personale, cioè l’aver visto svanire – o evolversi? – un mondo e un tempo che forse non potranno più essere cantati allo stesso modo?

Lo smarrimento è provocato dal dubbio sulla reale consistenza della propria individuale identità (e sul casuale luogo a cui è legata), e di conseguenza la sua ineffabilità, l’incapacità di definirla, diventa definitive con la morte, col nostro essere per la morte, uno stato in cui i morti, in un eterno morire, ricordano solo a tratti (un’immagine, un profumo….) la loro esistenza. L’origine di questo smarrimento è prima di tutto da individuare nell’instabilità dell’esistenza di ogni uomo (che vede nel corso della sua vita mutare anzitutto la propria condizione, anche solo nell’ambito familiare, con la perdita dei genitori da una parte e l’arrivo di figli e nipoti dall’altra) e secondariamente nel tempo storico in cui io sono vissuto, nel mio mondo, dalla mia infanzia negli anni Cinquanta ad oggi, caratterizzato da enormi cambiamenti, a partire dal cambiamento linguistico, con il declino del dialetto, che quando ero bambino era l’unica lingua parlata nel mio paese, e la diffusione dell’italiano, veicolato soprattutto dalla televisione.

Leggendo i suoi versi ho avuto l’impressione che m’affiorassero alla mente ricordi immaginati, sognati, piuttosto che vissuti: carraie polverose che corrono immobili lungo le rogge; neri campi vestiti di dense nebbie -poi scalzate dalla tramontana- che ciclicamente sanno rinverdire; notti buie, gelide, trascorse nell’attesa di un rinnovato canto primaverile. E poi un vociare lontano, di cui si distinguono rare parole, pronunciate in quel linguaggio che Dante definì «muliebre videtur propter vocabulorum et prolationis mollitiem» (DVE, I, xiv, 2), forse per la dolcezza strascicata delle sue sibilanti, forse per l’assenza di geminate che ammorbidisce la parlata e talvolta la fa rassomigliare a una cantilena. Una lingua che potrebbe apparire sostanzialmente cristallizzata nella stessa forma da centinaia d’anni, che raccoglie in sé l’anima di una cultura contadina appartenente ormai a un tempo altro, vago eppure ancora tangibile, come sospeso ai margini di due età contigue e contrapposte. Alla luce di ciò le chiedo: quanto è legittimo concepire il dialetto in un’ottica «romantica»? In che misura questa percezione è diffusa e accolta tra gli studiosi?

I ricordi nei miei versi non sono immaginati, ma fanno parte della mia vita. La campagna della mia infanzia non era molto diversa da quella cantata da Giovanni Pascoli in Myricae (Romagna, Rio Salto), poi modificata in pochi decenni da coltivazioni intensive, autostrade, viadotti, zone industriali, case ‘geometrili’, cui si è accompagnato l’abbandono, nelle famiglie delle classi popolari, dei mobili di legno sostituiti con quelli di formica, che apparivano più moderni e perciò più belli, e delle «vecie parole de legno» (come le chiamava Ernesto Calzavara nel suo dialetto trevisano), considerate retaggio di una vita di indigenza e arretratezza, sostituite con le parole di plastica dell’italiano televisivo nell’illusione che queste bastassero a elevarsi socialmente e culturalmente. In chi si occupa di dialetto a livello locale spesso la molla che fa scattare l’interesse è la nostalgia, in questo caso il dialetto è legato all’idealizzazione un mondo che non c’è più. Ma queste forme di recupero del dialetto vanno combattute e superate. Non è l’atteggiamento nostalgico a caratterizzare i seri progetti di studio dei dialetti (come ad esempio l’Archivio sonoro dei dialetti della Regione Emilia-Romagna in corso di realizzazione), ma l’intento di documentare, con rigore scientifico, la cultura materiale e spirituale di cui i dialetti sono stati l’espressione per secoli e secoli. Non mancano naturalmente autori che usano il dialetto in un’ottica romantica, come dice Lei, ma i risultati artistici maggiori si devono a quanti hanno utilizzato il dialetto come metafora e come lingua sconfitta, spaesata, per i quali la scelta delle «parole de legno» non è un rifugio nostalgico, ma un recupero di valori umani ed estetici. Quanto alla nota frase dantesca relativa al dialetto romagnolo, a noi romagnoli è sempre sembrata un po’ strana, dato che nel nostro dialetto molte delle vocali atone delle originarie parole del latino volgare sono cadute creando aspri abbinamenti consonantici.

Credo che certe immagini poetiche possano essere espresse davvero, senza forzature e quindi con potenza e realtà, poeticamente, soltanto nella lingua – o nelle lingue – che conosce i luoghi di quelli immagini, dove essa è stata – ancora è? – viva. Ossia, ho apprezzato le traduzioni di Loris Rambelli per necessità pratica, ma le ho intese più come parafrasi che come, appunto, traduzioni: «pomeriggio» non vale «docmazdè», «buldez» ha qualcosa in più di calura; nei versi «un fat udór d’tëra / e d’érba sghêda» (E’ paradis, La nöt, II, 10-11) s’annida un odore che nelle parole «tradotte» svapora ancor prima che esse vengano pronunciate. Insomma, mi sembra che nella parola dialettale sia racchiusa una verità che anche l’orecchio di un parlante «straniero» può facilmente, seppure con approssimazione, intuire. Lei stesso, in una precedente intervista citò Raffaello Baldini: «in italiano vengono prima le parole delle cose, in dialetto vengono prima le cose delle parole». Si potrebbe portare quest’affermazione su un piano ulteriore, senza cedere all’irrazionalismo, asserendo che nel dialetto le parole e le cose, addirittura, si «compenetrano»?

Harry Martinson, il poeta svedese premio Nobel nel 1974, ha scritto: «La poesia è e sarà sempre intraducibile, resterà ‘regionale’ anche se di tanto in tanto tenderà verso altre fonti d’ispirazione. Valori e sfumature nati nelle lande scozzesi non potranno mai essere percepiti con esattezza in Toscana o in Sicilia». E anche la lingua è essenziale per designare quei valori e quelle sfumature. Dice sempre Martinson: «Che accadrebbe se la letteratura di tutto il mondo si esprimesse solo in italiano o in inglese? Non lo sopporterebbero neanche gli italiani e gli inglesi, che vedrebbero la loro lingua assimilata da tutti ed esposta all’usura della comprensione generale: un’idea spaventosa». Lo stesso si può dire a proposito dei dialetti nei confronti dell’italiano. Questo non significa che la poesia sia un fenomeno di interesse locale, ristretto al Paese o alla regione in cui si parla la lingua o il dialetto dell’autore, perché gli elementi regionali sono mediati da una formazione culturale che oltrepassa i ristretti confini regionali e sono inseriti in una dimensione di valori universali, che ci consentono di apprezzare opere prodotte anche in culture lontane da noi nello spazio e nel tempo, Sono quei valori universali che ci consentono di leggere un poeta anche senza inquadrarne geograficamente e storicamente l’opera, cogliendo «alcuna almeno di quelle vibrazioni innumerevoli per cui le parole di una poeta diventano parole e suoni e immagini di poesia», come affermava il grande grecista Manara Valgimigli nella premessa alla sua magistrale traduzione di Saffo, Archiloco e altri lirici greci. E ovviamente non voleva suggerire una lettura superficiale, ma presupponeva una conoscenza profonda che non gli serviva esibire.

Eppure, nonostante la poesia sia teoricamente intraducibile, la traduzione è pur necessaria, anche se non potrà restituirci compiutamente tutte le sfumature dell’originale. Raffaello Baldini intendeva dire che il dialetto è legato alla concretezza del quotidiano, non fa ricorso, se non raramente, all’astrazione. Forse è eccessivo asserire che nel dialetto le parole e le cose si compenetrano, però è anche vero, per stare agli esempi da Lei citati, che «e’ buldez» è proprio quella particolare afa che si manifesta nella pianura romagnola e non una generica «calura» (appunto, non sempre le parole di una lingua sono traducibili con assoluta precisione in un’altra). La voce «docmazdè» è invece del tutto sovrapponibile a «pomeriggio», ma anche in questo caso il «docmazdè» della campagna maianese è molto diverso dal «pomeriggio», che so, di Roma o di Milano. E analogamente si può dire per l’odore «d’tëra / e d’érba sghêda». Il dialetto non è intrinsecamente poetico, ma è rimasto lontano dall’usura dell’esperienza libresca, burocratica, della comunicazione di massa; per chi lo possiede come lingua madre è la lingua intima, delle più profonde emozioni, che ha un valore di memoria, di risonanza, e in un momento in cui il dialetto si avvia alla scomparsa la suggestione della memoria si fa ancora più forte.

Numerosi, all’interno della sua poesia, sono gli influssi montaliani, ravvisabili soprattutto in una certa struttura elencativa di «oggetti» che sovente cedono il passo, in forma di congedo, a chiuse significative che dal sensuale volgono al metafisico; se metafisico può considerarsi un pressante, quasi angoscioso sentire il tempo. Emerge spesso, più o meno esplicitamente, il desiderio di poter vivere «zenza e’ pinsir d’fê séra» (D’là da la nöt, I, 2), pensiero che invece grava, tormentoso, sul presente individuale. Nei suoi versi sembra fuggire all’inimicizia del tempo volgendo lo sguardo all’indietro: ha trovato consolazione o è inciampato nell’ennesimo smarrimento?

In un mio poemetto, intitolato E’ paradis (1992), ho fatto mio uno dei Pensieri di Pascal: «Nó ch’a s’pirde’ in di temp brisa d’adës, / dri a ’gli ór ch’agli à da vni o a i dè ch’è ’ndê / – un sghinlê, un arapês – …» («Noi, perduti in un tempo che non è il presente, / che rincorriamo le ore a venire o i giorni trascorsi – uno sdrucciolare, un arrampicarsi –….»). Dice Pascal: «Noi non ci atteniamo mai al presente. Anticipiamo l’avvenire come troppo lento a giungere, quasi per affrettarne il corso; oppure ci ricordiamo il passato per fermarlo come troppo fugace: così imprudenti che vaghiamo nei tempi che non sono nostri e non pensiamo al solo che realmente ci appartiene». Ma vagare tra passato e futuro è solo un tentativo illusorio di superare il nostro smarrimento. Lo stesso poemetto termina: «Gvardènd i cop dal ca, / la sfilarê d’vincir ins e’ cunfen, / u s’va a la lònga dj èn. O fôrsi, / zenza dè zenza nöt, / al tër u li cruv toti e’ zil» («Guardando i tetti delle case, / i cespugli di vimini allineati sul confine, / è un andare lungo i solchi degli anni. O forse, / senza giorno né notte, incombe sulle terre il cielo», cioè, in fin dei conti, non esistono né il passato né il futuro: il tempo non può in nessun caso esserci di consolazione, non esiste una via di salvezza.

All’interno dell’antologia ricorrono numerose atmosfere di oscurità e «bur», con l’ombra della morte che più che incombere permea le cose e i luoghi -descritti a tinte impressionistiche di pascoliana memoria- ricordandone incessantemente la caducità. Tale consapevolezza contribuisce a formare un crescente senso di attesa del nulla, un’attesa che vale per se stessa e per nient’altro: «O fôrsi / com al brés avulêdi, / arivare’ a pasê pu nench sta nöt», «O forse, / brace sotto la cenere, /supereremo ancora questa notte» (D’là da la nöt, III, 4-6). La morte si fa dunque esperienza quotidiana, tempo da dover scontare quasi passivamente, tra senari ed endecasillabi sempre più fitti di cenere e lontananze, di voci ormai ridotte a fievoli mormorii. Secondo il poeta siciliano Ignazio Buttitta: «chi non parla dialetto non può parlare con i propri morti»; non a caso i morti non sono in grado di comprendere la «lèngva nôva» (La nöt, III, 6) propria dei vivi: si tratta di un’incomunicabilità destinata a divenire insormontabile?

La mia poesia è quasi tutta sub specie mortis. In diversi testi le voci narranti sono proprio i morti. Personalmente non credo a una nostra esistenza dopo la morte, ma poeticamente immagino che i morti «muoiano per sempre», cioè che il loro sia un continuo morire: alcuni si sentono liberati dal peso della carne e rivedono come in sogno momenti della propria vita («Adës ch’a j ò al mâ’ alziri e ch’a n’ò piò / pinsir, a m’abandoñ a gvardê al foi / d’là da la mura, ch’agli è dri a caschê, / un gat int e’ sintir, e la zent ch’pasa. / U m’ve’ int la ment chi dè ch’andéva a spas / cun e’ mi bël cân biânch vérs a Maiân», «Ora che le mie mani sono leggere, / gli affanni della vita ormai lontani, / trascorro il tempo a guardare, oltre il muro, / le foglie che stanno cadendo, / un gatto sul sentiero, e la gente che passa. / Mi rivedo in quei giorni andare a spasso / con il mio bel cane bianco verso Maiano»), altri sono smarriti e riprovano antiche sensazioni ed emozioni («Smarì par sèmpar, / zenz’avdér una strê, / sèmpar d’curènda, sèmpar cun e’ lâns; / vultês in dri, gvardês d’atóran, / e u n’s’dà mai pët a ’ncion / da putéi dê la vós. / Int l’aria u n’s’sent / gnânch ’na bulê d’udór, / gnânch s’l’à piuvù. // Alóra e’ vnéva so un fat udór d’tëra / e d’érba sghêda / a pasê in bicicleta par la strê», «Ormai smarriti / per sempre, / non trovare una strada, / sempre di corsa, sempre con l’affanno; / volgersi indietro, / guardarsi intorno, / non vedere nessuno / a cui dare una voce. / Non sentire nell’aria / una traccia di odore, / neppure se ha piovuto. // Allora, invece, / veniva su un profumo / così intenso di terra / e di fieno falciato / passando in bicicletta per la strada»). I vivi, invece, non hanno la possibilità di comunicare con i morti, di cui anzitutto dimenticano quasi subito il suono della voce («E’ son dla vós l’è cvel ch’u s’pérd pr e’ prem», «Il suono della voce è la prima cosa che dimentichi», sempre in E’ paradis). Quando saremo morti, potremo solo rivivere nel ricordo di chi ci ha conosciuto, ma «e’ sra un pinsir o un sòni, / ch’u s’pérd int l’aria. // E cvel ch’è ’ndê l’è ’ndê» («sarà un pensiero, o un sogno, che si perde nell’aria // E quel ch’è andato è andato», così nel poemetto Bur, 2000).

Tornando a Montale, egli scrisse che si può essere «dialettali» sostanzialmente in due modi: «o traducendo dalla lingua, giocando sull’effetto di novità che il trasporto può imprimere anche a un luogo comune, o ricorrendo al dialetto come una lingua vera e propria […], ma i due modi possono essere presenti nell’interno dello stesso poeta, anzi lo sono quasi sempre. E non è detto che il primo caso non possa dare risultati poetici perché tradurre poesia è uno dei possibili modi di fare poesia originale.» (Il secondo mestiere. Prose 1920-1979). Lei che tipo di poeta dialettale ritiene di essere?

A me, nato nel 1954, è stato insegnato il dialetto. Allora nel mio paese tutti parlavano solo dialetto. L’italiano l’ho imparato a scuola, come una lingua straniera. A dire il vero l’italiano, alle elementari, lo parlavamo solo con la maestra, mentre tra noi scolari parlavamo in dialetto. Forse qualcosa ha contato anche il latino, che ho cominciato a frequentare contemporaneamente all’italiano, perché a sei anni iniziai a servire la messa, che allora si celebrava in latino e anche le preghiere si dicevano in latino. Perciò il dialetto è per me una lingua vera e propria, la lingua della quotidianità, che parlo tuttora con i miei familiari e gli amici, ma è una lingua che nell’uso poetico ha fatto e continua a fare i conti, com’è ovvio, con la mia formazione umanistica, prima al liceo classico poi a lettere classiche. E naturale quindi che la memoria dei poeti che ho letto si manifesti nelle mie poesie: talvolta ho rubato loro immagini e parole (ma anche versetti a testi come il Qohèlet), o forme metriche, come lo haiku della poesia giapponese.

Vorrei concludere ricorrendo al saggio di Cesare Segre che introduce «Passione e ideologia» di Pier Paolo Pasolini, edito per Einaudi nel 1985, ove il filologo scrive: «Il poeta popolare accetta la ‘discesa’ di elementi della cultura superiore al suo livello di cultura, mentre il poeta dialettale vive, nella sua appartenenza borghese, il dissidio tra spinte conservative e innovative, si tratti degli ideali risorgimentali o di quelli socialisti». Si può dire oggi, a distanza di molti anni, che il dissidio del poeta dialettale abbia mutato i propri poli, e che egli si trovi quindi a destreggiarsi tra una volontà «conservativa», atta a salvaguardare la lingua della propria poesia, e il rischio di farne regredire gli oggetti a mere maschere di un polveroso teatro della nostalgia?

Dopo Tonino Guerra, capostipite dei poeti romagnoli del secondo Novecento, troviamo Nino Pedretti, Raffaello Baldini, Walter Galli, Tolmino Baldassari, Gianni Fucci, Leo Maltoni, fino ai più giovani Nevio Spadoni, Giovanni Nadiani, Francesco Gabellini e altri ancora. Autori che non fanno un uso conservativo del dialetto (non spetta alla poesia salvaguardare il dialetto) e men che meno mettono in scena «un polveroso teatro della nostalgia», ma hanno dimostrato un’originalità nelle diverse modalità espressive (dalle forme liriche di Baldassari, Maltoni, Fucci, Spadoni, Gabellini a quelle epigrammatiche di Galli e Pedretti alla poesia ‘teatrale’ di Baldini e Nadiani), e hanno reso la poesia romagnola degli ultimi decenni un caso unico nel panorama poetico nazionale.

L'autore

Giulia Grillenzoni
Giulia Grillenzoni si è laureata in Lettere moderne presso l'Università degli Studi  di Perugia, dove è oggi iscritta al corso di laurea magistrale. Si interessa di Letteratura italiana e in particolare di poesia del Novecento.