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“Del mio paese popolato come un poema”. Dialogo con Vittoria Corallo

Martedì 14 giugno alle ore 21, presso la Sala dei Notari di Perugia, sarà proiettato per la prima volta il tuo film “Del mio paese popolato come un poema”, un omaggio a Pier Paolo Pasolini in occasione del centenario dalla nascita. Come ha avuto origine l’idea di un cortometraggio e chi ha preso parte alla sua realizzazione?

Contestualmente a tutte le iniziative organizzate dall’Università di Perugia per il centenario, il professor Roberto Rettori mi ha chiesto di creare un omaggio a Pasolini insieme agli studenti del laboratorio teatrale universitario. L’idea di partenza era quella di recitare una selezione di testi, con l’accompagnamento musicale dell’Orchestra da Camera di Perugia, ed eventualmente trarne un video da pubblicare in rete. Io, però, ho avanzato una proposta diversa: perché, dato che si tratta di un omaggio a Pasolini, non fare qualcosa che metta in pratica Pasolini stesso?

Ho pensato quindi a un cortometraggio, la cui sceneggiatura non fosse scritta a priori, ma che nascesse dall’incontro degli studenti del laboratorio teatrale con alcuni luoghi di periferia e con le comunità presenti in quei territori. In particolare la scelta è ricaduta su Ponte San Giovanni, una zona abbastanza sconnessa, direi pure marginalizzata rispetto alla cultura centrale della città di Perugia. Già da prima collaboravo con il gruppo guida territoriale, perciò ho incontrato i membri del gruppo e ho esposto loro la mia idea, che è stata accolta con grande entusiasmo. Nella realizzazione del progetto sono state coinvolte una serie di realtà molto eterogenee, tra cui Densa, cooperativa che si occupa di rigenerazione urbana attraverso l’arte, la cultura e il digitale; Terra fuori Mercato, un mercato contadino e dell’artigianato che si autodefinisce “resistente”, senza l’obiettivo della grande distribuzione e i cui prodotti sono a chilometro zero; il centro Atlas, che utilizza l’arte e il mondo multimediale per aiutare persone affette da autismo o da altri problemi di carattere psichico o neurologico; infine, abbiamo collaborato anche con il centro di accoglienza diurno.

Com’è avvenuto e come si è sviluppato l’incontro tra gli studenti e queste comunità?

Abbiamo organizzato un laboratorio teatrale che ha avuto luogo nel giro di cinque incontri. Io ho selezionato preventivamente alcuni testi tratti dalle opere di Pasolini, che hanno avuto la funzione di centro tematico degli incontri. Ma non abbiamo solo parlato o discusso: la sperimentazione doveva vertere su un linguaggio poetico, il quale non tanto si parla, quanto si pratica. La pratica teatrale pedagogica sfrutta infatti dei giochi e degli esercizi che utilizzano un linguaggio corale, collettivo, non basato sulla lingua codificata e “standard” con cui comunichiamo quotidianamente, ma su una modalità di espressione spontanea, creativa, che scaturisce dalla cosiddetta “area laterale” del cervello.

Quali sono state le principali difficoltà incontrate durante il percorso?

La parte più difficile è stata mettere tutto insieme. Volevo raccontare un innesto di linguaggio, un innesto poetico, architettonico, da cui risultasse un cortocircuito. Non mi sono posta aspettative eccessive sul risultato: sapevo che alcune cose sarebbero state tralasciate, che altre non sarebbero state centrate appieno, ma avevo fiducia nel percorso. A laboratorio ultimato, ho fatto una selezione dei testi e delle esperienze e le ho sintetizzate in visioni, immagini. Una volta ottenuta la sceneggiatura tutto è stato più semplice: abbiamo girato in tre giorni, ottenendo quattro ore e mezza di girato -tantissimo per un corto che ora è ridotto a meno di 24 minuti-. Avevamo tanto materiale e le idee abbastanza chiare.
L’avventura è partita in quarta già dal primo giorno di riprese: abbiamo girato in un palazzo inagibile e sotto sequestro, di quelli costruiti con i soldi delle mafie e che purtroppo si trovano in uno stato di degrado e di abbandono. Appena cominciate le riprese abbiamo visto arrivare quattro o cinque volanti dei carabinieri: il vicinato aveva mandato delle segnalazioni, temendo che volessimo occupare l’edificio. Fortunatamente, poi, nessuno ha sporto denuncia. Pensando a Pasolini, continuamente osteggiato e censurato, ho vissuto quest’esperienza come la conferma che stavamo facendo le cose nella maniera giusta.

Le opere di riferimento principali sono state Bestia da stile e Calderon: tra la vastissima produzione pasoliniana, perché hai scelto proprio questi testi?

Mi sono concentrata su queste opere teatrali basandomi su un’intervista di Pasolini stesso, in cui affermava che il mondo sottoproletario che aveva incontrato tempo addietro e che era protagonista dei suoi primi romanzi e film, non esisteva più: con l’avvento della televisione era cambiata la lingua, era avvenuta la “mutazione antropologica degli italiani”. Anche i dialetti, intesi come lingue puramente territoriali, non esistevano più. Era necessario trovare una lingua purificata alla radice, e Pasolini l’aveva individuata nell’italiano letterario. Per le sceneggiature teatrali scelse infatti una lingua altamente formale, difficilmente comprensibile dal vasto pubblico, per la quale venne accusato di “fare teatro per l’élite”. Lui si difese affermando che non si trattava più di classi sociali ma di una scelta programmatica: il suo teatro era rivolto soltanto a chi volesse davvero capirlo.

Ho scelto in particolare “Bestia da stile” perché è l’opera teatrale che Pasolini stesso ritiene la sua più autobiografica. Il protagonista Jan è effettivamente un alter-ego, che si muove nell’ambiente Boemo al tempo della Primavera di Praga. Nel mondo esterno di Jan è possibile intravedere gli intellettuali romani, i politici, la famiglia di Pasolini: tutti lo guardano, lo giudicano. Gli studenti hanno cercato di farsi interpreti di Jan, recitando parte dei suoi monologhi, per arrivare ad incarnare lo stesso Pasolini e diventarne le icone. Sono partiti da un mondo stretto, chiuso, e hanno cercato di liberarsene attraverso la poesia.

Per concludere, una domanda personale: com’è il tuo rapporto con Pier Paolo Pasolini e com’è cambiato dopo quest’esperienza?

Ho sempre nutrito grande interesse per i luoghi lontani dal mio mondo. A diciotto anni ho chiesto in regalo un viaggio in Nigeria e sono andata a fare volontariato in un centro che si occupa di bambini sordomuti. Da allora ho continuato, lavorando nelle carceri e nelle periferie. Ancora non conoscevo Pasolini. Il primo incontro con il suo cinema è stato esaltante: il suo sguardo sul mondo, il modo di inquadrare i volti, lento, statico; la purezza del linguaggio, la recitazione grezza, quasi mai aderente o credibile. Il fatto di aver avuto la possibilità di creare questo progetto è stata un dono, l’occasione di un incontro ancora più ravvicinato con il Poeta.

L'autore

Giulia Grillenzoni
Giulia Grillenzoni si è laureata in Lettere moderne presso l'Università degli Studi  di Perugia, dove è oggi iscritta al corso di laurea magistrale. Si interessa di Letteratura italiana e in particolare di poesia del Novecento.