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“Tra reminiscenze e premonizioni”: scritture dai margini urbani. Conversazione con Nader Ghazvinizadeh

                                                                                                                                           «Nella città sempre notte
scrosci di gente nera sotto le piogge
maschi da vaporiera femmine di stireria,
la città scotta, fucina di febbri
neoavanguardie e noi, nel parco urbano abbandonato
come l’ abbraccio di un parente di secondo grado
noi siamo ricchi, vestiamo un po’ bene
un po’ male come i tartufi
sapendo di terra e di cane»

                                                                                               (N. Ghazvinizadeh, Metropoli, 2011)

Nader Ghazvinizadeh, nato a Bologna nel 1977 da un microbiologo iraniano e da una studentessa di lettere italiana, dopo una prima infanzia trascorsa in Iran, con la sua famiglia torna nella città natale conseguendo la maturità classica e successivamente laureandosi in Discipline dell’arte, della musica e dello spettacolo con una tesi su “La città disincantata: antropologia del conflitto urbano”. Ha pubblicato le raccolte di versi Arte di fare il bagno (Giraldi Editore), Metropoli (Edizioni CFR) e libri di racconti come I Cosmonauti (Pendragon) e Addio vint (Bèbert). Ha partecipato a festival internazionali di poesia tra cui il “Parma Poesia Festival”, “Mediterranea: Festival Intercontinentale della Letteratura e delle Arti”, è stato ospite dell’Università Paul Valéry di Montpellier per il convegno internazionale Pour une poesie de l’utopie: écriture, frontière, migration; la poésie italophone du XXIe siècle, inoltre è stato vincitore del concorso ICEBERG e finalista del “Premio Franco Fortini” di poesia. Oltre a essere autore della sceneggiatura di due cortometraggi: Drobgnac, finalista di “Visioni italiane”, ed Apocalisse in Via Orfeo, è docente di Lingua italiana, Storia e Geografia presso le scuole medie e dal 2017 anche presso l’Università Primo Levi di Bologna dove tiene corsi sulla Storia delle Periferie, Antropologia del Territorio Emiliano, Storia della Pedagogia, Storia e Mito del Sottoproletariato, Storia dei popoli e delle lingue in via di estinzione, Storia del Femminismo.

Nelle tue poesie e nei tuoi racconti uno spazio centrale è quello della città, colta nel suo moto centrifugo che conduce ai margini della periferia. In che modo la tua scrittura prende forma e si relaziona rispetto a questo luogo della provvisorietà, di una quotidianità sospesa e livida, intima e alienata tra la Foscherara, la Bolognina, San Donato? Che valenza ha per te la parola scritta in questo caso? Penso soprattutto ad Addio vint

Non appena le mie digressioni vengono identificate con la mia poetica smettono di esercitare su di me un magnetismo e non so più parlarne, così capita con la città, la campagna. Avevo poco più di vent’anni quando sono stato assunto da un quotidiano locale perché “sapevo tutto” di Bologna. Sono interessato alla messa in scena meccanografica della città. Allo stesso modo sono interessato a descrivere le persone mentre pensano, trattando il pensiero come fosse un’azione. Forse perché credo che le cose accadano soltanto nella mente necessito di un fondale – di una città come le ricostruiva Hans Poelzig – per le vicende mentali dei miei personaggi. Hans Poelzig era un architetto assoldato dal cinema espressionista tedesco per creare scenografie. Per il Golem e il Caligari Poelzig decise di costruire città vere e proprie: nei suoi palazzi – che sarebbero serviti soltanto come sfondo per le scene – si poteva entrare. La periferia esercita su di me l’attrazione delle reminiscenze. La scoperta delle periferie è stata una premonizione d’angoscia, un modo per riconoscerla prima nei luoghi che nelle persone, prima negli altri che in me. Eppure batto quelle strade con una gioia altrimenti sconosciuta quando riconosco nelle periferie la loro storia contadina. Addio vint è un addio alle armi, non potrò mai più diventare come i miei alter ego protagonisti dei racconti e quindi gli alter ego sono diventati fantasmi che percorrono la città vuota come cartacce al vento. Gli alter ego sono deragliamenti che la mia vita non ha avuto, perché ho voluto percorrere la strada maestra senza voltare nelle vie laterali. Addio vint non è un elogio della solitudine, è un addio alla solitudine. Ora osservo con fastidio i flaneurs, i situazionisti, il loro narcisismo da bolle di sapone. Perché questo fastidio? È vergogna, del mio passato da flaneur, da situazionista. L’ingenuità del talento porta con sé la vergogna. Sostiene Adorno che nella società moderna esiste una sola scelta: uniformarsi o restare bambini.

 

Rimanendo sul tema della città, ciò che emerge (in particolare dai versi di Metropoli) è una venatura continua d’inquietudine, un vuoto che sembra farsi stanza di un edificio e al tempo stesso istanza interiore:Stanno costruendo il nuovo quartiere / i geometri nel monolocale guarderanno l’orizzonte ortogonale / dove l’angoscia si scioglie in inquietudine / e si risolve prendendo da bere / nel bar vuoto […]”. Come se vivere nelle periferie implicasse necessariamente anche saper abitare i vuoti attraverso i residui di una sopravvivenza quotidiana. In queste aree, nel rapporto complesso tra mimesi e realtà, per l’io lirico e per i personaggi dei racconti (Boedo, Massimiliano Ruiu…) c’è la possibilità di uno spazio intimo, “selvatico”, in cui far esperienza dell’autentico?

Che sia poesia oppure prosa quando scrivo esce questa voce che sembra una telecronaca, come una trasposizione in metrica della carta di una città. Credo che in definitiva la mia scrittura sia il tentativo di creare digressioni a un pensiero ossessivo, che infine non prende la parola. Il pensiero ossessivo ci fornisce un’identità transitoria, da attori, eppure molto vicina al nostro intimo essere. Per questo è insopportabile e lo rifiutiamo. Le ossessioni cinematografiche sono appassionanti, ricreative, non hanno nulla della ripetitività infeconda e onanista delle ossessioni reali. Approfondimento e digressione, nelle narrazioni, sono perfettamente bilanciati: nulla a che vedere con il pensiero ossessivo che, sempre e apparentemente per caso, torna sul luogo del delitto. Si nota come molte persone sono capaci di narrare le loro ossessioni in modo oggettivo – come fossero imputati che recitano da testimoni – senza che questo le aiuti in alcun modo a guarirne. Dopotutto il paziente che appare in filigrana allo psicanalista, come ritagliato dal proprio sfondo, assomiglia tanto a quegli studi preparatori di un personaggio che sono svolti dagli scrittori durante le primissime stesure dei romanzi.

Urgenza nella città. Proposte di intervento di Francesco Somaini. 1972
Urgenza nella città. Proposte di intervento di Francesco Somaini. 1972

Una domanda più strettamente urbanistico-istituzionale. Nelle tue opere l’immagine di un’architettura della grande città in continua espansione, che “non si completa mai, ma nemmeno muore”, mi ha ricordato le proposte d’intervento urbano dello scultore Somaini: “La memoria della città risiede nella sua storia, ma anche nella sua forma: una espansione senza forma è anche una perdita di memoria, un cambiamento veloce e continuo è perdita di continuità umana…”. Nella rapida espansione edile, secondo te come si può garantire una “continuità umana”, una coerenza sociale e storica tra centro e periferia? Considerando il carattere spesso fallimentare dell’urbanistica utopica e inclusiva promossa dalle istituzioni…

Se Ivan Illich, in Descolarizzare la società, sostiene che ogni forma di pedagogia è, in fondo, una violenza, come possiamo non pensare la stessa cosa riguardo all’urbanistica? Se la scuola è patriarcale, i piani regolatori sono perlomeno paternalisti. Talvolta pianificare è soltanto un modo scientifico di mistificare. Ricordo tentativi meritori in passato, legati ad esperienze informali, come l’applicazione dell’agopuntura urbana, a Curitiba, in Brasile, secondo i dettami dell’architetto finlandese Casagrande. La predilezione per la risonanza rispetto al rumore mi trova, banalmente, d’accordo, ma ammetto il mio deficit di entusiasmo e attivismo al riguardo. Il mio unico contributo alla militanza è La città disincantata, un trattato nel quale ho analizzato il conflitto urbano nella mia città dal secondo dopoguerra agli anni dieci di questo secolo. Ma non è un trattato, quel libro, l’etnologia urbana è stata soltanto lo strumento per occuparmi dei senzatetto sotto le arcate dei portici dello stadio di Bologna, trasformato in mercato bestiame durante l’occupazione nazifascista, o degli sgomberi dei grattacieli che per anni ho osservato dall’asfalto in via Gandusio. Non credo che la civiltà occidentale abbia perso la sua innocenza con le rivoluzioni industriali. Credo che la nostra società viva in un mito palingenetico e al contempo omeostatico: il mito dell’infanzia deragliata.

Passando dagli scenari metropolitani a quelli della provincia sconosciuta, ignorata, che caratterizza i tre racconti de I Cosmonauti, nello specifico quella dell’Appennino emiliano fatta di golene, viadotti, relitti industriali, parrocchie, bar, baraccopoli, hotel vuoti… Nel racconto incipitario del libro si legge: “In quel punto della golena guardare l’altra sponda è come guardare in uno specchio: nelle mattine di fuga da scuola e dormiveglia ci siamo inventati dei personaggi identici a noi, con gli stessi nomi, che vedevano l’acqua scorrere nell’altra direzione da una casa di pesca”. In merito al meccanismo compositivo, come agisce e che effetti sortisce il flusso controcorrente della memoria nel restituire le varie identità dei personaggi?

Quando il ricordo agisce come fosse un sogno e toglie al nostro passato il realismo della quotidianità, delle mezze ore, allora ci commuoviamo. Ci commuoviamo perché la nostra vita ci viene presentata come non è, cioè come una successione emotiva e logica di eventi. Togliere la quotidianità, le mezze ore, dà senso alla vita, la razionalizza. Il cinema ha creato dei ponti tra una mezz’ora e l’altra con la musica. La musica, quando il cinema era muto, sostituiva i dialoghi, le vicende dei film erano commentate dalle didascalie. Ora la musica mette in contatto le emotività degli autori e degli spettatori “senza passare dal via”. La letteratura cinefila tenta di creare un effetto da colonna sonora. Nel cinema la musica commenta l’ineffabile del film, tutti i film, anche quelli senza musica, sono musicals. La musica è atmosferica, è l’occhio di Dio sopra i palazzi, anche le inquadrature cambiano quando il film suona. Quando il film suona è come se venisse a piovere, una pioggia che funziona come una livella su ogni personaggio. Dopo la musica ogni personaggio riparte dal via a fianco di tutti gli altri. Il protagonista dei Cosmonauti, Giorgio Momentè, a un certo punto del racconto diventa un regista. I Cosmonauti tratta della bellezza e dell’intelligenza, della loro dialettica in un periodo della vita, l’adolescenza, nel quale la vergogna cede il passo al senso di colpa. D’altro canto tratta dell’ingenuità e dell’inconsapevolezza, come tratti secondari dell’intelligenza o della bellezza. Con l’ultima frase “Non tornerai più una fantina” si descrive l’ultimo tradimento del passato al presente. Giorgio Momentè ha accettato l’incomunicabilità tra bellezza e intelligenza, ne ha fatto una poetica, ma, ingenuamente, non riesce ad accettare che Alice Sciutto, la “fantina” abbia smesso di essere bella. I Cosmonauti: Marcello, Charlie, Alice vivono nella mente di Giorgio oscillando tra reminiscenze e premonizioni, prigionieri di un tempo capace soltanto di creare ricordi.

…ma che ritorno ha senso, quando non si sanno le parole?

 

L'autore

Arianna Pannocchia
Arianna Pannocchia
Laureata in Lettere moderne presso l’Università degli Studi di Roma Tre. Il campo di studio verte sul panorama della lirica italiana del secondo Novecento con un’attenzione particolare a una lettura comparatistica tra le esperienze poetiche e le discipline pittorico-scultoree di quest’epoca. Le sue attività di ricerca si svolgono tra Roma e Macerata.