avvenimenti

“Welcome to Rome”: intervista con Paco Lanciano

Da qualche anno a questa parte la visita alla Mostra permanente Welcome To Rome è una tappa fissa per i programmi di studio all’estero che dirigo a Roma per Dartmouth College, l’università presso cui insegno negli Stati Uniti. Una proiezione immersiva di circa 30 minuti capace di catturare l’attenzione sensoriale e cognitiva, quattro istallazioni con plastici semoventi che stimolano domande e curiosità e un approccio esperienziale rendono la mostra multimediale la perfetta introduzione alla città e ai suoi mille volti, permettendo agli studenti di vedere Roma nella sua complessa evoluzione storica. Da questi ripetuti appuntamenti è nato, anche per me, il desiderio di saperne di più. Ringrazio Paco Lanciano, ideatore e realizzatore della mostra per la sua disponibilità, gentilezza e franchezza nel rispondere alle mie domande.

Che cos’è Welcome to Rome? È una mostra, un museo, un cinema? Se dovessi spiegarla a qualcuno che non ne sa assolutamente niente, come la descriveresti?

Ho una certa difficoltà a rispondere a questa domanda. Una volta un regista giapponese fu intervistato dalla televisione e gli chiesero di raccontare il suo film. Rispose: “Io realizzo film proprio perché non li so raccontare”. Prendo spunto da questo, per dire che anch’io ho una grande difficoltà a raccontare che tipo di esperienza si vive in un posto che non ha analoghi nelle esperienze delle persone. Se dovessi dire cos’è un cinema o cos’è un museo, so che potrei far conto sull’ idea che le persone già ne hanno, avendo vissuto esperienze analoghe. Quello che succede qui a Welcome to Rome è una cosa però diversa, perché non è né l’una né l’altra (né cinema né museo), ma qualcosa di nuovo che alla fine diventa l’insieme di entrambi. È un’esperienza cinematografica perché si vede un film, sia pur con modalità molto innovative – oggi si è abituati a vedere film immersivi in 3-D per esempio. È un’esperienza di apprendimento, o per meglio dire orientamento (perché l’apprendimento è un processo più complesso), da cui si esce avendo capito delle cose che riguardano la città che ci circonda. Al cinema in genere non si va per imparare ma per divertirsi. Qui, contemporaneamente ci si diverte un po’ come al cinema, ci si emoziona e si impara. In più si vive per un’ora circa a contatto diretto con Roma.

Entrare a Welcome to Rome è quasi un modo per uscire dal bailamme del traffico, dimenticare le buche, lo smog, e entrare in contatto diretto con la città. L’idea è un po’ quella di incontrare una Roma che si racconta, una Roma protagonista dell’esperienza. E poi, quando si esce, si scopre che è cambiato il rapporto che si ha con la città. È un processo cognitivo ed emotivo allo stesso tempo, ma è anche e soprattutto un cambiamento di atteggiamento.  Si esce un po’ più appassionati nei confronti di Roma. Lo spirito, quindi, non è quello di chi vuole insegnare qualcosa, né lo spirito dello show come spettacolo fine a sé stesso. È uno spirito che gli americani definirebbero di edutainment, education & entertainment, unendo le due funzioni. Sono convinto che sia naturale unire queste due funzioni perché capire è un piacere; quindi, capire delle cose che poi ci aiutano a vivere meglio la città è un’esperienza di edutainment naturale.

Perché Welcome to Rome, che cosa c’è in questo titolo? Stavi pensando a un’audience in particolare quando ti è venuta l’idea?

Il titolo in particolare è stato frutto di un lavoro molto lungo. Siamo passati attraverso tanti titoli diversi da Discover Rome, a Evolution of Rome. Alla fine, però la parola “Welcome” ci è sembrata più inclusiva. Se dico “discover” ti sto dicendo che ti faccio scoprire una cosa. “Welcome” vuol proprio dire: stai insieme a noi, entra dentro questa famiglia, entra a casa. “Welcome” è un invito a entrare nella città, un benvenuto che include: entra, parla con la città, e quando esci sei un po’ più cittadino di Roma. Naturalmente l’ho immaginata pensando ai turisti. Ho avuto quest’idea quando a Genova qualcuno mi ha spiegato la storia della città davanti a una mappa. Genova ha questa interessante caratteristica per cui buona parte del centro storico è una zona povera. Succede anche a Napoli ed altre città, ma perché? Perché l’evoluzione urbanistica ha seguito le vicende storiche. Così ho capito che la città di oggi è generata dalla sua evoluzione storica e che si può raccontare bene la storia della città associandola alla sua evoluzione urbanistica.

Tornando al tema dei destinatari, abbiamo scoperto che entusiasti dell’idea sono proprio i romani, che hanno piacere di essere “benvenuti” nella loro città. Un po’ perché a volte non la conoscono, un po’ perché tutti noi, io per primo, non ci rendiamo conto della città in cui viviamo. Viviamo in una città unica al mondo, però siamo sempre preoccupati del traffico, delle buche, dell’albero caduto, perché è la nostra quotidianità. Io passo davanti a Castel Sant’Angelo tutti i giorni, ma certo non penso al mausoleo di Adriano. Così i romani, più che conoscere la loro città, hanno bisogno di ri-conoscerla, di ricordarsi di vivere in una città come Roma, di ricordarsi di essere molto fortunati.

Hai parlato di buche, di traffico, di problemi di Roma e proponi, quasi lateralmente, Welcome to Rome anche come una forma di evasione dalle brutture del quotidiano romano. Pensi che la conoscenza del valore, della storia di Roma, della forza e della potenza della sua storia rappresenti una possibilità di elevazione dal quotidiano delle buche e della spazzatura?

Sì, di elevazione o addirittura voglio pensare che questo possa essere utile alla città se i cittadini diventano più consapevoli della loro storia. Perché in realtà la città è anche il frutto del comportamento dei suoi cittadini. È facile dare la colpa agli amministratori ma in realtà se si va a Sondrio tutto è pulito e perfetto perché i cittadini si comportano in un altro modo. E probabilmente da voi, nel New Hampshire l’atteggiamento del cittadino è diverso. È molto facile lamentarsi, ma invece avere un atteggiamento verso la propria città, positivo e propositivo, può essere un piccolo contributo che fa il bene della città. Questa esperienza è un “ripasso” di educazione civica (si sarebbe chiamata così ai tempi nostri).

I cittadini romani escono da Welcome to Rome contenti di aver ri-conosciuto le loro radici, che sono radici importanti. La mia speranza è che questo cambi in positivo il loro atteggiamento nei confronti della città.

Oltre ai turisti e ai cittadini romani, avevi pensato in qualche modo agli studenti stranieri che arrivano numerosissimi sul territorio romano a studiare l’italiano? Facevano parte della tua possibile audience?

So che gli studenti stranieri fanno varie attività di orientation quando arrivano. E non credo ci sia un orientation migliore di questa. Pensando a chi viene a Roma, penso soprattutto a chi è più interessato a capire, conoscere, studiare. Gli studenti stranieri che visitano Welcome to Rome ne escono particolarmente soddisfatti perché hanno un atteggiamento di curiosità e interesse per la conoscenza della città. Hanno tutto il tempo per assimilare quello che qui hanno visto e sono sicuramente un target ideale.

Secondo te questo progetto è in generale più divulgativo o più educativo?

Sicuramente non è didattico. La didattica ha altri tempi. L’apprendimento è un processo molto più lento.  Questa esperienza fa venir voglia di sapere, che è l’unico obiettivo a cui possiamo ambire. Ci sono romani che mi hanno detto di essere poi andati a visitare San Clemente o a cercare la tale torre. Perché Welcome to Rome fa venir voglia di tornare in posti già visti, oppure di andare a vedere cose mai viste. Tra divulgazione e educazione io ho un po’ di difficoltà a fare la distinzione. Se per educazione intendiamo educazione quasi civica, nel senso di cambiare il proprio comportamento – questo vale soprattutto per i romani.  La divulgazione è inseminare perché la gente poi vada ad approfondire. Divulgare per me è semplicemente stimolare passione.

Tu sei noto al grande pubblico italiano come fisico di SuperQuark.  In che modo, secondo te, la collaborazione con Piero Angela ha influenzato, o facilitato questo progetto?

Ho imparato moltissimo lavorando con Piero Angela. Sono stato molto vicino a Piero perché oltre a lavorarci in televisione quei quattro minuti ogni tanto, in realtà abbiamo fatto tante cose insieme e siamo amici. C’è uno scambio forse monodirezionale nel senso che imparo più di quello che insegno. Ma questo progetto in particolare l’ho realizzato da solo perché io ho sempre lavorato nei musei – nelle installazioni fisiche e portavo avanti quest’idea da tempo. Sicuramente c’è un’influenza indiretta di Piero che, soprattutto mi ha insegnato una cosa: cercare sempre di immaginare nella mente di chi ascolta quanto possa essere poco interessante quello che tu vorresti dire. Mi ha insegnato a stare molto attento, a non avere il desiderio di dire, ma immaginare che cosa può scatenare un interesse in chi ascolta perché solo così scatta la passione. Lui dice che non c’è un nemico maggiore della divulgazione della noia. Ora se un professore seguisse con attenzione questo insegnamento, solo questo, saremmo già a un buon punto.

Nella mostra Welcome to Rome assistiamo a un bel rapporto tra la tecnologia e l’artigianato attraverso la realizzazione magistrale di modellini e una linea di demarcazione sottile tra ciò che è reale e ciò che non lo è. Ci puoi spiegare?

In realtà io vado un po’ contro corrente, forse sono anche un po’ vecchio da questo punto di vista. E lo dico senza scherzare. Qui non c’è virtuale, anche se i visitatori escono dalla mostra pensando di aver visto il virtuale, in realtà, a parte pochi effetti come il movimento dell’acqua della fontana di Trevi, non c’è niente che sia inventato al computer. O meglio, ci sono solo dei piccoli movimenti offerti con grande delicatezza. Ci tengo a dire questo perché è vero che si esce da qui con l’idea di aver visto degli ologrammi, però in realtà non ci sono ologrammi, sono tutti plastici, fisici, o tuttalpiù giochi di specchi. Anche le colonne nel Tempio di Augusto sono vere. Le persone che camminano riparandosi dalla pioggia nei Fori sono proiezioni ma posizionate in un plastico vero; sono una piccola delicata aggiunta alla realtà.  Io litigo spesso con i miei grafici perché continuo a sottrarre loro effetti. La tecnologia qui è un passo indietro e rimane intenzionalmente al servizio del racconto che si basa il più possibile sul vero, perché il vero è quello che abbiamo. È il motivo per cui la gente prende l’aereo, spende soldi, viene qua e non guarda il Colosseo su internet: perché vuole vederlo dal vero. Quindi se a Roma, ma in una qualunque altra città del mondo, si racconta l’autentico, si giustifica il fatto che le persone vengano fisicamente perché il virtuale lo trovano anche a casa loro. Gli occhialetti per vedere il Foro Romano si possono usare anche in California; anzi, consiglio di usarli in California perché quando si è a Roma ci sono i monumenti veri. Diciamo che mi piace utilizzare la tecnologia con grande cautela.

Se la tecnologia è al servizio del racconto, della storia, che cosa succede allo spettacolo? In che misura la dimensione dello spettacolo prende o non prende il sopravento sul racconto storico?

Diciamo che le due cose convivono benissimo. Devono convivere perché, come abbiamo detto prima, non bisogna mai annoiare. Il racconto dev’essere sempre un racconto che in qualche modo coinvolge anche un po’ il cuore, oltre alla testa e lo spettacolo serve per mantenere alta l’attenzione sul racconto.  Il professore che ci affascina è quello che sa raccontare ma che sa anche trasmettere il suo entusiasmo.  Qui lo spettacolo è al servizio del racconto, in un rapporto paritetico.

Parliamo dell’esperienza della fruizione di Welcome to Rome. Non c’è un percorso specifico, quindi chi entra può vedere il film di 27 minuti che sintetizza l’evoluzione della città indifferentemente all’inizio o alla fine del percorso. Può poi vedere le installazioni in qualunque possibile ordine. Pensi che l’esperienza cambi con il cambiare dell’ordine? La scelta risponde a dei criteri specifici, o è casuale?

Ci sono persone che sono tornate tante volte. Ho quindi una risposta a posteriori basata sul feedback dei visitatori che ritornano e fanno ogni volta un’esperienza un po’ diversa. Chi vede prima il filmato dice che l’ha aiutato poi a capire le altre cose. Chi vede prima gli exhibit poi quando li rivede nel filmato sa di cosa si sta parlando, e quindi è come se in qualche modo venisse aggiustata la percezione sulla base dell’esperienza. In realtà le due cose corrispondono addirittura a un’altra simmetria, ancora più clamorosa. Persone che sono venute prima di lasciare Roma hanno commentato di essere felici di essere venuti alla fine del loro viaggio perché così avevano visto tutto ciò che mancava. L’impressione è che la gente esca comunque contenta. Tu hai detto che vorresti far vedere il filmato all’inizio e alle fine. Sono due esperienze molto diverse, però tutt’e due hanno un senso. Enrico Fermi, per esempio, diceva ai ragazzi di via Panisperna – che erano i fisici più intelligenti in Italia: “abbiamo un’ora, nei primi cinque minuti vi dico cosa diremo, poi ve lo dico, e negli ultimi cinque minuti vi dico che cosa vi ho detto”. Allora, nel mezzo c’è la visita di Roma, se facciamo vedere ai visitatori il filmato prima, chiaramente non c’è l’esperienza però intanto gli abbiamo offerto il contesto. Se glielo facciamo vedere dopo, rimettiamo in ordine le cose, Farli tutt’e due, fai come Enrico Fermi.

Pensi che il visitatore possa scegliere cosa vedere prima e dopo?

In realtà no.  Esistono musei della scienza in cui ci sono tanti exhibit e il visitatore è libero di scegliere il percorso. Io ho costruito molti musei della scienza in Italia, undici ex-novo, e in nessuno dei miei musei il visitatore è libero di scegliere per un motivo molto semplice. Sceglie bene il ragazzo sveglio, colto, preparato. Il ragazzo un po’ imbranato e meno preparato ha più difficoltà quindi alla fine il più debole riceve meno aiuto. Chi entra alla mostra non sa, quindi non è in grado di scegliere, va guidato – nel nostro caso in particolare è una scelta a volte casuale, ma non si può chiedere di scegliere a chi non sa.

Se dovessi pensare agli obbiettivi che ti eri fissato quando hai iniziato il progetto Welcome to Rome e pensare a cosa è poi diventato, cos’è successo nel tempo?

Ho tolto un po’ di tecnologia. Se rileggo il progetto di Genova, c’erano gli occhialetti 3-D. C’era ancora un po’ l’illusione che la tecnologia potesse essere più presente e più invadente. È stato un lavoro di pulizia e di sottrazione tecnologica. C’è sempre qualcuno che mi dice: “ah ma potremmo mettere gli ologrammi”. Quando mi chiedono che tecnologia uso, rispondo: “la tecnologia dei fratelli Lumiere”, che è un po’ uno snobismo, però è anche un po’ vero. Alla fine, il proiettore potrebbe avere la pellicola, e la superficie è una semplice superficie. Quindi in fondo i fratelli Lumiere avrebbero potuto fare tutto questo – lo specchio magico, infatti, già si usava nell’800.

Qualcosa che hai scoperto in itinere a cui non avevi pensato?

In realtà, avevo un po’ sottovalutato gli exhibit. All’inizio avevamo pensato di metterne uno per l’attesa. Invece poi realizzandoli, ho capito che diventavano una parte fondamentale del progetto.  Qualche giorno fa è venuta una persona molto importante di rilevanza internazionale. Quando ha visto la fotografia del Castel Sant’Angelo, ha esordito dicendo: “Castel Sant’Angelo lo conosco bene perché era una prigione dei papi,” e io ho detto “sì ma prima era anche il mausoleo di Adriano,” “ah sì?” E lei lo diceva pensando di essere preparata sul Castel Sant’Angelo. In realtà questo racconta il fatto che ogni cosa che vediamo a Roma è frutto di distruzione o costruzione e non sempre lo sappiamo. La vera novità qui però è la sintesi. Noi tutti leggiamo e studiamo la storia sempre per frammenti. È come se ci raccontassero la storia di Cappuccetto rosso, ma un giorno ci dicono del cestino, un giorno della nonna, un giorno del cacciatore, un giorno del lupo. Poi arriva qualcuno che ci racconta tutta la storia insieme. Questa è la vera novità. Questo raccontare la storia in sintesi. Quasi come in un indice, ma c’è tutta.

Welcome to Rome rimarrà così com’è o vedi dei cambiamenti?

Forse qualche exhibit potrà cambiare, ma tendenzialmente no. A Palazzo Valentini abbiamo festeggiato dieci anni dall’inaugurazione, ed è rimasto identico. Continua a funzionare proprio perché è un po’ in stile fratelli Lumiere, e non c’è tecnologia che invecchia. Ci sono proiettori a bassa risoluzione. Nulla toglie però che qualcosa si potrà integrare. Sono però soddisfatto della massa di esperienza – leggera ma piena.
Quello che fai è un lavoro di team?

Sì, nel senso che sono un po’ un autoritario – decido io. Ho usato quest’espressione che non è bella ma la verità è che ci vuole uno che decida, e io in genere decido anche abbastanza contro corrente. Però il team è composto di gente bravissima, selezionata anche sulla sopportazione – perché non è sempre facile.  Lo specialista che realizza i plastici – che fa anche tutti i plastici per Super Quark – è bravissimo però, se c’è da rifare la cupola di San Pietro la rifà. Dalle persone nel mio team so prendere il meglio ma loro mi sanno dare il meglio. C’è un ottimo gioco di squadra.

Hai ricevuto molti ringraziamenti per questo progetto. Hai anche ricevuto critiche? Quali?

Sicuramente c’è qualcuno che ha storto il naso. L’unica cosa che mi è stata detta che ricordi è: “ma si potrebbe aggiungere anche questo…” che è un commento di chi vuole dimostrare che sa anche lui qualcosa ma che non ha capito che qui l’operazione è stata sottrarre. Quindi, per esempio: “ma non si parla della Cappella Sistina, non si parla di Caravaggio, ecc.”

Pensi alla possibilità nel futuro di aggiungere delle installazioni?

Se avessi un’altra stanza, lo farei, anche se la durata totale della visita che è di poco più di 50 minuti è anche un po’ il tempo limite dell’attenzione possibile. Più o meno, come una lezione.

Qual è il futuro di Welcome to Rome?”

Io sono molto innamorato di questo progetto e vedo due grandi sbocchi. Uno è ripeterlo in altre città – anche New York per esempio. Mi piacerebbe trovare un italiano illuminato a New York che racconti la storia della città e l’arrivo degli italiani.  La città di New York potrebbe raccontare la sua storia, che sarebbe utile sia per quelli che arrivano che per quelli che già ci vivono. L’altra possibilità è prendere questo oggetto – Welcome to Rome – e riprodurlo in altre città. Il messaggio è: avete una grande passione per l’Italia! Ecco un assaggio. Clonarlo, insomma altrove. Queste sono le due grandi prospettive. Mi sono dato dodici anni, quindi non ho fretta.

Si ringrazia Paco Lanciano per il tempo e la disponibilità
Daniela Jerez per il lavoro di trascrizione.
(Intervista rilasciata il 21 Giugno 2018)

L'autore

Tania Convertini
Tania Convertini is Research Assistant Professor at Dartmouth College where she directs the Language Program in the Department of French and Italian. Her main areas of research include foreign language pedagogy and digital pedagogy, intercultural education, and media studies. She has published articles on the pedagogical use of film and technology in the language classroom, as well as critical readings of films, television shows and literary texts. Her current project explores the work of the Italian educator, humanist and television host Alberto Manzi and the role of Italian educational television in the 60s.