avvenimenti · In primo piano

Sapore e memoria

Ceci n’est pas une autobiographie: questa non è un’autobiografia. Antonietta Di Vito lo dichiara in epigrafe, parafrasando la celebre opera di René Magritte. Il tradimento delle immagini è così chiamato a evocare gli inciampi della parola, il rapporto – mai lineare – tra rimembranza e sublimazione. Non che l’autrice manchi di costeggiare le zone limitrofe al racconto di sé, ma La teoria della carruba (La bussola, 2021) appare piuttosto il resoconto di un’assenza, un inventario di cose perdute, tra smarrimento e sradicamenti.
Sulla scorta di una poetica che fa del frammento una forma narrativa eloquente, il dato personale è infatti sottoposto alle regole del gioco via via imposte dal romanzo di formazione, di famiglia, dall’intreccio tra macro e microstoria. Nella disorganicità del discorso, la forte incidenza del ricordo appare in tal modo finalizzata al recupero di una sensazione, di un dialogo, di qualcosa che è stato e che oggi non è. Non c’è un filo logico, l’anamnesi procede da sé e la vita risulta improntata a una casualità programmatica, a quella ‘simultaneità dei sogni’ che innerva la memoria.
L’autrice e io narrante, compenetrata nel ruolo di spettatrice critica, presenta la vicenda come uno sbocco dell’anima, laddove il racconto tattile dei luoghi («questa storia inizia in una grande cucina, con un grande camino») incrocia il mistero del pianto, l’origine di una vita che è costante auto-riflessione: «Quello che serviva a spiegare il pianto di quella bambina poi ragazzina, e dopo molti anni donna, era semmai uno storiografo, o un etnologo. Certamente un poeta: quel pianto era il lutto disperato per la fine di un Tempo. Una tragedia epocale, non individuale».
Il percorso intellettuale di Di Vito, etno-antropologa di raffinata sensibilità, trapela dall’attenzione al dettaglio, dallo sguardo fissato sulle abitudini e i luoghi, sulle usanze e le tradizioni via via amalgamate, soggette a livellamento e infine a cancellazione. Così le carrube, che nel racconto appaiono assimilabili alla madelaine proustiana, evocano un ricordo che è frammento di un altro mondo, del tempo dell’infanzia e di un’Italia ‘peculiare’, che Pasolini vedeva già omologata ma che dall’osservatorio di Palata, nel piccolo Molise, è ancora capace di conservare, di esprimere una propria storia:

Alle feste di paese, alle fiere, compravo le carrube. Sfuse o già pronte nelle bustine di plastica trasparente, come le noccioline americane e i lupini. Sulle bancarelle si potevano trovare anche semi di zucca seccati e salati, mandorle tostate e caramellate. I pistacchi devono essere arrivati in seguito. Io però volevo le carrube, che chiamavamo vainelle. Non so da cosa mi sia nata questa passione che non condividevo con nessun altro di mia conoscenza, ma a me piacevano e aspettavo queste occasioni rare durante l’anno per comprarle. […] In anni recenti ho scoperto le carrube in qualche negozio di granaglie e frutta secca di Roma, o in analoghi banchi del mercato. E quando qualche mese fa la mia amica ne ha portate da Scicli, raccolte ed essiccate con le sue mani, dai suoi campi, dai suoi alberi, non immaginava di risvegliare in me la passione sopita per questo misconosciuto frutto della sua terra.

Attivatore di memoria, la carruba è metafora del disuso, un dolce che al tempo era simbolo di felicità, bellezza delle piccole cose, e assurge ora a emblema di un mondo ‘antico’, che ha perso i suoi riti e i suoi frutti, soppiantati da prodotti in serie, da idolatrie posticce. Come quella del pane burro e marmellata, altra metafora alimentare che impone una riflessione sul proprio tempo, sull’edificazione di un ‘io’ che passa attraverso l’osservazione e i mutamenti della Storia:

Ricordo distintamente l’arrivo di quelle marmellate rosse purpuree brillanti e gelatinose che soppiantarono quelle casalinghe, dai colori e consistenza a volte incerti, con un’estetica, direi oggi, poco commerciale. Poco adatta a foto patinate per il nuovo utilizzo del condividere. Ma allora, quelle marmellate brillanti sembravano esse stesse uscite da quelle televisioni a colori che ancora non avevamo ma che qualcuno che diceva di averle viste ci raccontava. O dalle riviste che ci ammiccavano in edicola. Quel burro venduto a panetti nel suo involucro, che arriva dai negozi e prima da chissà dove, forse sembrava non sposarsi con le marmellate fatte in casa, che conservavano qualcosa di asprigno e forse erano poco adatte al burro, bianco e dolciastro anche quando manteneva un po’ di sapidità. Ed allora quelle conserve casalinghe apparvero d’un tratto povere, e ci si vergognò di scendere per strada con pane e marmellata. Figlie di un dio minore, l’epoca del “fatto in casa” tornò in auge qualche decennio dopo.

Tutto, nell’opera di Antonietta Di Vito, rivela una vocazione al recupero, il desiderio di aprire i cassetti della memoria per togliere la polvere dai vissuti, nascondendo – sotto l’intento catartico – un preciso desiderio epistemologico, per comprendere la potenza di ciò che è esistito, il valore del passato ai fini dell’accettazione della propria metamorfosi.
Non tragga dunque in inganno il titolo né il succoso ricettario comprensivo di acquasale, panecotto, fave con il burro, pane rognoso. Quello del cibo è un linguaggio che consente all’autrice di esprimere la costruzione della soggettività, la ricerca d’indipendenza, l’inevitabile adattamento a un universo altro. Così, mentre la grande storia scorre sullo sfondo (il rapimento di Aldo Moro raccontato dalla tv, la recente pandemia testimoniata dai media, nel chiuso delle proprie case), Antonietta Di Vito ricuce così i fili della sua esistenza e lo fa con sguardo vivo e partecipe, nella consapevolezza che la parola è sempre inganno e la memoria, per sua natura filtrante, ha bisogno del proprio tempo per poter essere coltivata.

Rammentare, rammendare, restaurare, riparare.
Chissà se è anche per tutte queste ragioni che ho sempre avuto la sensazione di dover cercare in un altrove indefinito la mia strada e perfino me stessa.
Salvo tornare a cercarmi agli inizi della storia, come se tutto il viaggio sia un lungo tornare a casa alla fine dell’andare.

ginevraamadio@yahoo.it

 

L'autore

Ginevra Amadio
Ginevra Amadio si è laureata con lode in Scienze Umanistiche presso l’Università Lumsa di Roma con tesi in letteratura italiana contemporanea dal titolo Raccontare il terrorismo: “Il mannello di Natascia” di Vasco Pratolini. Interessata al rapporto tra letteratura, movimenti sociali e violenza politica degli anni Settanta, ha proseguito i suoi studi laureandosi con lode in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con tesi magistrale dal titolo Da piazza Fontana al caso Moro: gli intellettuali e gli “anni di piombo”. È giornalista pubblicista e collabora con webzine e riviste culturali occupandosi prevalentemente di cinema e letteratura otto-novecentesca. Sue recensioni sono apparse in O.B.L.I.O. – Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca. Collabora stabilmente con Treccani.it, con il blog del Premio Letterario Giovanni Comisso e con le riviste Frammenti, Npc Magazine, Sapereambiente, Cronache Letterarie. Nel luglio 2021 ha fatto parte della giuria di Cinelido – Festival del Cinema Italiano dedicato al cortometraggio.