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Di là dal corpo

Ritengo che il libro La solitudine del cruciverba incompiuto, ancorché di genere narrativo, rivesta una pregnante importanza per l’antropologia medica, e anche se in questa sede non riporterò l’ampia bibliografia antropologica sui disturbi linguistici e sul rapporto tra linguaggio e temi correlati ai processi di salute/malattia, nelle brevissime note che seguono cercherò di spiegare perché.
Il libro non ha a che fare con quello di Leonardo Sciascia intitolato Cruciverba, che assumeva tale metafora di titolazione in maniera assolutamente letterale. Unica cosa che accomuna i due scritti è, forse, l’avere raccolto insieme brevi testi.
Intanto, mi sembra felice la soluzione di impersonare in molti dialoghi il malessere e la narrazione di un disturbo, il rapporto medico/paziente, quello salute/malattia, la questione corporea e la spinta volitiva del desiderio, le tematiche della comunicazione contemporanea e dei suoi mezzi e così via.
D’altronde l’impostazione dell’intero libro riguarda la relazione tra malattia e linguaggio (la scrittura).

Se è vero, alla maniera lacaniana che l’inconscio è strutturato come un linguaggio che non risponde alla logica dell’io cosciente, ho immaginato che quando l’inconscio rifiuta il linguaggio dell’io cosciente si fa creatore di curiose battaglie tra segno e significato, come dei colpetti irriverenti che erompono dai segni elementari del linguaggio e bussano alle porte dell’educazione linguistica (p. 7).

Sono queste le prime parole che incontriamo come Nota introduttiva dell’Autrice Sara Cassandra che fanno da premessa a una sequenza di trentadue episodi narrati tra i quali, secondo la stessa scrittrice, “alcuni più pregnanti di altri” come Tre parole vanno dal terapeuta (pp. 15-21) o anche Quando la filosofia non la prese con filosofia (pp. 26-30). Gli episodi sono narrati in forma di dialogo, con domande e risposte tanto che uno di essi sceglie esplicitamente la forma dell’intervista apponendo tale indicazione nel titolo: Intervista a un indovinelliere (pp. 113-118).
Nell’episodio che dà il titolo al volumetto, La solitudine del cruciverba incompiuto (pp. 92-95), così dice una voce narrante:

  • Mi sento un significante senza significato.
  • Mi sento un sogno sempre sognato, e mai ricordato e mai interpretato (p. 94).

Cosa vuol dire? È un gesto fonetico, disperato, come voce che trascende? Compone forse “giochi linguistici” (L’ateo che voleva smettere di dire oddio, pp. 96-98; La friendzone dell’Inconscio, pp. 99-102; Fuga dalla semantica, pp. 124-129)? Delinea “disturbi psicosemantici”? Oppure foggia semplici “vestiti” per il linguaggio?
Personalmente non credo che i giochi della lingua, scritta o parlata che sia, siano oggettivi disturbi psicologici. Essi non riflettono malesseri mentali. Non lo credeva Ludwig Wittgenstein, durante la svolta antropologica della sua filosofia del linguaggio e neanche lo pensava Massimo Troisi, rispetto alla propria “afasia” attoriale nel parlare dialetto napoletano. Neppure Antonio Gramsci lo riteneva possibile, anzi, polemizzando con Benedetto Croce, egli stigmatizzava le distanze che il filosofo napoletano aveva preso dall’espressione “questa tavola rotonda è quadrata”, ritenendola invece possibile a seconda del contesto e programmando di criticare l’opera del Croce su questo. Alla pag. 352 dei Quaderni del carcere (Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino, 1975) Gramsci annota: «Ricordare a questo proposito l’articolo del Croce Questa tavola rotonda è quadrata (nei Problemi di Estetica) dalla cui critica bisogna prendere le mosse per stabilire i concetti esatti in questa quistione».
D’altra parte, proprio come afferma un personaggio della seconda narrazione del libro di Cassandra, intitolata non a caso Tre parole vanno dal terapeuta (pp. 15-21), ritengo che per l’antropologia (medica), come per l’arte, siano importanti le forme più che i contenuti. Gli stessi modi di dire del nostro linguaggio quotidiano devono andare in analisi. Perché, come diceva Nanni Moretti nel film Palombella rossa, “le parole sono importanti”. Riecheggiano in questo i dibattiti antropologici sull’efficacia dei sistemi simbolici, sugli eventi comunicativi, sulla magia delle parole, sulla proiezione e la traducibilità, un tempo dominati dalla figura eterna di Claude Lévi-Strauss, maestro soprattutto della relazione fra antropologia e linguistica.
Oggi è il terapeuta occidentale ad avere più fiducia nei contenuti evidenti: le parole, certo, sono sostituibili, sono puro suono, non hanno contenuti, forse un tempo li avevano avuti, ma poi sono declinati e ora sono diventati “obsoleti”. D’altronde di metafore morte è pieno il linguaggio. Anche di quelle si nutrono i social nel momento contemporaneo. Lo scrive l’Autrice nel ventiduesimo episodio, dando della comunicazione su Internet e dell’umanità che vi si aggira un giudizio tutto sommato critico ed equilibrato. Sto parlando del breve episodio dal titolo Il protagonista dei social (pp. 108-112). In fondo oggi più che parlarci, scriviamo messaggi su WhatsApp.
Facebook, Messenger, notifiche, piattaforma sociale, utenza, raccolta fondi, virale, virtuale, profili, aforismi di Osho, home, click, flame, like, chat-bot, costituiscono nella narrazione proposta un gergo (che evoca anche quello da cellulare cui è dedicato l’ultimo episodio del libro di Cassandra, intitolato Le icone premurose dello smartphone, pp. 153-155), un lessico comunitario del presente che rischia di proiettarsi su quello tradizionale, financo di fagocitare quello medicale che pure fa capolino qui con il termine betabloccanti o con la locuzione rabbia reattiva.  Agganciandosi ad altri termini medici che fluiscono numerosi nell’intero testo. Ne riporto solo alcuni: placebo, dismorfofobico, dismorfologicofobico, dottore, terapeuta, medicine, malato, malattia, extrasistole, dolore, antidolorifici, disturbi, pulsazioni cardiache, aritmia, sindrome rara, crollo pressorio, disturbo psicosomatico etc.
Non c’entra nulla il disturbo mentale, o il contenuto, perché è nella crisi, nella contraddizione e nella forma del proprio malessere e del proprio dolore che giace una nuova potenzialità descrittiva. Forse l’unica. L’ultima. In questo tempo di ferro e di fuoco è il corpo proprio il vero soggetto politico, cognitivo, esistenziale, fenomenologico, individuale e collettivo, sociale. Di là dal corpo, resta l’ineffabilità incarnata. Che si frappone alla coscienza e fiorisce all’ombra della semiosi. C’è un che di teatrale in questa scrittura del corpo, anzi in questa scrittura dal corpo: una necessaria etnografia dei processi di incorporazione (Thomas Csordas, Embodiment as a Paradigm for Anthropology, “Ethos. Journal of the Society for Psychological Anthropology”, V. 18, N. 1, pp. 5-47).
Il desiderio di un desiderio (pp. 103-107) è una breve riflessione in forma narrata che costituisce la testimonianza, la prova dell’assioma: una volta ottenuto tutto ciò che si desidera e quindi raggiunta la vera felicità che ne è del desiderio? Sparirà? Mancherà? Si passerà dall’infinito al finito e viceversa per riacquisire amore per la vita? Forse, come risponde il saggio del racconto alle domande del ragazzo, guardando in alto, il cielo, in entrambi i casi? Cioè, per passare dalla felicità alla tristezza e dalla tristezza alla felicità?

Ti svelo un segreto, ragazzo. Io guardo il cielo quando mi sento felice per tornare alla tristezza.
E poi guardo il cielo quando mi sento triste per tornare alla felicità.
Com’è possibile? Come può trasformare così il suo stato d’animo?
Chi rivolge lo sguardo agli astri e intuisce l’infinito può sostare lì infinitamente senza morire. Poiché è felice, ma non di una felicità compiuta. Poiché è triste, ma non di una tristezza compiuta. Il solo accorgerci che lì, da qualche parte, esiste qualcosa di infinito, ci libera dagli stati di coscienza bloccati, asfissianti, totalizzanti.
È per questo che adesso mi sento improvvisamente più triste ma al contempo più felice di prima?
Si, deve essere l’effetto del cielo. Guardalo. Non lo vedi che parla?
Sta dicendo: non sarai per sempre triste, non sarai per sempre felice.
Il cielo conosce l’eternità senza il filtro della finitezza.
Il cielo sa che nell’eternità si vive solo passando da un polo all’altro.
Il ragazzo si fece scappare un leggero sorriso.
Che però non gli disegnava la felicità sul volto.
Né gli disegnava la maschera della tristezza.
Mi sa che abbiamo bisogno dell’infinito per vivere il finito (pp. 106-107).

In definitiva è Sara Cassandra Il cigno da biblioteca (pp. 134-136). È lei a distruggere il senso comune collettivo, gli stereotipi e i pregiudizi, le opinioni della maggioranza coagulate in «modi di dire fumosi e avariati» (La vita è una sola: vivila! Cercala e chiedile spiegazioni!, pp. 119-12) e in questo esercizio della critica pubblica è un po’ antropologa, ma la solitudine non è il suo debole. Anzi, è proprio questa emozione di marginalità che le impedisce di cadere sulla terra sdrucciolevole della compagnia, di scivolare su quella unta dalla folla.  Il suo libro mostra come ci si possa spostare abilmente con la stesura di un testo, facendo più di un passo laterale rispetto alla comunicazione linguistica, sottoponendo le medesime parole dominanti (silenzio, ghostwriter, impostore…) a curvature decisive, all’evacuazione o alla superfetazione di senso prodotte dall’ironia (ho un autore che scrive per me e tutto quello che scrive è firmato col mio nome, p. 11), una procedura stilistica che più di ogni altra apre a un dialogo vero, sottraendo per sempre il  discorso intimo al solipsismo. Qualcuno direbbe che si tratta di esperimenti linguistici. Io non la penso così. Questo libro mi è piaciuto assai, sa fondere riflessione, suggestioni di ricerca e forma espressiva in maniera per me molto bella e ne consiglio la lettura a tutt*.
Perciò in chiusura dedicherei all’Autrice le parole che Carl Gustav Jung scrisse per l’Ulisse di James Joyce (ora in Jung, C. G., Opere complete, Bollati Boringhieri, Torino, 2015, Edizione Kindle, pp. 5962–5992, ediz. origin.: “Ulysses”. Ein Monolog, “Europäische Revue”, V. 8, settembre 1932, poi incluso in: Wirklichkeit der Seele, Rascher, Zurigo, 1934, traduz. ital., Realtà dell’anima, Boringhieri, Torino, 1963).
Sostituisco nella citazione l’invocazione all’Ulisse con il titolo del libro di Cassandra e rimpiazzo il numero 18 con il 32, cifra, quest’ultima, che indica l’ammontare degli episodi narrati:

Oh Solitudine del cruciverba incompiuto, tu sei un vero libro di devozione per l’uomo dalla pelle bianca che ha fede nell’oggetto e che è dannato ad esso!
Tu sei un esercizio, un’ascesi, un rituale tormentoso, un procedimento magico, 32 alambicchi d’alchimia in catena, e in essi si distilla con acidi, con vapori velenosi, col freddo e col caldo, l’omunculo di una nuova coscienza del mondo!
Tu non dici né tradirai nulla Solitudine del cruciverba incompiuto; ma agisci. Non c’è più bisogno che Penelope tessa un drappo senza fine: ora essa sta lieta nei giardini del mondo, perché suo marito è tornato dai vagabondaggi e dagli errori. Un mondo è trascorso e un altro mondo è nato.
Poscritto: Ecco che ora procedo discretamente con la lettura.

 

 

 

 

L'autore

Giovanni Pizza
Giovanni Pizza è professore ordinario di Antropologia medica e culturale presso il Dipartimento di Filosofia, Scienze Sociali, Umane e della Formazione (FISSUF) nell’Università di Perugia e direttore della Rivista “AM” della Società italiana di antropologia medica (SIAM), ora pubblicata in open access. Tra i volumi monografici curati vi sono: Figure della corporeità in Europa (“Etnosistemi, Processi e dinamiche culturali”, A. V, N. 5, CISU, Roma 1998); con H. Johannessen, Embodiment and the State. Health, Biopolitics and the Intimate Life of State Powers (“AM. Rivista della SIAM”, N. 27-28, Argo, Perugia-Lecce 2009); con A. F. Ravenda, Presenze internazionali. Prospettive etnografiche sulla dimensione fisico-politica delle migrazioni in Italia (“AM. Rivista della SIAM” N. 33-34, Argo, Perugia-Lecce 2012) ed Esperienza dell’attesa e retoriche del tempo. L’impegno dell’antropologia nel campo sanitario (“Antropologia Pubblica”, V. 2, N. 1, Clueb, Bologna 2016). È Autore di numerose pubblicazioni, tra le quali i seguenti libri: L’antropologia di Gramsci. Corpo, natura, mutazione (Carocci, Roma 2020); Il tarantismo oggi. Antropologia, politica, cultura (Carocci, Roma 2015); La vergine e il ragno. Etnografia della possessione europea (Quaderni di Rivista Abruzzese, Lanciano 2012); Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo (Carocci, Roma 2005); Miti e leggende dei pellerossa (Newton Compton, Roma 1988).