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Lo fele e la cruna di Daniele Piccini

«Lascio lo fele e vo per dolci pomi». Daniele Piccini decide di porre in esergo al suo nuovo libro di poesie, intitolato Per la cruna (Crocetti, 2022), questa citazione dantesca, tratta da Inf. XVI, 61. Già in altre occasioni l’autore ha reso omaggio all’Alighieri citandolo in apertura alle sue opere poetiche: è il caso di Inizio fine (Crocetti, 2013, 2021), in cui si cita invece Par. XVII 66 («ella, non tu, n’avrà rossa la tempia») e di Canzoniere scritto solo per amore (Jaca Book, 2005), in cui si cita Purg. XXIV 76-78 («”Non so”, rispuos’io lui, “quant’io mi viva; / ma già non fia il tornar mio tantosto, / ch’io non sia col voler prima a la riva”»).

Il caso di Per la cruna risulta alquanto rilevante: il titolo sembra ribaltare il significato del secondo emistichio dantesco, col quale si lega grazie alla ripresa della preposizione per. Questa, in entrambi i casi, indica l’idea di attraversamento con un complemento di moto per luogo figurato; mentre Dante abbandona l’amarezza, lo fele, per passare attraverso i dolci pomi, Piccini ricorre all’uso di un’iperbole visiva che indica l’attraversamento della cruna di un ago, passaggio tutt’altro che dolce. In questo senso è possibile considerare il termine cruna come equivalente del fele dantesco, che, posposto, anziché denotare il luogo da cui si esce, indica quello in cui si passa. Un altro omaggio a Dante, più precisamente a Par. III, è presente nella poesia numero XV, dove il poeta ricorda «La sera in cui parlammo di Piccarda. / “Forse Dante voleva un po’ di bene / alla ragazza – disse – trascinata / fuori dal dolce chiostro / senza biasimo, lei perla che splende”».
La cruna è lo spazio in cui si ripercorrono le vicende passate dell’io lirico. Questa dimensione narrativa è esplicitata anche nel risvolto del libro, che viene lì presentato come una delle possibili manifestazioni del poema moderno: «A essere in questione, in questo poema per brani, è la memoria e con essa la purificazione». Dunque, l’atto poetico è un depuratore del passato ed è allo stesso tempo mezzo e fine. Se Per la cruna è un poema, la sua trama non può essere facilmente riassumibile, ma un indizio della sua esistenza è dato al lettore, non a caso, con l’ultimo verso della prima poesia: «Cosa sarebbe stato, non sapevo». Cosa sarebbe stato passare attraverso la cruna dell’ago, infatti, l’io lirico è disposto più a evocarlo che a raccontarlo, e per questo motivo la trama risulta un sottotesto essenziale ma inavvicinabile. Essendo la memoria il tema dominante del libro, il rapporto di ogni brano con gli altri è primariamente individuabile dall’uso dei tempi verbali. I tempi principali vengono adoperati per quei componimenti di carattere riflessivo, che nell’economia del poema fungono da cornice o da legame tra un tema e l’altro. Si osservino ad esempio alcuni versi del componimento XXIII: «La distesa dei giorni / non si traversa in quiete. / Presto si stringe la giostra dei vivi / attorno al volto solo, / alla memoria ardente». Ecco come appena cinque versi all’indicativo presente ragionano sul tema del titolo («non si traversa in quiete») e su quello dominante («alla memoria ardente»). C’è inoltre un dedicatario dell’opera che ritorna esplicitamente in diverse poesie, la Primavera, maschera di un soggetto indefinito che, di fatto, è la vera ragione per cui questi versi sono stati composti. Probabilmente si tratta di un caso di memoria letteraria, con riferimento a una poesia di Mario Luzi, Primavera onnipresente contenuta in Sotto specie umana (Garzanti, 1999).

Infatti l’autore de Il giusto della vita è forse il poeta del Novecento che più fra tutti Piccini ha preso come modello e sul quale ha scritto una corposa monografia che ne approfondisce tutti gli aspetti, da quello biografico a quello filologico (Luzi, Salerno, 2020). L’atto poetico come purificazione è tutto dedicato non alla Primavera, ma a una Primavera. In una delle poesie più brevi della raccolta, la XXXII, quest’ultima viene in parte rivelata: «Scrivo di lei come di una stagione». La stagione primaverile copre il volto di una lei per la quale l’io lirico, fondamentalmente, scrive. Allora si evince che il desiderio e la memoria sono gli oggetti interiori che il poeta esprime — il primo come riflessione, il secondo come racconto — e che la stagione è invece la causa dell’atto poetico. Fortemente rilevante è la posizione di due versi di due poesie consecutive, la numero LVIII e la numero LIX. La prima infatti si conclude con «il dolce soffio della primavera», mentre la prima si apre con «Primavera del mondo – dissi a labbra / dischiuse – che sei qui e in ogni dove, / che più apri nei poveri e nei semplici / la tua parola, diamante che incide».

Torna in Per la cruna, come accennato, anche il tema del desiderio, al quale Piccini ha dedicato una raccolta di articoli chiamata, per l’appunto, La letteratura come desiderio. «Così saliva verticale e buio / il desiderio sciolto della legge, / ricondotto alla fonte», si legge all’inizio della poesia numero LVII. Le manifestazioni del desiderio nella sua opera sono molteplici e la stessa parola assume diversi significati a seconda dell’uso. In posizione di rilievo, il desiderio compare anche nella raccolta Inizio fine, nella prima poesia della sezione Cellule: «Sono colpevoli di desiderio, / una ferita centrale che sanguina / di tempo in tempo che non si rimargina, / fonte d’acqua battesimale e fango». Paolo Lagazzi, nell’introduzione a La letteratura come desiderio, osserva che quella di Piccini è una vera e propria “passione” e scrive che «non è un caso, comunque, che […] abbia intitolato Con rigore e passione [I Quaderni del Battello Ebbro, 2001] un’altra sua scelta di saggi». Il rigore con cui il filologo lavora e ricerca in ambito accademico si riflette nella passione — altro termine con buona probabilità ripreso da La Passione di Luzi — rivolta alla cura dei propri versi, in particolar modo dal punto di vista metrico.
La raccolta contiene ottantasei poesie brevi, le più lunghe delle quali non superano i quaranta versi. Il metro principale è l’endecasillabo a cui si aggancia una modesta quantità di settenari. Altre misure più brevi, per esempio il quinario o il quaternario, vengono inserite nei punti chiave della versificazione e molto spesso le loro accentazioni, se accostate a quelle del verso precedente, dànno l’idea di un endecasillabo spezzato. È possibile inquadrare le scelte metriche dei testi se le si mettono a confronto con il sesto capitolo de La gloria della lingua (Morcelliana, 2019), intitolato A chi parla la poesia. In esso, vengono esaminati i criteri metrico-compositivi di alcune poesie di Giovanni Raboni, ponendo l’attenzione su alcune forzature ritmiche o, più in generale, sulle infrazioni alle norme metriche che si sono imposte nella tradizione lirica italiana. Raboni, per fare solo un esempio, accenta sulla quinta sillaba («asìlo a cercàre nei sògni il pòco») alcuni endecasillabi che vengono definiti sordi o anti-tradizionali. Questa attenzione filologica alla metrica rende chiaro come tutta la produzione del poeta cerchi di prendere a modello la tradizione, dalla quale si è allontanato il contesto letterario di oggi. Lo stesso saggio La gloria della lingua, sulla sorte dei poeti e della poesia prende in esame i grandi della poesia italiana dalle origini al Novecento. Nel secondo capitolo, L’impossibilità della gloria e il “tu” della poesia, Piccini analizza l’uso della seconda persona singolare in poeti come Giacomo Leopardi, Vittorio Sereni, Eugenio Montale e Aldo Capitini. In Canzoniere scritto solo per amore, il “tu” attraversa praticamente tutte le poesie. Si legge nella seconda poesia della sezione L’angelo della letizia: «Continuo a scrivere di te / come se tutto fosse in salvo…». Il procedimento è analogo a quello letto nella poesia XXXII. Anche in questo caso, il “tu” è la causa dell’atto poetico. In Per la cruna si adotta la seconda persona con la stessa funzione còlta nella celebre lirica Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Leopardi. Semplicemente commentando il primo verso («Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai») il filologo scrive che «colui che dice “io” nel testo, dunque, si rivolge a una presenza inanimata, eppure pensata e figurata come interlocutrice, appunto femminile.» Il “tu” del poema non è quello “istituzionalizzato” di A Silvia o quello “retorico” di Montale. La differenza tra il “tu” del Canto notturno e quello di Piccini sta nel fatto che il destinatario non è una presenza inanimata come la luna, ma un’assenza, di cui nonostante tutto il lettore percepisce i movimenti, i caratteri e la forma.

niccolobrunelli@libero.it

 

L'autore

Niccolò Brunelli

Niccolò Brunelli, studente e laureando in Lettere Moderne all’Università degli Studi di Perugia, si occupa principalmente di Letteratura del ‘900, con particolare attenzione a Giorgio Manganelli, suo punto di riferimento letterario. Bibliotecario e libraio a tempo - quasi - perso, è appassionato di musica ed è un pessimo giocatore di scacchi.