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Nutrire i sogni

A distanza di venticinque anni, finalmente riascoltiamo la voce di Luigi Amendola, poeta scomparso ancora giovane nel 1997.

Quando, nel 1982, uscì Ipotesi di fuga, il primo libro di Luigi, ne scrissi una recensione che cominciava citando il primo verso del libro: Ascoltare mi è intollerabile, per dire di una poesia in cui era lo sguardo il protagonista assoluto. L’ascolto, in quel libro, era legato a fenomeni sempre inquietanti. La vista, invece – mi pareva volesse dire Luigi –, stabilisce un equilibrio; lo sguardo, specchio del mondo, permette la conoscenza delle cose. E dopo lo sguardo viene la scrittura: gesto d’affezione della mano all’occhio, dice un verso.

La nitidezza, la precisione geometrica di quei versi – che mi fecero paragonare le poesie a certe nature metafisiche di Giorgio de Chirico – in seguito non vennero meno, ma il sentimento poetico di Luigi è cambiò, crebbe; la sua visione si è arricchì di umanità, di quei “movimenti umani” di cui parla Dante nell’ultimo canto della Commedia: sentimenti, “passioni” che diedero anima sensibile alla precisione speculativa della sua poesia, rimasta comunque affidata a modi verbali di tempo presente. Del resto, il presente era il solo tempo che lo interessasse davvero, perché nel presente amava vivere.

Da 25 anni ho in mano un dattiloscritto di Luigi – successivo a Ipotesi di fuga – che mi ripromettevo di far pubblicare. Ovviamente ho aspettato troppo e Simone, il primogenito di Luigi, mi ha preceduto. Ha fatto bene. E – aiutato da Giulia Anania, poeta e figlia di poeta – ha saputo integrare quella prima ipotesi di libro (che Luigi aveva chiamato Acquedotto felice) rimescolando i testi dopo avervi aggiunto le poesie che il padre aveva scritto successivamente, e in molti casi lasciato inconcluse, non rifinite (come testimoniano le due foto presenti nel libro) scegliendo solo quelle compiute. Simone e Giulia – merito alla loro sensibilità – hanno ordinato poi le poesie in sezioni, dando ad ognuna un titolo chiaro e appropriato. Il lavoro finale è questo libro, Lettera a Telemaco, ed è un ottimo lavoro. Sono certo che Luigi stesso ne sarebbe soddisfatto.

Quel che dicevo poco fa – di una poesia al presente – resta valido, con le dovute differenze, anche per questo libro postumo, che però sviluppa un percorso affatto diverso (ripropone anche sette testi da Ipotesi di fuga, scelti da Luigi stesso): anche qui, poesie scritte – e dati gli argomenti, si nota ancor di più – in presa diretta, in media res, come si dice, e talvolta nell’attualità Sono certamente più personali, c’è sempre un interlocutore reale (la moglie, il figlio – i figli –, gli amici) e le situazioni sono concrete, del presente, per capirci, quasi mai della memoria. Ma non c’è in esse l’inquietudine che si leggeva in filigrana nel primo libro. O non è un’inquietudine dello stesso segno: se c’è, qui è figlia della salute compromessa, con tutte le conseguenze connesse. Chi leggerà il libro, vi troverà testi davvero belli, piccoli capolavori di umanità e di poesia. Ne cito uno, Brindisi, poesia dedicata al fratello Tonino, (anche perché – se permettete un pizzico di compiacimento – vi ho riconosciuto un mio verso, citato dal mio primo libro, che Luigi aveva recensito con grande sensibilità). Ma, naturalmente, non posso non citare il più bello e toccante: Pervinca, vero gioiello, e vertice della poesia di Luigi. Ho detto “toccante”, perché è esattamente questo che fa: ci tocca, tocca i nostri sentimenti, ci fa testimoni dell’angoscia di una scoperta terribile per chiunque e che mette in forse il futuro. Tutto questo noi – noi lettori – lo sentiamo chiaramente, ma tanto più lo sentiamo quanto meno la scrittura è patetica. Lo sentiamo certamente perché sappiamo quel che è seguito a quella scoperta. Eppure la lettura del poemetto non autorizza a pensare, mi sembra, niente del genere. Voglio dire che Luigi, nella scrittura, sa mantenersi sereno e quasi distaccato (per non dire, a momenti ottimista, se leggiamo l’ultimo verso del poemetto e del libro, dove dice di essere “mite e inaffondabile” e perciò di farcela – di farcela a resistere alla malattia), senza rinunciare all’osservazione lucida, alla chiarezza – ma nemmeno allo stupore e spesso all’ironia – che sono poi i veri segnali del suo dolore. Il distacco quindi è nella forma, nel lessico, nella metrica; e, viceversa, non è nei sentimenti. Ed è questo che deve fare la poesia; che sa fare un poeta vero. Del resto, quella mite inaffondabilità durò per più di dieci anni e i suoi frutti poetici sono appunto quelli che, nel libro, precedono Pervinca.

(L’unico rimprovero che – tra parentesi – mi sento di fare ai due bravi curatori è quello di aver escluso il poemetto che dava il titolo al libro immaginato da Luigi, L’acquedotto felice, perché è bello).

Ma ora, dopo averne ricordato la poesia, vorrei ricordare l’uomo che Luigi era; vorrei ricordare le nostre passeggiate, in anni lontani, lungo i vialetti di Villa Borghese, nell’intervallo per il pranzo. Quando, mangiando un panino, parlavamo di poesia, e in genere di letteratura, degli autori che stavamo leggendo, della nostra vita, ché spesso le due cose coincidevano. Ci consigliavamo libri e dopo averli letti ne discutevamo. Fui io a consigliargli il Diario di un millennio che fugge di Lodoli (che cita in Un anno letterario); fu lui che insistette perché leggessi Le ceneri di Gramsci e in generale la poesia di Pasolini.

Quelle passeggiate letterarie – io le chiamo ancora così – erano – per citare uno dei tanti autori di cui si parlava – “isole nella corrente” di una quotidianità francamente arida e dura a sopportarsi. Se non fosse stato per quelle occasioni d’incontro.

Con Luigi, ci eravamo conosciuti alla fine degli anni Settanta. Fui io a cercarlo quando seppi che aveva dato vita a una rivistina, Blackout, niente più di un foglio. Idea temeraria, quella di una rivista di poesia in banca, pensai. E volli conoscerlo. Cominciò così la nostra amicizia. A corollario di quella nostra conoscenza, poco dopo organizzammo una manifestazione chiamata Poesia verso… Con l’ausilio tecnico ed economico del Circolo Culturale e Ricreativo della Banca, invitammo venti giovani e giovanissimi poeti (non solo romani), fra quelli che ritenevamo i più promettenti e bravi, a leggere le loro poesie nella sede del Circolo (in una traversa di via Veneto, a Roma). La manifestazione – e l’antologia che ne seguì – ebbero un certo successo: ne parlò l’edizione romana del “Corriere della sera” e, se non ricordo male, il glorioso “Paese sera”. Da organizzatori, volemmo restare fuori come poeti: fu un’ingenua presunzione di neutralità che poi un po’ rimpiangemmo: non lo faceva nessuno.

E lo spettacolo teatrale di alcuni anni dopo? Alla sala Borromini, insieme a Jole Tognelli, Sara Zanchì, Daniela Attanasio, Goffredo Masotti e, appunto, Luigi ed io. Ero uno spettacolo di lettura di alcune nostre poesie un po’ teatralizzate. Non sono riuscito a ricordare come l’avevamo intitolato. Era qualcosa che aveva a che fare col famoso libro di Mario Praz La carne la morte e il diavolo nella letteratura romantica. Ricordo solo che al posto di “diavolo” noi avevamo “tavolo”.

Saltando a molti anni dopo… Quando Luigi lasciò la Banca, ci vedemmo più di rado. Una grande emozione suscitò in me la lettura del suo Carteggio del rancore, un bel romanzo autobiografico – oggi si dice memoir –, sul rapporto padre figlio, pieno di umanità e di dolore. Quando ci si incontrava era una festa e l’occasione per metterci in paro con le letture, la scrittura, la vita. Da parte mia non c’era mai molto da raccontare, ma Luigi era sempre pieno di impegni, di iniziative: teneva corsi di scrittura, scriveva su riviste, spesso fondate da lui, partecipava ad iniziative editoriali – come fu la fondazione di Minimum fax, prima rivista e poi casa editrice, dei suoi giovani amici Marco Cassini e Daniele Di Gennaro, pubblicandovi due aurei libretti: Esercizi di felicità e Segreti d’autore.

Sento – lo confesso – il grande rimorso di non averlo visto più di frequente, specie negli ultimi tempi della sua vita.

Un anno prima della sua scomparsa chiesi a Luigi di leggere il libro che stavo per pubblicare, L’osservatorio. Volevo – gli scrissi – un giudizio “amichevole e severo”: “amichevole, cioè partecipe; severo, cioè impietoso come verso te stesso”, concludeva la formula, che in altra occasione era stata sua, e che allora facevo mia. Il giudizio fu amichevole ma per niente severo. Dalla sua lettera di risposta, vorrei trascrivere qualche brano. Non la parte più tecnica della risposta, naturalmente, ma quelle parti dove, credendo di parlare del mio lavoro, e sia pure per accenni, Luigi parla del suo. Ciò consente di leggere più consapevolmente anche il libro di cui stiamo parlando. Così, Luigi scriveva:

«Caro Francesco, leggerti è sempre un grande piacere! Ho appena finito di gustarmi tutto L’osservatorio e la sensazione è quella di chi ha imparato che la poesia possa dire l’indicibile. O meglio la tua poesia. Leggerti acuisce in me il rimpianto di non avere più quelle occasioni di dialogo con te che mi hanno tanto nutrito. Forse in questo tempo ho alimentato un percorso personale di piacere anteposto all’ansia di affermazione letteraria, ma è un altro discorso. I valori poetici rimangono per me gli stessi, al di là che raccontino la sofferenza o siano la rappresentazione grafica della sofferenza (come lasci intendere tu).
Il tuo Osservatorio ha un valore assoluto, già ho avuto modo di dirtelo… L’osservatorio serve a vedere la vita da un punto privilegiato (la poesia), non pannolini-fondi del caffè-uffici-tradimenti-sconfitte, ma tutto insieme. La vita, appunto.
Mi è difficile scendere nel dettaglio, mi sembra di svilire la bella sensazione d’insieme che ho provato. [ … ]».

La lettera terminava così:

«Mi auguro di averti confuso le idee… Non credo che la poesia debba promettere perfezione, ma tensione; un verso non riuscito non svilisce un’opera, anzi l’esalta, la rende meno algida, riconduce il lettore all’imperfezione biologica del poeta. Insomma lo fa palpitare all’unisono. So che l’anelito di perfezione dello scrittore deriva proprio dalla consapevolezza della propria imperfezione umana, ma che non diventi un alibi per nascondersi alla vita…
Scusa le chiacchiere, è stata un’ottima occasione per parlarti, a distanza… Mi auguro di esserti stato, seppure parzialmente, utile. Come avrai capito, preferisco scrivere che telefonare, mi sembra di far cagliare meglio le idee. Io continuo a scrivere in prosa, a nutrire i sogni. Il mio lavoro? La strada della libertà non è mai assoluta e definitiva… Anche la felicità è un esercizio quotidiano. È stato un vero piacere, leggerti e pensarti. Un caloroso abbraccio. Luigi».

Pensiamo a queste parole di chiusura, così serene e così intense, se appena si riflette a quanto poco gli restasse per esercitarsi alla felicità.

Voglio concludere ricordando che, alcuni anni dopo la sua scomparsa, feci un sogno. Sognai d’incontrare Luigi sul Ponte dell’Angelo, davanti a Castel sant’Angelo, pochi giorni dopo la sua morte; sognai che aveva in mano la lettera che ho appena trascritta e che me la porgeva; sognai che poi si sporgeva a guardare l’acqua del Tevere e che mi parlava di sé malato. La mattina dopo scrissi la poesia che segue (inclusa nel mio Lezioni di respiro):

Parole di Luigi in sogno
(la notte del 14 giugno 2001)

I

Era il ponte dell’Angelo deserto
nell’ora antelucana, camminavi
con la pietas di giovane poeta
morto da pochi giorni, sorridente
ma pallido tenevi in una mano
e mi porgesti un foglio: era la lettera
di critica e conforto che riposa
fra le mie carte ripiegata e muta
da tempo. “In questo tempo ho alimentato
un percorso personale di piacere
anteposto all’ansia di affermazione…”
lessi con gli occhi della mente mentre
dalla spalletta grigia ti sporgevi
a guardare sull’acqua lenta e cupa.

“Un sonno pieno d’incubi m’inghiotte
appena poso il capo sul cuscino.
Mi sveglia la paura ma ogni notte
l’abisso è più profondo e più vuoto
il tempo che vi resto. Ecco la sorte
che aspetta chi è tradito chi è sconfitto
dalla vita, una trama senza ordito…”
dicesti cauto ma gli angeli di pietra
erano sordi alla tua voce e immobili
aspettavano il raggio rosa che levandosi
sui colli Albani annunciasse l’alba
e dardeggiando fra gli attici colpisse
sulla punta la spada dell’arcangelo
e gli ferisse gli occhi vuoti e muti.

II

L’altra volta era ponte Umberto I
una fresca mattina di febbraio
senza vento sul tardi nel cotone
del cielo s’era aperta una schiarita
e c’erano i gabbiani numerosi
e affamati che avrei messo nei versi.
L’altra volta eri vivo. Adesso parla
la cattiva coscienza: tradimenti
e sconfitte, è là che il tempo indugia
che frena i passi e rallenta la corsa
abbandonandosi al piacere segreto
della lentezza. Anche l’amore è un abito
cucito su misura per la nostra
vanità, per il nostro egoismo?

“… io continuo a scrivere in prosa
a nutrire i sogni. I valori poetici
restano gli stessi al di là che raccontino
la sofferenza o ne siano (come lasci
intendere tu) la rappresentazione…

La vita vista dall’osservatorio,
da un punto (la poesia) privilegiato.
Ma nutrila di eventi…” (Qui la voce
cadde stanca). Intendevi la poesia.
Dalle ali di pietra la luce pioveva
sull’acqua suscitandone barbagli.
“La strada della libertà non è mai
assoluta e definitiva. Anche la felicità
è un esercizio quotidiano”.

E voglio concludere questo ricordo con uno dei suoi pensieri: “provare gratitudine per ogni cosa e persona è già un tuffo nel grande mare della felicità”. Grazie sempre, Luigi.

 

 

L'autore

Francesco Dalessandro

Francesco Dalessandro (1948) ha pubblicato diversi libri di poesia e di traduzioni. Le sue ultime opere edite sono: Figure d’ombra (Puntoacapo Editrice, 2018, finalista “premio Metauro”) e Dediche e Imitazioni (InternoLibri, 2022). Le traduzioni più recenti: Chiave del sogno, poesie di Eloy Sánchez Rosillo (Contatti, Genova 2019), Fammi lezione, Musa, i sonetti e altre opere di John Keats, (Contatti, Genova 2021).





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