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Lo scricchiolio del corpo fracassato

Quando Biagio Marin venne a conoscenza della tragica morte di Pier Paolo Pasolini ne rimase profondamente turbato; tale scuotimento d’animo lo indusse a scrivere in brevissimo tempo un profluvio di versi dedicati al poeta che fu, alcuni anni prima, suo principale scopritore e promotore e che curò, nel 1961, la pubblicazione della sua antologia Solitàe. A poco meno di due settimane dalla morte del poeta, il 14 novembre del 1975 Marin scrisse una lettera all’editore Vanni Scheiwiller, domandandogli di pubblicare le sue tredici liriche scritte in memoria di Pasolini. Così, l’anno successivo, per le edizioni All’Insegna del Pesce d’Oro nella collana “Acquario”, venne stampato in mille copie numerate El critoleo del corpo fracassao, litanie a la memoria de Pier Paolo Pasolini. L’ultima ristampa risale al 2021 per Quodlibet nella collana di poesia bilingue “Ardilut”, a cura di Giorgio Agamben, con le traduzioni di Ivan Crico.

Il Pasolini ricordato da Marin nelle sue litanie è soprattutto quello di Poesie a Casarsa e de La meglio gioventù. Il senso di vicinanza al poeta friulano si coglie immediatamente nell’utilizzo del graisan, idioma gradese appartenente al ceppo veneto; inoltre, i richiami al Friuli sono continui e insistenti anche sul piano contenutistico: per Marin la terra friulana è “la più bela che sia”, è terra incantata, sana. La fuga dal Friuli si configura invece come un viaggio verso un mondo perverso, cui Pasolini appare destinato per un marchio impressogli alla nascita, per un’inclinazione naturale alla quale non ha potuto (né voluto) sottrarsi: “Perché, fradelo, / tu l’hai lassao? / sesso sfrenao, xe stao / un mortal ritornelo” (Perché, fratello, / l’hai lasciato? / Per te il sesso sfrenato / un mortale ritornello). Si può pensare che Marin attribuisca qui le ragioni della fuga dal “Friuli beato” alle conseguenze derivate dal noto scandalo di Ramuscello, ma, coerentemente con la pervasiva fatalità che impregna i versi mariniani, è possibile scorgere in essi una più sottile accezione: il “tepido sol” della terra materna è stato insufficiente a soddisfare la vitalità disperata di un uomo come Pasolini, la cui fuga incontrò Roma, “tutta vizio e sole, croste e luce: un popolo invasato dalla gola di vivere”, capitale dove tutto, poesia e umanità, gli apparì moltiplicato rispetto a quanto accadeva in Friuli.

La “brama impura” che pervase Pasolini come “un ossesso” – la “pederastia”- fu per Marin la causa della sua rovina, la sua condanna a morte. Eppure, dopo aver sottolineato con durezza la propria distanza etica e ideologica da Pasolini in quanto uomo “de l’amor de femena estromesso”, marxista e scandaloso cineasta, Marin ammette che egli non è morto da solo: “Tu don Quixote / e noltri Sancio Pansa / […] Volevemo godê de duto” (Tu Don Chisciotte, / e noi Sancho Panza / […] Volevamo godere di tutto.)

Ivi Pasolini subisce la metamorfosi in maestro di fine intelligenza e lucente gentilezza, così carismatico da farsi messia, posto a capo -come un profeta, appunto – di un intero “fior de zoventù” che s’innalza in volo dietro di lui.

La sua simbolica morte, nella retorica mariniana, ne dilata l’esistenza epurandolo dai peccati ed elevandolo al grado di un martire. Il clima sacrale di predestinazione e redenzione si avverte in effetti sin dall’inizio, annunciato in epigrafe con una citazione dalle lettere di San Paolo ai Romani: “poiché chi è morto è, per diritto, affrancato dal peccato”.

I fratelli friulani, dopo la sua morte, aspettano “col cuor in man” l’usignolo il cui canto si levò per coloro che non seppero ascoltarlo. Attraverso quella che potrebbe definirsi unanticlimax fonica, il canto fattosi grido, si degrada improvvisamente a “critoleo”, allo scricchiolio del corpo fracassato di un Cristo peccatore. Il critoleo è, letteralmente, lo scricchiolio delle conchiglie calpestate sul bagnasciuga, così il corpo del poeta a brandelli sulla spiaggia di Ostia reca in sé l’eco di un canto destinato a non estinguersi mai: “Le to puisie furlane / xe tute un svolo de pavegie; / le maravegie / de le to “verte” più lontane: // Le sarà dute anche ele in svolo, / e d’ele duti varà zogia; / l’alegra vogia / dei canti tovi d’usignolo.” (Le tue poesie friulane / sono tutte un volo / di farfalle: le meraviglie / delle tue primavere più lontane: // Saranno anch’esse tutte in volo, / e da esse tutti trarranno gioia; / l’allegra voglia / dei tuoi canti d’usignolo).

Le quartine di Marin  – spesso quattro o più – sono distese in versi regolari, dal più tradizionale settenario al pascoliano (e pasoliniano) novenario, dall’endecasillabo al quinario, disposti prevalentemente in rima incrociata. Tale rigida impostazione formale s’impone come un paterno rimbrotto e una preghiera: lontano dallo sperimentalismo poetico dell’ultimo Pasolini, Marin sembra invitarlo nuovamente all’ordine che era stato proprio dei suoi primi versi e della terra che per prima li ha accolti. Con queste litanie alla sua memoria, il poeta gradese vuole accompagnare Pasolini nel suo ultimo viaggio: quello del corpo fracassato del poeta da Roma a Casarsa; la redenzione di chi, dopo tanto peregrinare, torna a casa.

grillenzonigiulia00@gmail.com

 

L'autore

Giulia Grillenzoni
Giulia Grillenzoni si è laureata in Lettere moderne presso l'Università degli Studi  di Perugia, dove è oggi iscritta al corso di laurea magistrale. Si interessa di Letteratura italiana e in particolare di poesia del Novecento.