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Le tenebre tra Catullo e Manganelli

«Qui nunc it per iter tenebricosum / illuc, unde negant redire quemquam»: così recitano l’undicesimo e il dodicesimo verso nel terzo carme del Liber catulliano. Dopo aver annunciato la morte del passer (vv. 1-4) e aver evidenziato l’affetto che lo legava a Lesbia (vv. 5-10), Catullo si concentra sul viaggio che, ora, il passerotto sta compiendo per giungere all’aldilà.

Con buona probabilità Giorgio Manganelli, che di certo non era digiuno di autori latini, ebbe in mente il noto epicedion di Catullo quando scrisse che «Come recipiente, la notte tenebricosa terrà forse più del tegame, e la nostra inesatta tondità mieterà la nipponica solarità dell’ovo […]». Il dattiloscritto in cui si attesta la ripresa dell’aggettivo tenebricosus è databile al 1965 e Notte tenebricosa è infatti il titolo che la figlia di Manganelli, Lietta, ha scelto per il libro (Graphe.it, 2021). Il testo era stato precedentemente pubblicato con il titolo Catatonia notturna (Aragno, 2015). Infatti, nella nota al libro, Lietta scrive: «Due frasi mi continuavano a balzare all’occhio e da qualunque parte prendessi in esame il testo, sempre quelle due attiravano la mia attenzione: Notte tenebricosa o Catatonia notturna […]».

Manganelli riutilizza l’aggettivo tenebricosus in relazione alla notte, cambiandone di conseguenza la concordanza al femminile.

L’aggettivo catulliano ha trovato fortuna, seppur con accezioni diverse da quella originale, in autori come Cicerone, Varrone e Seneca nella letteratura latina, in Erasmo da Rotterdam e Francesco Colonna in età umanistica, per approdare a Manganelli nel ‘900. È tuttavia doveroso sottolineare un possibile autore-ponte tra Catullo e Manganelli: Teofilo Folengo. In un’intervista del 1985 Manganelli dichiara di avere come risorsa linguistica il poeta cinquecentesco: «Certo, il mio vocabolario di scrittore è ricercato, come dice lei, ma non in modo deliberato o capzioso. Non attingo a un repertorio molto definito: probabilmente di preferenza il Cinque-Seicento, con una preferenza per il Seicento. Ma poi ci sono autori linguisticamente fecondissimi come il Pulci, nel Quattrocento; o come Folengo». Si tratta, appunto, dello stesso Folengo che scrive, in uno degli Epigrammata de Le Maccheronee, «At vobis, Lemures tenebricosi».

Almeno un’altra importante occorrenza del lemma nella letteratura italiana del ‘900, di pochi anni anteriore al 1965, compare nel romanzo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (Garzanti, 1957) di Carlo Emilio Gadda, che al capitolo settimo scrive del «tenebricoso ventre del Conte». Tuttavia, è improbabile che Manganelli abbia preso in prestito le tenebre dal Pasticciaccio, del cui autore, messo a confronto con Folengo, dice: «Per certi versi, effettivamente, il modo di procedere di Gadda si può definire maccheronico, dal momento che congiunge un italiano colto con forme dialettali. Tuttavia esito a definirlo veramente maccheronico perché si pone anche nella tradizione del naturalismo italiano. Perciò l’uso del dialetto, in lui, non è anzitutto frantumazione linguistica. In Folengo lo è assolutamente, perché la sua combinazione di latino e dialetto mantovano ha prodotto una impossibilità linguistica, e questo in Gadda non avviene. Lui mira a un incontro fra lingua alta e bassa. Credo che fosse questo il suo scopo, e per solito si sottovaluta la sua vena naturalista. Ovviamente se ne può discutere, come di ogni cosa. Eppure penso che Gadda, contrariamente a Folengo, non adoperò mai l’errore linguistico, la scorrettezza in senso tecnico, col fine di distruggere la coesione linguistica della lingua alta, della sua comprensibilità».

L’ipotesi che sia il terzo carme del Liber la fonte dalla quale Manganelli si appropria del termine “tenebricoso” acquista attendibilità se si osserva l’interesse dell’autore verso il mondo letterario latino e, più in particolare, verso Catullo. Come riporta Salvatore Silvano Nigro in Concupiscenza libraria (Adelphi, 2020), negli appunti critici del ’49 Manganelli scrive che «se vogliamo tornare alla letteratura latina, che è in parte per noi perduta, occorre rifare il “catalogo”. Disfarci di Cicerone e non di lui solo (Livio?) e vedere gli altri: Catullo, Lucrezio, Plauto, Terenzio, Cesare, Sallustio. Gente viva, non letterati». Appena dopo, Nigro riporta un breve passo estratto da una recensione, pubblicata sul Messaggero il 15 agosto 1989, a uno dei volumi intitolati Lo spazio letterario di Roma antica (Salerno), in cui Manganelli scrive: «Vivo da molti anni a Roma, non sono un latinista, ma amo e frequento la letteratura latina».

È evidente che l’attenzione di Manganelli verso il mondo latino non è solo letteraria, ma anche linguistica. In Mammifero italiano (Adelphi, 2007), è stato inserito un articolo datato al 21 maggio 1977 e intitolato, molto semplicemente, “Latino”, in cui si legge: «Per chi si occupa, a qualsiasi titolo, di letteratura o di dèi, il latino è un tema angoscioso, quanto illuminante. Per chi parla italiano, e sia coinvolto con lo scrivere o con il leggere, evitarlo o affrontarlo sarà una scelta decisiva. La nostra prosa, a cominciare da quel Decameron che si legge come esempio di realismo laico e borghese, è una ininterrotta «lotta con l’angelo» del latino. Fino a tutto il Seicento e oltre, la nostra è una letteratura di scrittori bilingue. Ma il problema non è storico. Il latino è, per lo scrivente in italiano, insieme un modello e una sfida. Macchine verbali di straordinaria sottigliezza e complessità sono state organizzate e messe in moto da non più di una ventina di scrittori. […] [Il latino] è un modello di possibilità linguistiche, e insieme di impossibilità».

L’esempio più significativo in cui si nota un richiamo al mondo romano si trova nel titolo di una delle opere più fortunate del furiagrazie, Centuria. Cento piccoli romanzi fiume (Rizzoli, 1979).

Pochi anni prima di scrivere Notte tenebricosa, Manganelli aveva smesso di comporre versi ed era passato alla prosa della tanatocentrica Hilarotragoedia (Feltrinelli, 1964), le cui stesure risalgono ai primissimi anni ’60, ai tempi dello sperimentalismo neoavanguardista del Gruppo ’63. È proprio il tanatocentrismo, la singolare attenzione rivolta alla morte, uno dei tratti più peculiari che accompagna lo scrittore per tutta la sua produzione.

La scelta di definire la notte “tenebricosa” e non, semplicemente, tenebrosa, affonda le radici in un programma stilistico, e quindi poetico, più ampio, come era stato per lo stesso Catullo nei confronti del callimachismo: innanzitutto l’uso di un termine difficile, letterario, latineggiante, rientra perfettamente nell’estetica della lingua manganelliana. L’adattamento di un linguaggio letterario desueto, a servizio di una rappresentazione semantica del buio, si realizza nella traduzione italiana dei racconti di Edgar Allan Poe (Einaudi, 1983) per la prestigiosa collana Scrittori tradotti da scrittori. In essa, Manganelli restituisce al testo di partenza una patina arcaizzante, con l’intento di connotarlo con un tono “orrido-grottesco”. Come ha notato Federico Francucci, gli aggettivi che terminano col suffisso -oso, che propriamente indica l’idea di abbondanza, occorrono con maggiore frequenza nelle pagine manganelliane degli anni ’60 e ’70.

A rendere però quest’aggettivo così singolarmente proprio dell’inesistenzialismo di Manganelli non è solo il suffisso con cui esso termina, ma anche la presenza dell’infisso -ico, che designa un’appartenenza stretta con il sostantivo di riferimento che, nel caso della tenebra, è quanto di più vicino ci sia a Manganelli. Non è un caso che, nel Discorso dell’ombra e dello stemma (Rizzoli 1982), il teorico della menzogna scrive che «Le parole sono nere. Chi non conosce l’ombra della parola, ignora la parola, e quando parla usa parole che, ignare del proprio buio, non dànno luce alcuna. Ogni parola procede lungo un itinerario tenebricoso. […] Si può, deliberatamente o meno, non sapere che la parola è ombra. […] L’ombra è la sua infinità; e di più: nell’ombra la parola sta nascosta».

Asserire dunque che “tenebricoso”, in quanto parola, è quindi parola-ombra, sarebbe un pleonasmo, o meglio una tautologia al cubo; eppure questa sembra essere la sua unica possibile funzione.

Da quanto appena riportato, si evince che, nell’intera produzione dello scrittore milanese, “tenebricoso” non è un hapax: quella di Notte tenebricosa è solo la prima comparsa del termine mutuato da Catullo, poiché l’aggettivo si ripresenta – per altro accompagnato dalla notte – in Pinocchio: un libro parallelo (Einaudi, 1977): «una di quelle consuete notti tenebricose di Pinocchio, di vento e pioggia»; e nel libro La notte (Adelphi, 1996), questa volta inserito in una locuzione proprio dal tono latineggiante: «Essa è tutta, anche, spia, exploratrix in terra tenebricosa».

Risulta difficile rintracciare quale traduzione dei Carmina di Catullo sia passata sotto gli occhi di Manganelli, anche se, visto che la sua biblioteca personale contava circa 18.000 libri, è probabile che ne abbia lette molteplici. La traduzione italiana del terzo carme più congrua alla poetica dello scrittore – a opera di Enzo Mandruzzato e con la curatela di Alfonso Traina – compare solo nel 1982, anno della prima edizione dei Canti di Catullo nella collana dei Classici greci e latini della BUR: «Ora scende il cammino delle tenebre / da cui, si dice, non tornò nessuno».

È presente uno dei verbi più rappresentativi dell’adedirezione manganelliana, “scendere”, su cui si basa l’idea di tanatocentrismo espressa proprio nel vorticoso incipit di Hilarotragoedia: «Se ogni discorso muove da un presupposto, un postulato indimostrabile e indimostrando, in quello chiuso come embrione in tuorlo e tuorlo in ovo, sia, di quel che ora si inaugura, prenatale assioma il seguente: CHE L’UOMO HA NATURA DISCENDITIVA. Intendo e chioso: l’omo è agito da forza non umana, da voglia, o amore, o occulta intenzione, che si inlàtebra in muscolo e nerbo, che egli non sceglie, né intende; che egli disarma e disvuole, che gli instà, lo adopera, invade e governa; la quale abbia nome potestà o volontà discenditiva».

Mandruzzato legge e interpreta il verso secondo il topos di una catabasi in fieri, non ancora conclusa e da compiere; alla stessa maniera con cui Manganelli ha interpretato gli inferi in libri come – per citarne alcuni oltre a quelli già nominati – Agli dèi ulteriori (Einaudi, 1973), Dall’Inferno (Rizzoli, 1985) e Tutti gli errori (Rizzoli, 1986).

«Signori, il frastuono che mi viene addosso alle spalle ormai mi assorda; per la prima volta i miei occhi sperimentano il buio; addio, io cado, io vi perdo, io nasco».

niccolobrunelli@libero.it

 

L'autore

Niccolò Brunelli

Niccolò Brunelli, studente e laureando in Lettere Moderne all’Università degli Studi di Perugia, si occupa principalmente di Letteratura del ‘900, con particolare attenzione a Giorgio Manganelli, suo punto di riferimento letterario. Bibliotecario e libraio a tempo - quasi - perso, è appassionato di musica ed è un pessimo giocatore di scacchi.