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La scomparsa di Alberto Asor Rosa

In memoria di un grande Maestro, per il quale la letteratura è stata anzitutto esplorazione e sommovimento delle «profondità dell’essere», nelle quali i Classici ci aiutano a entrare «come un aratro che rovescia le zolle e ne mostra il lato a lungo nascosto», ripubblico una parte dell’Introduzione che Asor Rosa stesso mi chiese per il Meridiano Mondadori Scritture critiche e d’invenzione, a cura di L. Marcozzi, con un saggio introduttivo di C. Bologna e uno scritto di M. Cacciari, Mondadori, Milano 2020.

I classici e la letteratura, fra caos e cosmo 

  1. Il classico, il caos, il cosmo.

Una pagina di Alberto Asor Rosa di trent’anni fa (1992), scelta nella sua opera vasta e di grande varietà, offre non solo una definizione originale di classico, ma anche una perfetta misura dell’impostazione antropologica, proprio di antropologia della civiltà letteraria, peculiare della sua ricerca più recente:

I grandi classici sono sempre degli scrittori «radicali», nel senso proprio del termine, in quanto, appunto, «vanno alla radice delle cose», esplorano, sommuovono le profondità dell’essere, come un aratro che rovescia le zolle e ne mostra il lato a lungo nascosto. […] In ogni grande classico l’elemento barbarico, primitivo, è almeno altrettanto forte di quello che esprime la civiltà e la cultura. Dioniso sta dietro ad Apollo, ed è da lui che viene la forza primigenia del grande autore: prima di prendere forma, prima di assumere l’involucro armonico che più facilmente scorgiamo, c’è uno sconvolgimento tellurico che cambia la forma del territorio e inonda di lava gli ordinati assetti dei letterati comuni, dei prosecutori, dei continuatori e degli esegeti. Chi vede solo Apollo, vede solo una metà del classico, e non sempre quella più significativa. […] I grandi classici […] sono esperti, più che della regolarità e della sistemazione, del «caos» e del «disordine». Sono degli specialisti di «situazioni originarie». Siccome l’«essere in sé», cioè l’«origine», si presenta come un caos e un indistinto, i grandi classici trovano le «parole», cioè la «forma comunicabile», per «dire» questo stato di caos e di disordine. Non v’è dubbio che «forma» abbia qualcosa a che fare con «ordine»: da questo punto di vista, e alla fine, i grandi classici sono dei grandi costruttori di ordine. Però, si dovrebbe convenire sul fatto che la forma di questo ordine riceva la sua significazione e si elevi a grandezza in conseguenza di questa rinnovata scoperta delle origini e di questa percezione di un caos che non è ancora stato detto da altri con parole. […] Solo menti borghesi di esemplare educazione filistea hanno potuto leggere nell’Orlando Furioso il poema dell’ordine elevato ad «armonia» universale, senza scorgere, dietro la poderosa sistemazione poetica, il corredo immenso d’inquietanti bagliori sotterranei e di dolorose percezioni della tragicità dell’esistenza umana, che quel poema ospita nel suo seno[1].

«Andare alla radice delle cose» per poter «esplora[re], sommuov[ere] le profondità dell’essere, come un aratro che rovescia le zolle e ne mostra il lato a lungo nascosto». L’Essere è come il ventre della madre terra, da cui l’uomo trae nutrimento sommuovendolo: il lampo della formidabile metafora agricola, quasi un’allegoria pre-istorica, metafisica, riecheggia a lungo nel testo dando vita a una serie di onde d’urto, nel contempo figurali e concettuali, sempre più ampie.
Questa idea contiene una grande forza storiografica e, appunto, antropologica, dal momento che concerne il mito di un passaggio dal caos al cosmo, dal disordine all’ordine, dall’informe al formato. In una simile prospettiva non solo il Classico è riconosciuto nel suo ruolo di pilastro dell’edificio secolare della tradizione letteraria, ma viene assunto al ruolo di eroe culturale, cioè di fondatore mitico della storia collettiva quale condivisione dei valori accumulati, selezionati, rideterminati nel tempo. Soprattutto è notevolissima la messa a fuoco del punto nodale: la forza del Classico non può essere limitata entro lo spazio della civiltà letteraria di un popolo, di una nazione, di un’età, ma consiste nella sua capacità di essere «radicale», ossia di «rovesciare radicalmente» non solo la tradizione, ma la visione del mondo e della vita condivisa dall’intera civiltà umana.
D’altra parte, la categoria ermeneutica dell’antropologia applicata in sede letteraria è evocata esplicitamente dallo stesso Asor Rosa poche pagine prima, nella Premessa antropologica, in cui l’aggettivo «italiano» viene declinato (già con richiamo esplicito alle «radici») «nel senso di schiettamente e radicalmente “italica” – con una fortissima connotazione stilistica e antropologica e un inconfondibile accento linguistico»[2]. Non «italiano», ma «italico» sarà dunque il «genus» che grazie ai suoi eroi culturali, i Classici, ha preso forma costituendosi nel tempo e nello spazio, offrendosi all’ermeneutica multipla di una geografia e storia della civiltà italiana.
Questa formula dionisottiana è decisiva proprio nell’applicazione di una nuova forma di critica letteraria avviata da Asor Rosa negli anni Novanta. In questa luce la spiegazione della categoria di «genus», nella nota al testo di Genus italicum (1997) diviene ancor più significativa, se la si ripensa nella prospettiva dell’intero progetto della Letteratura italiana che, fra 1982 e 2000, diresse per Einaudi: «Insieme con il tema delle “origini” e della “genesi” in questo libro ricorre continuamente il tema del rapporto tra il “géne” e la “lingua”: come si può capire, si tratta di due temi profondamente interconnessi fra loro. […] Se dai termini astratti dell’“identità nazionale” si passa […] ai concreti “modi d’essere” degli italiani nel tempo, si scoprono differenze ma anche relazioni assolutamente insospettabili in precedenza. Anche in questo caso l’antropologia sopperisce ai molti buchi nella storia. […] Naturalmente l’“italiano” o, per meglio dire, l’“italico” di cui io qui parlo, è quello che si forma e si manifesta piuttosto al livello di “sostrato” che di “identità nazionale” intesa in senso proprio»[3].
Il saggio da cui è tratta la pagina citata in apertura ha la funzione di cardine su cui si impernia uno snodo ideologico e metodologico importante nell’evoluzione del pensiero di Asor Rosa: la dialettica fra antropologia e storia, che si individua alla base della sua più recente posizione critica, e perfino nelle sue pagine creative. L’antropologia chiamata a «sopperi[re] ai molti buchi nella storia» svolge nel lavoro di Asor Rosa sui Classici una funzione non dissimile da quella dell’archeologia dei saperi: proprio nel senso in cui Michel Foucault fondò «un’“archeologia delle scienze umane”, ovvero “un’archeologia del nostro pensiero”»[4]. Il tema dell’«origine» e delle «origini», del «sostrato», del «genus» come fondazione di una lingua, di un modo di essere e di pensare, e insomma a una serie di dispositivi collettivi condivisi, pertiene a un’indagine di natura archeologico-genealogica; però si coniuga con un punto di vista trans-storico, addirittura metafisico, quello della ricerca dell’«essere in sé» che il Classico coglie e arricchisce, esattamente secondo l’etimo di auctor, (dal verbo latino augēre, “aumentare”, “far crescere”) recuperato da Asor Rosa grazie a un bel passo di Sainte-Beuve: «Un vero Classico è un autore che ha arricchito lo spirito umano, che ne ha effettivamente aumentato il tesoro, che gli ha fatto fare un passo in più»[5].
In questa prospettiva, guardando al senso profondo del termine ánthropos, si comprende la scelta compiuta da Asor Rosa nel parlare di antropologia e di umanità, di radici dell’umano. Questa terminologia è speculare a una visione della letteratura, della critica letteraria ma anche della scrittura creativa, e del loro ruolo nella vita, senza dubbio non convenzionale, lontana dalle correnti critiche contemporanee di cui Asor Rosa stesso[6] riconosce l’ingabbiamento nell’«attuale difficoltà del simbolico» e quindi la tendenza a rifuggire dalle «spiegazioni generali del mondo». Proprio le «spiegazioni generali del mondo», invece, continuano a resistere, eticamente e politicamente, nel coraggioso umanesimo di Asor Rosa, come «origine» e «sostrato» del «genus» letterario.
Asor Rosa recupera così con grande sottigliezza dalla nostra più alta tradizione il valore assunto entro una cultura dal Classico in veste di portatore di una temporalità che è «innovazione» rispetto a qualsiasi «regola», secondo l’acuta riflessione dello Zibaldone leopardiano a cui Asor Rosa si richiama a più riprese: «È un curioso andamento degli studi umani, che i geni più sublimi liberi e irregolari, quando hanno acquistato fama stabile e universale, diventino classici, cioè i loro scritti entrino nel numero dei libri elementari, e si mettano in mano ai fanciulli, come i trattati più semplici e regolari delle cognizioni esatte»[7].
Mi sembra di alto valore sul piano dell’epistemologia e del metodo, e anche per delineare una posizione che, con i necessari distinguo lessicali e semantici, non esiterei a definire moralistica, nel senso storico-culturale del termine, l’adesione di Asor Rosa a una scrittura insieme allegorico-metaforica e radicalmente etica (s’intenda con chiarezza: uso il termine «moralista» proprio nel senso storiografico con cui Giovanni Macchia ideò la formula «moralisti classici» per Montaigne e i suoi successori)[8]. Ad esempio, riscattando la figura allegorica di Mercurio quale dio protettore dell’attività della critica letteraria, che è di sostanza «tipicamente ermetica» ed è quindi estranea all’usurpazione dell’alloro di Apollo «alla realtà espressiva di cui è ancella», aprendo un libro quale Genus italicum egli richiama a una fondamentale posizione espressa da un autore con cui è in profonda consonanza, l’Italo Calvino delle Lezioni americane. Recupera così la bella immagine del valore dell’essere umano, e della letteratura quale forma altissima della sua creatività, come «un “ponte” gettato tra un millennio e l’altro»[9], riconoscendo che «l’espressione era già presente significativamente in Campana», derivata dallo Zarathustra di Nietzsche: «Quel che è grande nell’uomo è che egli è un ponte e non un fine: quel che si può amare nell’uomo è che egli è un passaggio e un trapasso»[10].
Per questa via in anni recenti Asor Rosa recupera anche, come maestro di sospetto, di «Illuminismo negativo» e di «dimensione critica ed esplorativa», il «Nietzsche sistematico e profetico» di Così parlò Zarathustra e di Al di là del bene e del male, che non era entrato nel suo cànone personale nelle letture degli anni Sessanta e Settanta: Umano, troppo umano, Aurora, La gaia scienza, La nascita della tragedia[11]. L’autobiografia intellettuale consegnata nel 2011 a Le armi della critica la genealogia spirituale lo conferma: «A me interessava il Nietzsche critico della morale e del “sistema” borghese ottocentesco, nel quale non era difficile ravvisare tratti che lo avvicinavano al nostro, ed eventualmente moralista lui medesimo»[12]. Proprio Nietzsche è ricordato fra i pochi intellettuali che hanno «gettato lo sguardo più profondo sul nostro tempo»[13], accanto solo a Karl Marx (restituito alla «grande storia della “filosofia classica tedesca” […] e […] alla demistificazione del “mondo moderno”, il mondo, cioè, in cui nonostante tutte le evoluzioni e modificazioni, noi continuavamo a vivere e a tentare di guardarci intorno per capire»)[14] e a Giacomo Leopardi («l’amico lontano, il coetaneo fraterno» che aiuta a capire il senso di una lunga e profonda «attesa», pur «nella inconscia premonizione di una ancor più grandiosa disillusione»)[15].

  1. La letteratura, visione del mondo

La riflessione di Asor Rosa su questa allegoria dell’uomo come ponte apre verso una direzione epistemologica molto interessante circa «il valore mediatorio, intermediario e inevitabilmente maieutico»[16] della critica letteraria. In un universo complesso ma depauperato di «simbolico», a cui si riduce «quella che siamo abituati a pensare nel suo complesso come la civiltà democratico-occidentale» in piena «crisi di dissoluzione, e al tempo stesso d’identità, di auto-riconoscimento e di nuovo radicamento»[17], la critica letteraria (al pari della letteratura) si rivela, in pieno senso antropologico, un dispositivo di mediazione interculturale.

A proposito dell’immagine del ponte Asor Rosa così commenta:

È un’immagine che in questo momento mi affascina. Suggerisce un’idea di “funzione”, che corrisponde perfettamente al ragionamento che sto cercando di fare. Se il sistema culturale democratico-occidentale è tutto in movimento, può essere utile stendere sulle fessure e sui crepacci che si vanno aprendo una serie di passerelle e di trampolini, che consentano ad un intero continente che si va sganciando di mantenere una trama di relazioni con il proprio passato. Mercurio, anche se non ha le capacità aeree di un Angelus novus, ha ali per volare, anzi, meglio, per balzare agilmente da un punto all’altro dell’arcipelago in cui il vecchio continente si sta frantumando. In questo senso niente di meglio della critica letteraria, disciplina tipicamente intermediaria, per svolgere tale funzione[18].

Ancora una volta la critica letteraria, insieme con la letteratura, è chiamata in causa da Asor Rosa come visione complessa del mondo, sguardo conoscitivo sulla realtà, coerentemente con l’assunto etico-politico ed epistémico che lui stesso definisce antropologico, peculiare di una scienza dell’umano espresso attraverso la complessità della parola letteraria: non a caso la grande opera da lui diretta si intitolò Letteratura italiana, e non Storia della letteratura italiana. È in questa prospettiva che la ricerca di Asor Rosa mi pare accostabile (ovviamente senza pensare a una derivazione diretta) a quella di Edward W. Said, critico americano-palestinese formatosi attraverso una fine riflessione sullo storicismo di Vico e sulla filologia di Auerbach, il quale ha saputo coniugare lo sguardo antropologico con la filologia, riconoscendo a entrambe la «funzione» di «ponte», di «passaggio», di «trapasso» fra i tempi, gli spazi, le civiltà, gli schemi identitari:

Quando la smetteremo di pensare all’umanesimo come a una forma di autocompiacimento invece che come una sconvolgente avventura nei territori della differenza, tra tradizioni alternative, in testi che richiedono una nuova decifrazione in un contesto molto più ampio di quello che è stato finora loro assegnato?[19].

L’umanesimo ha a che fare con la lettura, con l’individuazione di una prospettiva, e […] con i passaggi da un campo o un’area dell’esperienza umana all’altra. Riguarda anche la pratica delle identità […]. Noi dispieghiamo un’identità alternativa alla nostra quando leggiamo e mettiamo in relazione differenti parti del testo tra loro, oppure quando allarghiamo il campo di interesse fino a includere ambiti di pertinenza sempre più ampi[20].

In una simile dimensione epistémica ed etico-politica studiare e insegnare la letteratura facendone “critica” significa oggi soprattutto accogliere la sfida di ricivilizzazione come ininterrotta dinamica di passaggio da un campo o un’area dell’esperienza umana all’altra, in un sistema di differenze e di identità dinamiche. Questo è l’orizzonte da proporre come «racconto del futuro», cioè «rivelazione» («apocalissi») di potenzialità alternative, contro la nuova barbarie che nega la cultura dal momento che nega i «ponti» fra passato e futuro, e brucia il presente senza radicarne la liquidità in un progetto di futuro, e così appiattisce la complessità delle differenze in un’identità fittizia costruita sulla falsa coscienza e sull’ideologia:

La «rivelazione» […] è in primo luogo ricordo, anzi, un lungo ricordo, anzi, «potenza di ricordo».  Gli strumenti immaginativi umani, che nella rivelazione si esaltano, non avrebbero di che nutrirsi, se non fossero sostanziati del loro passato. Come «raccontare» il futuro, se si è dimenticato il passato? La rivelazione del futuro è dunque, innanzitutto, contemplazione intensissima, straordinariamente concentrata del passato. Quanto più si ricorda […], tanto più si scorge lontano nel futuro. Il profeta è solo un uomo di buona memoria (Dante insegna)[21].

Nel lavoro di Asor Rosa rinvengo una solidarietà profonda tra la riflessione sulla letteratura, quella etico-politica, e la scrittura creativa in cui le emozioni prendono parola e forma letteraria. Già nelle pagine aforistiche di L’ultimo paradosso (1985) si colgono sottili considerazioni intorno all’essenza della vita come sostrato «originario, primitivo», «primordiale», e al rapporto fra memoria e progetto di futuro:

Ciò che siamo. Forse la storia non è che una corsa affannosa alla conoscenza di ciò che siamo, ossia di ciò che fummo, poiché ciò che fummo è ciò che siamo. Forse il sogno della storia è di cogliere l’essenza della vita, cioè il suo carattere originale, primitivo. Ma primitivo è sinonimo di primordiale. Forse, allora, tutto si risolverebbe se riuscissimo ad immaginare anche solo per un istante il guizzo balenante nella mente di un lontano progenitore, la prima volta in cui accadde all’uomo o di progettare o di ricordare (o le due cose insieme). Ma poiché questo sembra impossibile, bisognerà accontentarsi anche per il futuro di una mezza-conoscenza, di una conoscenza imprecisa e approssimativa[22].

E così pure, aprendo L’alba di un mondo nuovo con una sezione dal titolo esplicitamente hegeliano, La luce del crepuscolo (2002), ma con più di un richiamo al tema dello “sguardo” approfondito da Italo Calvino, è sulla memoria che lo scrittore/saggista si ferma: «La memoria è la facoltà più singolare della mente umana», per cui «“capire” e “fare” (“intelligenza” e “azione”) […] sono contraddistinti da uno svolgimento sostanzialmente lineare. […] Ma la memoria è molto meno prevedibile e molto meno motivata da una necessità di tipo razionale. […] L’immaginario umano è in gran parte un frutto della memoria: e tra realtà e irrealtà, nell’immaginario, la differenza non è grande, il confine non è né preclusivo né insormontabile. […] La memoria […] crea: essa è tutt’altro che ripetitiva; non è un calco della nostra storia. […] Il tempo della memoria è il crepuscolo, e il suo sentimento è la malinconia. […] Si ricorda per restare il più a lungo possibile davanti allo specchio, per continuare a guardarci: è un modo, alla portata di tutti, per fronteggiare l’irrimediabile che sta lì in attesa dietro l’angolo»[23].
L’inizio e la fine, il “prima” e il “dopo” rispetto alla memoria del tempo, che anche in tante pagine narrative costituiscono il vero fulcro della scrittura di Asor Rosa, segnano «la tenebrosa linea di confine», nella «desolata periferia del vuoto»: «l’inizio è scivolato via per misteriose, profonde linee di fuga ed è tornato a immergersi là dove la vita originariamente era scaturita. Nelle notti insonni esploro la tenebra notturna con gli occhi spalancati per rendermi conto se, buio nel buio, lì s’apre in qualche punto la strada del ritorno: quella che porta così lontano da essersene persa ogni memoria. Snervato dall’attesa, riprecipito nel sonno, pensando, per consolarmi, che un giorno la fine dei tempi coinciderà con il loro inizio (tenebre con tenebre, naturalmente)»[24]. Anche su questo tema di fondo la coerenza fra il momento saggistico e quello creativo è per Asor Rosa solida e leggera. Anche nelle parole conclusive di L’ultima volta, che sigilla gli Amori sospesi (2017), si compie «il desiderio più assoluto» del protagonista, «passare di colpo dal piacere totale al nulla», la fine si congiunge all’origine, la memoria si addensa per svanire: «Così l’ultima volta fu come la prima: quando un vuoto del genere s’apre, tutto il resto diviene meno importante o del tutto indifferente. In assenza di quella conoscenza, è vano tentare di resistere e continuare, meglio rinunciare nell’istante in cui l’acme sia raggiunta»[25].

  1. Il Classico, «signore del limite, esploratore dell’oltre, eroe della presenza»

Mi pare molto significativo che la dimensione della ricerca intorno al «genus» e all’«origine», all’inizio, e di conseguenza alla probabile fine apocalittica, senza ritorno, maturi pienamente in Asor Rosa attraverso un confronto solidale e davvero «radicale» con la prospettiva mitico-antropologica circa la letteratura espressa dal più razionale e geometrico dei nostri scrittori, Italo Calvino. Asor Rosa condivide il punto di vista di Calvino sulla letteratura come sguardo profondo e oggettivo insieme, strumento di conoscenza della realtà, visione del mondo capace di indicare non solo lo stato attuale, ma i percorsi da progettare per il futuro:

Io credo che esista una realtà e che ci sia un rapporto (seppure sempre parziale) tra la realtà e i segni con cui la rappresentiamo. […] Io credo che il mondo esiste indipendentemente dall’uomo; il mondo esisteva prima dell’uomo ed esisterà dopo, e l’uomo è solo un’occasione che il mondo ha per organizzare alcune informazioni su se stesso. Quindi la letteratura è per me una serie di tentativi di conoscenza e di classificazione delle informazioni sul mondo, il tutto molto instabile e relativo, ma in qualche modo non inutile[26].

L’uomo è solo la migliore occasione a noi nota che la materia ha avuto di dare a se stessa informazioni su se stessa[27].

Quello cui io tendo, l’unica cosa che vorrei poter insegnare, è un nuovo modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo. In fondo la letteratura non può insegnare altro[28].

La letteratura, per Calvino e per Asor Rosa, insegna a «guardare» la realtà, ad «essere in mezzo al mondo»: ma soprattutto a scavarlo, a rovesciarlo in cerca delle radici su cui far fruttare una dimensione nuova, una diversa forma dell’esistenza nella civiltà del futuro. La letteratura, in questa prospettiva, svolge lo stesso ruolo del mito: la fondazione di una nuova realtà. Parlando delle Lezioni americane, ma in una prospettiva assai più ampia, Asor Rosa riconosce con acume e fermezza come «al fondo della letteratura» per Calvino (e assolutamente in parallelo anche per lui stesso), risieda

una sostanza mitica, che ha a che fare con la parte più profonda, germinale, della natura umana […]. Il mito si compone di vari elementi, ognuno dei quali fa riferimento ad un aspetto particolare dell’esistenza umana […]. Ma il mito non è soltanto per Calvino, junghianamente, una proiezione fantastica dell’immaginario collettivo: è anche un modo per organizzare la difesa dell’umano contro il disumano, il bestiale, il mostruoso. […] La creazione del mito serve dunque non a cancellare l’inferno e il mostro, ma a difendersene con gli unici strumenti a disposizione dell’uomo, e cioè fantasia e ragione. […] Ma il mito costituisce già una proiezione culturale del profondo. La letteratura invece spinge le sue radici ancora più giù, là dove l’insopprimibile tendenza umana alla comunicazione e all’espressione si prolunga e si perde nel buio dei tempi. […] È a questo filo millenario, il quale attraversa tutta la storia dell’uomo, che si riallaccia la letteratura dei nostri tempi[29].

Fra tutte le opere e i personaggi ideati da Calvino è ovviamente Palomar, l’uomo-telescopio, l’uomo-sguardo, a condensare l’allegoria di una visione insieme analitica e sintetica della complessità che costituisce il reale; una visione geometrica del mondo può tentare di “spiegare” le “pieghe” del reale e dell’interiorità.
In perfetta consonanza con le idee di Calvino, che Asor Rosa con sensibilità ed equilibrio valuta come il più alto scrittore italiano del secondo Novecento, l’allegoria asorrosiana della letteratura come ponte, come specchio, come sguardo, ossia come attività di conoscenza e di ermeneutica, si sviluppano di pari passo rispetto a quella dell’aratro che scava le zolle in cerca delle radici umane. Tutte insieme si illuminano nelle puntuali considerazioni di saggi quali La nuova critica (premesso a Genus italicum), Stile Calvino, Un altro Novecento. È di grande interesse che la meditazione sul Classico come eroe culturale che rivoluziona non solo la letteratura, ma la sua funzione di sguardo sulla realtà, fondatasi sui grandi Classici della tradizione (Dante, Boccaccio, Guicciardini, Machiavelli, Sarpi), si approfondisce sui Classici della modernità (Calvino, appunto, ma anche Michelstaedter, Campana, e uno studio notevole, pienamente antropologico, su quelle Avventure di Pinocchio che hanno contribuito a formare gli Italiani).
Studiare la letteratura facendone “critica”, se si vuole conoscere il mondo per trasformarlo, significa in primo luogo esercitare i giovani a riconoscere nella pagina del grande Classico la perturbante originalità di un punto di vista che guarda alle radici dell’esistenza, a riconoscervi la forza innovativa che egli conserva e può ancora trasmettere grazie alla «radicalità», appunto, della sua visione del mondo rivoluzionaria. Significa sforzarsi (compito ai limiti dell’impossibile) di plasmare nelle generazioni nuove, alienate dal reale da una comunicazione informatica che tutto divora e banalizza appiattendo la percezione del tempo e delle differenze, una inedita consapevolezza della necessità, ma al contempo della parzialità, di “competenze” tecniche, creando invece uno spirito critico dinanzi al mondo sempre più complesso, cioè una distanza interiore capace di riscattare lo sguardo profondo, il punto di vista ermeneutico, nel senso più completo del termine. Significa far maturare la capacità di commisurare l’infinita, imprendibile varietà delle cose e delle esperienze con l’irriducibilità dei limiti umani, far cogliere la fatica, il travaglio della lingua dei Classici mentre «cercano la parola» per dire l’umanità come progetto di futuro e nel contempo come limite irriducibile.
Questa fatica, questo esercizio di complessità di alto valore formativo, quindi etico-politico, imprime uno slancio antigravitazionale verso una visione del mondo diversa, molteplice, innovativa, scandita nel senso della storia e nel recupero delle radici di una civiltà con la stessa leggerezza con cui Calvino apre le Lezioni americane e con l’esattezza rigorosa della consistency con cui avrebbe voluto concluderle, destinandole alle generazioni “digitalizzate” dei nostri giorni.
Una simile scienza critica del futuro, scienza inattuale, scienza del sospetto e dello scetticismo ma anche della solida fiducia nella filologia, nello sconsolante stato di crisi del principio di accertamento della verità storica che viene imposto con arroganza dall’anti-etica e dall’anti-politica che governano l’inizio del terzo millennio, possiamo tornare a chiamarla umanesimo e perfino critica democratica, come ha fatto Edward W. Said ripensando insieme la Scienza nuova di Vico e la sua «rivoluzione interpretativa basata su una sorta di eroismo filologico i cui risultati rivelano, come sosterrà anche Nietzsche un secolo e mezzo dopo, che la verità della storia umana è “un esercito di metafore e metonimie in movimento”; il significato di questi tropi deve essere continuamente decifrato tramite letture e interpretazioni a partire dalla forma delle parole»[30].
Il tema della «verità della storia umana» come flusso verbale, come mutare della «forma delle parole», quindi come variazione lessicale, grammaticale, stilistica di un testo lungo la sua tradizione, è alle origini del pensiero filologico moderno. In quel luogo culturale Filologia e Modernità si mostrano in posizione speculare, come dispositivi culturali che trasferiscono il principio di verità dall’astrazione metafisica alla procedura pragmatica, valutativa, diremmo proprio collocata sul piano fisico-matematico. Da qui nasce la moderna e attuale (ma di fatto inattuale!) etica del lavoro filologico-ermeneutico, fondata in primo luogo sull’ethos del rispetto della ratio, cioè della dipendenza di ogni argomentazione dalla logica probatoria che interpreta i dati reali iuxta sua principia. La ratio filologica non è solo una pragmatica o un dispositivo procedurale, è un ethos, perché impone attenzione e perfino deferenza per la voce dell’Altro, per il Testo nella sua irriducibile alterità.
Etica del fare e deontologia del rispetto per l’alterità del testo si saldano nella pratica filologica fondando uno stile di pensiero che può sostenere una nuova pedagogia, irriducibile a quella «farisaica» condannata da Nietzsche. I valori fondativi che la prassi filologica ed il suo ethos offrono alla nostra impoverita civiltà dell’omologazione, che rinuncia al riconoscimento della complessità come coerenza di alterità molteplici, sono (secondo una proposta di Hans Ulrich Gumbrecht) «sobriety, objectivity and rationality», virtù necessarie a generare «a new intellectual style» che «would be capable of challenging the very limits of the humanities, which come from their inscription into the paradigm of hermeneutics (which also means into the metaphisical legacy of Western philosophy) during the decades around 1900»[31]. Considerazioni di questo genere invita a svolgere l’atteggiamento fiduciario che Asor Rosa assume nei confronti della filologia:

La filologia dà certezza ai dati della ricerca ed eventualmente li arricchisce. Se si scopre che Guicciardini aveva letto Erasmo […] questo cambia il quadro, i “significati” si modificano radicalmente. Ma anche mettere un diverso “ordine” nella tradizione, può cambiare radicalmente l’approccio al testo. Non si può dire, perciò, che la filologia sia una tipica disciplina “sussidiaria”: in quanto interviene direttamente nel “percorso critico” e lo modifica, fa parte integrante della critica, o per lo meno ha le attitudini per diventarlo.[32]

Si torni a questo punto alla definizione di Sainte-Beuve fatta propria da Asor Rosa: «Un vero Classico è un autore che ha arricchito lo spirito umano, che ne ha effettivamente aumentato il tesoro, che gli ha fatto fare un passo in più». In realtà l’«arricchimento», l’«aumento» spirituale, il Classico lo offre non solo alla cultura entro la quale sorge, ma all’intera civiltà umana, all’essere umano in cerca del contatto con le «situazioni originarie», quindi all’«essere in sé» colto nelle profondità archeologiche del pensiero. L’«aumento» spirituale coincide con un processo di cosmicizzazione, di formazionenel-tempo, esercitato su quel «caos e indistinto» che per Asor Rosa è appunto l’«essere in sé». L’inventio di una forma di civiltà, di una visione del mondo, riordina l’«indistinto» in cultura attraverso le forme dell’arte: il caotico conquista un nuovo equilibrio quando «i grandi classici trovano le “parole”, cioè la “forma comunicabile”, per “dire” questo stato di caos e di disordine». Il Classico è dunque l’eroe culturale che fonda una civiltà cosmicizzandola: egli assume così un carattere pienamente mitologico. La sua natura si rivela la stessa degli eroi mitici che trasformano il cháos in kósmos.
Nella lettura di Asor Rosa, ben al di là delle frontiere che ogni civiltà assegna alla letteratura, il Classico è uno sconfinatore, un avventuriero dello spirito che osa entrare in diretto contatto con il caos, il disordine originario che precede gli stati di equilibrio di ogni cultura. Il Classico sa accompagnare nell’attraversamento dei confini e nell’invenzione di rotte e di piste mai prima tentate, intricate come labirinti eppure nitidissime nel disegno che ne delinea. Anche il Classico, come il mago e lo sciamano studiati da un maestro dell’antropologia quale Ernesto de Martino, è «il signore del limite, l’esploratore dell’oltre, l’eroe della presenza»[33].

  1. Il Classico, luminoso ordinatore cosmico

In questo senso il Classico è un «eroe illustre» portatore di luce: un eroe della luce conoscitiva offerta all’intera umanità, luminoso ordinatore cosmico della storia comune, secondo il modello che Dante concentrò nei capitoli del De vulgari eloquentia dedicati agli «illustres heroes» (Federico II e Manfredi) che «nobilitatem ac rectitudinem sue forme pandentes, humana secuti sunt, brutalia dedignantes» (DVE, I 12, 3-4)[34]. Gli «illustres heroes» delle Origini, come gli eroi studiati dalla storia delle religioni e dall’antropologia, svolgono una funzione di valore cosmogonico: la fondazione linguistica e mitico-letteraria della storia collettiva. Essi radicano il tempo umano in una dimensione “originaria” di genere utopico-ideologico, visto che l’eroe è protagonista di un mito di fondazione della realtà; in esso il presente, garantito da un “dover essere così com’è, qui ed ora” che si fonda nella tradizione, può proiettarsi verso il futuro, creandone il presupposto ontologico in quanto valore condiviso: «L’eroe è […] precisamente colui che è vissuto nel “tempo del mito”»[35]; «il mito come tale non ha […] un’esistenza propria, indipendente dalla sua narrazione; esso è mito solo in quanto è narrato, si attua cioè mediante le parole del narratore»[36]; «i miti fondano le cose che non solo sono come sono, ma devono esser come sono, perché così sono diventate in quel lontano tempo in cui tutto si è deciso. […] Il mito, dunque, non spiega, per un bisogno intellettuale, le cose […], ma le fonda, conferendo loro valore»[37].
Mi sembra assai significativo che anche lo scrittore, nella cultura classica, eseguisse un’attività esplicitamente mitografica: «I poeti e artisti, malgrado le esigenze estetiche che imponevano loro di selezionare, coordinare, modificare nei dettagli le tradizioni mitiche, erano tuttavia liberi di narrar miti […], di rievocare i prodigiosi eventi di “molto tempo fa” noti all’intera società, senza sottoporli ad altra critica che quella creativa con cui gli artisti di tutti i tempi affrontano il proprio materiale»[38]. Il contatto attivo dei Classici, illustres heroes del passato, con la storia presente, e soprattutto con quella futura, coincide davvero con «il rapporto degli esseri mitici con il tempo. Si può, infatti, dire che tra di essi esistono quelli la cui attività è limitata al passato e altri che esercitano – anche o soltanto – una continua funzione nel presente»[39]. Attraverso le radici mitico-rituali degli illustres heroes per Dante si nutre anche il vulgare illustre, ossia il progetto di una saldatura, utopizzata nel futuro come fondamento della più alta civilitas umana, fra il riconoscimento del potere della lingua, strumento di coesione politica («domestica communitas») fra gli uomini e la fondazione di un’inedita possente lingua del potere[40].
A questo punto, nel momento in cui si sta riconoscendo al Classico, e più in generale alla letteratura, la capacità di determinare il confine dialettico fra humana e brutalia, fra l’umano e il disumano, respingendo e confinando «l’inferno e il mostro» grazie a «fantasia e ragione», è opportuno fermare l’attenzione su un elemento non marginale e assolutamente opposto, della definizione di Classico da cui il ragionamento ha preso le mosse, che mi pare indispensabile per comprendere appieno la posizione etico-antropologica della critica di Asor Rosa.
Nella dialettica fra civiltà e caos, tra «disordine» e «forma comunicabile», è celato un aspetto apparentemente contraddittorio nella natura «radicale» del Classico, che lo rende capace di andare «alla radice delle cose» e così di «esplora[re], sommuov[ere] le profondità dell’essere». E questa dialettica si fonda sull’assunzione, da parte di Asor Rosa, della natura mitica della letteratura, della sua potenza di difendere e restituire alla vita una forma culturale. Il riconoscimento di questa «sostanza mitica» non è assolutamente da ricondursi a una dimensione ideologica di carattere irrazionalistico. Al contrario, si radica nel pensiero di uno fra gli autori più cari ad Asor Rosa, sul quale egli ha scritto pagine di grande valore critico, quell’Italo Calvino «illuminista e “progressista”», il quale «non ha mai nascosto l’idea che la letteratura costituisse il fattore di trasformazione del mondo»[41], e che sulla potenza della ratio e su un’eroica «sfida al labirinto» ha imperniato per intero la sua visione del mondo che potremmo definire geometrica:

…esiste uno “spazio” della dimensione umana, in cui il linguaggio si consolida in un’aggregazione di significati e di forme, contraddistinta da connotati inconfondibili, speciali. A questa aggregazione di segni e sensi linguistici, che convenzionalmente è denominata “letteratura”, spetta il compito di affrontare quella perdita di forma, che Calvino constata nella vita contemporanea. Potremmo dire provvisoriamente […] che per Calvino la letteratura è un valore in sé, da cui partire, o a cui arrivare, per una “riconquista” della realtà perduta[42].

La funzione mitica dell’«eroe culturale»-letteratura è qui riconosciuta alla sua potenza di fondare una nuova realtà, simbolicamente penetrando nello spazio del caos e «riconquistando» alla civiltà (nei termini calviniani alla «forma» della «vita») la parte di reale «perduta», sommersa al di là dei bordi del dicibile e del comunicabile. A questo livello è risolutiva una delle definizioni citate poco fa, che costituiscono la base metodologica su cui lavorò il grande storico delle religioni Angelo Brelich: «Il mito […] non spiega, per un bisogno intellettuale, le cose […], ma le fonda, conferendo loro valore». Per conferire valore al caos l’«eroe culturale» lo attraverso, se ne assume la minaccia, e per questa via lo cosmicizza, introiettandolo nella civiltà.
Quando Calvino, e con lui Asor Rosa, dichiarano che la letteratura è di fatto un «eroe culturale» la cui dýnamis può trasformare il mondo, non solo pensano che la letteratura sia uno strumento ideologicamente forte, uno sguardo e uno specchio per conoscere sé stessi, per «pensarsi», «per vedersi»[43], ma hanno sicuramente nella memoria le posizioni, diverse ma non incommensurabili, di Dostoevskij e di Gadda. Del primo ricordano ovviamente la celebre frase con cui, nell’Idiota, Ippolit irride il principe Myškin, altrove definito dall’autore «il “cavaliere povero” […], un Don Chisciotte serio, non comico»: «È vero, principe, che una volta diceste che il mondo sarà salvato dalla bellezza? […] Quale bellezza salverà il mondo?»[44]. Del secondo hanno in mente la posizione chiarissima, prossima (credo anche per conoscenza diretta) a quelle di Werner Heisenberg e della sua fisica quantistica (il saggio sul principio di indeterminazione fu pubblicato nel 1927), fissata nel 1928 nelle aggrovigliate, lunghe argomentazioni della Meditazione milanese: «Procedere, conoscere, è inserire alcunché nel reale, è, quindi, deformare il reale»[45]; «Conoscere significa deformare. […] Così io penso al conoscere come ad una perenne deformazione del reale, introducente nuovi rapporti e conferente nuova fisionomia agli idoli che talora dissolve e annichila: sicché il loro volto che jeri ci appariva divino è oggi una sciocca smorfia. E nel progresso del conoscere il dato si decompone, altri dati sorgono dai cubi neri dell’ombra e quelli da cui siamo partiti non hanno più senso, non “esistono più”»[46].
Per Calvino, come per Asor Rosa, lo scrittore condivide in parte lo sguardo con quello della «materia brutale» e inanimata. Questo aspetto si lega alla condivisione almeno parziale, da parte dell’«eroe culturale»-Classico, e quindi anche dell’«Umanesimo» e della letteratura in sé, di quegli aspetti anti-apollinei, e diremmo proprio dionisiaci, di cui Asor Rosa nella sua antropologia letteraria riconosce la minacciosa energia sotterranea, e che definisce barbarie a più riprese, e in libri non solo di carattere critico-letterario, ma anche etico-politico e creativo.

  1. Il Classico e la «barbarie»

Di fatto, in quanto «eroe culturale», il Classico è «specialista» non solo di cultura e di civiltà, ma anche di «barbarie». Tra le funzioni a cui è chiamato sarà pertanto anche quella di contribuire a contrastarla, la «barbarie» che contiene in sé, cosmicizzandola, a condividerla, pur nella sua pericolosità caotica, accogliendola dialetticamente entro i dispositivi della civiltà. L’elemento «barbarico» che minaccia dall’interno la civiltà è da sempre un tema della riflessione di Asor Rosa. Nel presentare, «vent’anni dopo» (1988)[47], Scrittori e popolo (1965), ideale archetipo della sua ricerca intorno all’ethos della letteratura, Asor Rosa evocava la Prefazione dei Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel, con l’importante considerazione, che andrà collegata alla pagina meditativo-narrativa di La luce del crepuscolo citata poco fa:

La filosofia arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed è bell’e fatta. […] Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, e, dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo[48].

Subito dopo Asor Rosa commentava:

Ciò con cui si misura oggi la civilizzazione è qualcosa di completamente diverso: è la cultura dei barbari ad essere tecnologicamente superiore, e molto più scaltrita, astuta, mobile, trasformativa e genetica di quella degli individui civilizzati. […] Il nuovo barbaro, comunque, ci sembra preferibile al «vecchio dotto»; anche se non vuole imparare, infatti, ha il vantaggio sull’altro di non aver ancora imparato, e di poter dunque imparare (qualcosa di diverso).. Così, se non potremo essere nani sulle spalle dei giganti, cercheremo di essere giganti che reggono sulle loro spalle i nani, le centinaia di milioni di nani dell’universo culturale odierno[49].

L’elemento «barbarico» si configura sottilmente nella riflessione politico-culturale del 1988 intorno ai presupposti ideologici del libro di tanti anni prima, nella sottolineatura d’una mancanza di spirito critico in quelle «centinaia di milioni di nani dell’universo culturale odierno» che hanno conquistato tutto lo spazio. Per la posizione di moralista (nell’accezione illustrata nelle pagine iniziali) che l’ethos pedagogico di Asor Rosa qui allegoricamente assume («se non potremo essere nani… cercheremo di essere giganti»; «far penetrare il fermento del pensiero…»), solo lo spirito critico può rappresentare quel «fermento», trasformandosi, dinanzi allo svuotamento di senso della categoria del politico e addirittura di quella del letterario, nella leva per un rovesciamento della realtà, per l’avvio d’una visione del mondo antropologica davvero radicalmente innovativa, catastrofica, decisivo «fattore di trasformazione del mondo»:

Ma ci sarà pure, in qualche punto o momento, una crepa nell’armatura d’acciaio dell’Era tecnologica, attraverso cui far penetrare il fermento del pensiero, che guarda criticamente alle cose. […] Questo non significa che torneremo a sostenere che la politica è tutto, come venticinque anni or sono, mentre ora di fatto non è quasi più niente. La politica può anche essere una piccolissima cosa rispetto alla dimensione complessiva dell’esistenza: ma quella piccolissima cosa bisogna che esprima lucidamente la natura, i contenuti, gli obiettivi degli interessi in gioco; in caso contrario, ne nasce un’orribile confusione e tutto ne risulta inquinato e corrotto. […] Persino il terreno concreto di applicazione di un discorso come quello di Scrittori e popolo – la letteratura – ci si è dissolto tra le mani: se uno ripetesse l’operazione compiuta da quel libro sulla produzione degli ultimi vent’anni, farebbe soltanto sorridere. In mancanza del cielo delle stelle fisse, ormai scomparso, non resta che l’Empireo, la candida rosa: il «se-stesso» che è «l’altro» di cui conviene oggi parlare. Siamo più inattuali di vent’anni fa, a guardar bene: e il fatto che nessuno se ne sia accorto, è la prova clamorosa di quanto lo siamo [50].

A partire da quell’antica intuizione l’importanza della componente della civiltà occidentale che Asor Rosa definisce «elemento barbarico» continua a farsi sentire con forza, fino alle sue ricerche degli anni più recenti. Ne è esempio notevole l’importante volume su Machiavelli e l’Italia (2019), in cui appunto la categoria di barbarico viene illuminata nella funzione polare, entro l’aspra dialettica antropologica, ma in ultima istanza di valenza quasi cosmogonica (il cui germe si è colto in Genus italicum), che collega la formazione di un’immagine identitaria di alta civiltà “italiana” e l’irruzione continua della «“barbarie”, o “ferinità”»:

…senza combattere quella «barbarie», o «ferinità», che dir si voglia, non c’è spazio per la sopravvivenza degli italiani e per il loro benessere, civile e politico. Il resto della storia si sviluppa lungo queste coordinate. […] E cioè: come esiste una «barbarie» straniera, certo più tangibile e pericolosa, così esiste una «barbarie» interna ai conflitti nazionali, fatta fondamentalmente di atteggiamenti linguistici e letterari[51].

Nel delineare questa dimensione di conflittualità intrinseca, costitutiva di ogni dimensione culturale, fra «“barbarie”, o “ferinità”, che dir si voglia», Asor Rosa si riferisce dunque soltanto ad «atteggiamenti linguistici e letterari», senza richiamarsi mai esplicitamente a una dimensione fondativa di carattere antropologico, come ad esempio (per evocare solo gli archetipi delle ricerche di morfologia delle culture) aveva fatto, sia pure, su posizioni assai diverse Aby Warburg, quando studiava la presenza pericolosa dell’elemento «demonico» a partire dall’ampio saggio del 1920 sulla divinazione antica-pagana, letto e citato precocemente da Walter Benjamin nell’Ursprung des deutschen Trauerspiels (1925), a proposito del «timore di Saturno»[52] e del «viso scuro-demoniaco» degli «antichi Dei, ridotti a una inerte cosalità», a cui, secondo l’idiosincratica ma fecondissima lettura di Benjamin, «corrisponde nel barocco l’allegoria»[53].
Warburg opponeva dialetticamente all’«aspetto per così dire olimpico dell’Antichità» un «lato demoniaco» conservatosi per vie sotterranee fino al Rinascimento[54]; in un seminario su Burckhardt e Nietzsche del 1927 riconosceva la minaccia «il soffio demonico del dio della distruzione»[55]; in un altro parallelo tenuto fra 1927 e ’28 metteva in luce «la polarizzazione energetica di coniazioni figurative antiche dal punto di vista della memoria come processo/funzione originariamente spirituale»[56]; e ancora negli ultimi mesi di vita, in un discorso del luglio 1929, tratteggiava come sforzo culturale e nel contempo psichico «contenere il caos della sragione attraverso un sistema filtrante della riflessione retrospettiva»[57]. Ma soprattutto nell’avvio dell’Introduzione al progettato Atlante di Mnemosyne, l’opera della vita (pubblicata postuma solo nel 1937) Warburg aveva insistito su un’oscillazione ininterrotta, nella vicenda delle civiltà, «due poli-limite dell’atteggiamento psichico», interpretati in dimensione storico-culturale e perfino cosmologica:

La creazione consapevole della distanza tra l’Io e il mondo esterno è ciò che possiamo designare come l’atto fondamentale della civilizzazione umana. […] La consapevolezza di questa distanza può diventare una funzione sociale durevole che, attraverso l’alternarsi ritmico della identificazione con l’oggetto e del ritorno alla sophrosyne, indica il ciclo tra la cosmologia delle immagini e quella dei segni. Si tratta di un andamento circolare il cui funzionamento più o meno preciso, in quanto strumento spirituale di orientamento, finisce per determinare il destino della cultura umana. L’artista, che oscilla tra una concezione del mondo religiosa e una matematica, è dunque assistito in modo del tutto particolare dalla memoria sia collettiva che individuale. La memoria non solo crea spazio al pensiero, ma rafforza i due poli-limite dell’atteggiamento psichico: la serena contemplazione e l’abbandono orgiastico[58].

Occorre precisare che il nome di Warburg non appare, se non vedo male, in alcun libro di Asor Rosa. Tuttavia un punto di tangenza per ciò che attiene a questa dialettica fra la polarità del «demonico», «orgiastico», «barbarico», e quella del «contemplativo», «identitario», «civilizzato», a mio parere può essere riconosciuto nella mediazione di Ernst Robert Curtius, ben presente nell’orizzonte asorrosiano. Curtius riprese proprio da Warburg, direttamente, il tema del conflitto fra civiltà e barbarie, o imbarbarimento, fin dai primi anni Trenta[59], per confluire nel capolavoro del 1948, l’Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter (dedicato non a caso proprio a Warburg) in cui la polarizzazione è tematizza chiaramente anche in termini etici e deontologici: e la Krisis che Curtius additava non era solo politica, ma in primo luogo di civiltà[60], consistendo nello sgretolarsi della Bildung umanistica ormai affidata alle masse, le stesse che Ortega y Gasset[61] vedeva crescere nel dominio delle civiltà pericolosamente pronte ai conflitti su base nazionalistica e sovranistica[62].
Nel lavoro critico di Asor Rosa una permanente dimensione antropologico-umanistica nella riflessione sul «barbarico» mi sembra palese, per quanto sotto traccia, perfino quando insiste sul solo dato linguistico-letterario quale componente di livello superiore (ma non “superficiale”) di una stratificazione storico-culturale. Ad esempio, ancora nel libro su Machiavelli e la «grande catastrofe» italiana, la «costante inequivocabile» di riscatto della civiltà su ampia scala diacronica consiste proprio in una cosmogonica «lotta per liberarsi dalla “barbarie”» a favore di un mitico (e utopico) primato di carattere umanistico:

Le motivazioni a difendere quella indiscutibile primazia di fronte alla «barbarie» incombente, […] sia del passato, sia del presente, non ancora ben definito ma minaccioso, traevano da ciò un’incredibile forza di diffusione e insieme di resistenza. La lotta per liberarsi dalla «barbarie» e dare una voce sua propria, e il più possibile unitaria, all’Italia rappresenta dunque una costante inequivocabile anche della riflessione linguistica, sia sul versante del fiorentinismo presunto machiavelliano sia, – al di là delle stesse molteplici differenze, – sul versante del primo nazionalismo letterario d’impronta bembesca. Si potrebbe anche dire […] che questa operazione linguistico-letteraria sarebbe stata l’unica (o quasi) sopravvissuta alla «grande catastrofe» che in quegli stessi anni andava maturando: il che la dice lunga sulle caratteristiche della cultura (e della politica) italiana di tutti i tempi[63].

Ha un’importanza strategica, nella meditazione di Asor Rosa sul riemergere della «”barbarie” incombente» fino alla «grande catastrofe», l’individuazione del punto critico nella frattura tra elemento etico (l’individuazione del Classico come modello di civiltà) e attuazione politica (la scelta di assumere quel modello di civiltà a prassi storica), che nella cultura umanistica conservano una saldatura decisiva:

La scissione fra etica e politica e fra pensiero e azione, – e cioè la conformazione culturale e ideale dell’intero ceto intellettuale italiano, – fa parte […] anch’essa della «grande catastrofe». La rivolta degli intellettuali non ci fu per gli stessi motivi per cui non nacque il «principe nuovo». Ma con questa ulteriore specificazione: essa fa parte di premesse storicamente ineliminabili, e perciò non banalmente colpevolizzabili. Interessa di più, in conclusione, prendere atto oggi che, nonostante tutto, ci furono cervelli in grado di dire e sostenere che cosa giustamente si sarebbe dovuto fare, – e non fu fatto.

In connessione alla dialettica fra «“barbarie” incombente» e civiltà umanistica identificabile nel progetto di identità italiana (costante è «l’identificazione tra lo straniero e il “barbaro”»)[64] mi pare di grande valore allegorico il rilievo che Asor Rosa dà al lessico utopico-messianico con cui Machiavelli (che al pari Guicciardini «mitizz[a] la storia che sta alle [sue] spalle […] allo scopo di descrivere con più evidenza, e soprattutto con più pathos, il [suo] drammatico presente»)[65] connota l’attesa di un Salvatore, identificato attraverso il mito del «principe nuovo»: «Questi termini sono “redentore” e “redenzione”: “Non si debbe adunque lasciare passare questa occasione, acciò che la Italia vegga dopo tanto tempo apparire uno suo redentore»[66]. E non solo il «redentore» dovrà riscattare l’identità della nazione dalla «“barbarie”, o “ferinità”»; egli dovrà saper ricondurre a dialettica e applicare nella concretezza dell’azione politica, entro un «ordine» rinnovato, il «furore […] barbarico» insito nel necessario ricorso alle armi:

Insomma: il «furore», questa caratteristica originaria perennemente ricorrente nell’esercizio delle armi, resta in ogni caso una caratteristica positiva della buona milizia, ma diventa cattiva se scompagnata dall’«ordine». Quando questo accade, riemerge e prevale l’elemento barbarico, come anche Guicciardini, qualche anno più tardi, osserverà puntualmente al proposito. […] Il dato dunque che va colto è che, senza combattere quella «barbarie», o «ferinità», che dir si voglia, non c’è spazio per la sopravvivenza degli italiani e per il loro benessere, civile e politico[67].

E sarà allora altamente significativo che, trattando della Istoria del concilio tridentino di Paolo Sarpi, recuperato in Genus italicum immediatamente dopo il saggio sui Ricordi di Guicciardini, Asor Rosa rilevi come «una prosa storica come quella di Sarpi sia fittissima di massime etico-antropologiche, in cui il suo punto di vista si condensa in riflessioni di ordine universale»[68]: ed è su questo livello che si saldano «la macchina del potere e le responsabilità individuali», e, in tutti i sensi, «Sarpi comincia esattamente dove Guicciardini finisce»[69].
Tuttavia nella riflessione storiografica e mitografica di Asor Rosa l’«elemento barbarico» non è solo proprio dello straniero: esso si rivela connaturato alla funzione del Classico nella «redenzione» di una civiltà, in una dialettica che a me pare più prossima alle posizioni antropologico-storiografiche di Warburg che a quelle di Curtius. Si torna così, a proposito del «furore» dionisiaco che avvia la «redenzione», al testo-base da cui muovono queste pagine, a proposito dell’ambiguità di ogni eroe, quindi anche del Classico come eroe culturale fondatore di una civiltà.
Nell’antropologia culturale di Ernesto de Martino, della quale in altra occasione ho suggerito di soppesare il ruolo decisivo svolto nella cultura storicistica italiana degli anni centrali del secolo passato e di valutare la consonanza con le posizioni di Warburg e di Curtius (conservate le debite differenze culturali e tenuto conto che si trattò di un “incontro mancato”)[70], ha un ruolo fondamentale proprio la dialettica tra furore e riscatto del valore attraverso il simbolo, de Martino ha offerto una fondamentale riflessione sul valore terapeutico-redentivo della civiltà, che mi pare assai prossimo sul piano epistemologico alle posizioni che Asor Rosa assume nella riflessione sulla dialettica tra «furore» e riscatto di un nuovo «ordine», così nel saggio su Machiavelli come negli studi sul cànone dei classici. A questo “serve” la cultura: a “far passare” il dolore, la crisi, il furore, riaprendo un orizzonte alla temporalità paralizzata, rattrappita su sé stessa, a riscattare l’«ethos della presenza nel mondo, energia morale che fonda la civiltà e la storia» e che «lotta di continuo contro l’insidia della disgregazione e dell’isolamento»[71]. Il messaggio è ribadito da de Martino nella Terra del rimorso: «il compito della comprensione storiografica è di scoprire coerenze culturalmente condizionate nei comportamenti apparentemente irrazionali degli individui e dei gruppi»: e il suo «viaggio nella terra del Rimorso» «volle essere non già contemplazione di un paesaggio mistico, ma comprensione storica di un paesaggio umano»[72].
Riportare l’armonia nel mondo; recuperare, attraverso la finzione rituale e la creazione di immagini interiori positive, il senso nell’insensato, il valore nella derelizione. È questa la funzione dell’arte, della letteratura, e sulle loro orme anche della critica: ampliare l’universo, ingrandire il cielo e la terra, placare la sofferenza quando sembrerebbe che non ci sia via di scampo, restaurare e ristorare il dolore dell’esistere innestando un destino di vita nelle rovine della storia degli uomini.

  1. Il Classico, l’«antropologia della crisi» e l’«esperienza» come «forma del pensiero»

Già negli anni in cui dirige la Letteratura italiana per Einaudi e scrive su alcuni autori decisivi per focalizzare la svolta antropologica e storico-culturale del genus italicum (Il canone delle opere, La fondazione del laico, «Decameron» di Giovanni Boccaccio, «Ricordi» di Francesco Guicciardini, «Istoria del concilio tridentino» di Paolo Sarpi), la figura di Guicciardini consente ad Asor Rosa di tematizzare la minaccia della «barbarie» e della «catastrofe», costitutive del percorso di civilizzazione e di assunzione di un’identità dialettica, nei termini espliciti di un’«antropologia della crisi» e di una sfida permanente dell’eroe culturale-Classico in direzione del suo superamento. All’«antropologia della crisi» Asor Rosa associa una nuova forma del pensiero, peculiare della modernità, quella dell’esperienza individuale.
Fin dalla scelta di porre nel cànone dei Classici i Ricordi anziché la Storia d’Italia trapela limpidamente il ragionamento di Asor Rosa intorno a Guicciardini come modello dell’uomo nuovo che elabora, «in stretta sintonia» con Machiavelli[73], una «nuova forma di pensiero» imperniata sull’«esperienza» in eterna mutazione della realtà e della vita, e non più sulla speculazione teorica. Asor Rosa, sottolineando che al centro del nuovo pensare/agire c’è «la varietà delle circunstanze»,  intuisce la modernità straordinaria dello scarto epistemologico segnato dai due grandi classici del pensiero politico di primo Cinquecento, segnatamente di Guicciardini.
La rivoluzione con cui Guicciardini «scompagina la forma del vecchio libro per adattarla alla forma di questo nuovo pensiero» è già quasi la medesima su cui Michel de Montaigne mezzo secolo più tardi impernierà gli Essais, “saggi” e “assaggi” di un “io” inarrestabilmente mutevole, che vede ogni cosa, ogni immagine, ogni pensiero, nella forma fluens del tempo, nel perpetuum mobile[74] di un mondo che «n’est qu’une branloire perenne», ove «toutes choses y branlent sans cesse». Intanto, sotto il segno dell’instabile equilibrio della bilancia, lo sguardo scorre mobile sulla mutazione ininterrotta della realtà:

Je ne peinds pas l’estre; je peinds le passage: non un passage d’aage en autre, ou comme dict le peuple, de sept en sept ans, mais de jour en jour, de minute en minute. Il faut accomoder mon histoire à l’heure. Je pourray tantost changer, non de fortune seulement, mais aussi d’intention: C’est un contrerolle de divers et muables accidens, et d’imaginations irresolues, et quand il y eschet, contraires; soit que je sois autre moy-mesme, soit que je saisisse les subjects, par autres circonstances, et considerations. Tant y a que je me contredis bien a l’advanture, mais la verité, comme disoit Demades, je ne la contredy point. Si mon ame pouvoit prendre pied, je ne m’essaierois pas, je me resoudrois : elle est tousjours en apprentissage, et en espreuve[75].

«Se la mia anima potesse stabilizzarsi, non mi saggerei: mi risolverei», Così la scrittura si trasforma da espressione retoricamente edificata a saggio, assaggio, affondo, penetrazione nell’interiorità, che non «risolve», ma, appunto, approfondisce. Essere «sempre in prova», mai «stabilizzato», sempre in ricerca inquieta: è la natura del “saggio”, specchio dell’uomo nuovo la cui «forma di pensiero» è l’«esperienza», la sperimentazione dell’innumerevole «varietà delle circunstanze». Lo sguardo di Guicciardini è già il moderno osservare la realtà facie ad faciem, “faccia a faccia”, “direttamente”, e non più per cercare consolatoriamente la soluzione di un enigma metafisico, ma per constatare l’incrinarsi della Metafisica stessa e l’avvento del Fenomeno puro, della “Cosa” irriducibile all’interpretazione.
Prima degli Essais di Montaigne e delle Pensées pascaliane, i Ricordi di Guicciardini sono l’enchiridion, libro-pugnale di un guerriero in prima linea nella trincea della conoscenza. Nel contempo sono anche il vademecum “da tasca” tenacemente messo insieme nel raccoglimento della riservata camera di meditazione che fa da correlativo oggettivo alla stanza interiore della scrittura e all’aforisma frammentario che la rappresenta (e non per caso lo stesso Asor Rosa di recente l’ha eletto a modello di scrittura creativa). Credo di non sbagliare dichiarando che, dopo Guicciardini, solo con Leopardi la letteratura italiana saprà ritrovare un suo Montaigne provinciale ed europeo, antropologo della vita chiuso nell’altissima camera della Mente a guardar fluire l’ottusa realtà, là fuori: ed è questo Leopardi che Asor Rosa riconosce come «l’amico lontano, il coetaneo fraterno».
La “vita dell’uomo” è vista e detta da Guicciardini (e in parte anche da Machiavelli) né con pessimismo né con cinismo, ma sotto il segno della problematicità: ovvero con la lucida consapevolezza del suo ininterrotto stato di eccezione. La “vita dell’uomo” di cui l’entomologo della cultura Francesco Guicciardini acciuffa e infilza le larve sparute e feroci è la soglia non razionalizzabile della mera fatticità esistenziale che precede la disumanità e la morte, travolta nella derelizione della bufera infernale dove le “Cose” si abbattono spietate dall’“esterno” schiantandosi, nel buio dell’inconoscibile che resiste all’indagine, sui fragilissimi confini dell’“interno”. E questo senza un senso, come puri eventi “fisici”, senza più alcuna possibile redenzione “metafisica”.
Asor Rosa con finezza coglie lo scarto, la catastrofe epistémica di questa antropologia dell’esperienza, dell’«indagazione» dell’«apprendistato», e ne difende la dimensione etico-civile e politico-storiografica, criticando l’astratta e ideologica posizione dei romantici testimoniata dal saggio di Francesco De Sanctis sull’Uomo del Guicciardini (1869), responsabile del luogo comune secondo cui al centro del pensiero guicciardiniano si installerebbe l’arido e avido principio del «particulare»[76]. La lettura di Asor Rosa ci aiuta a capire che Guicciardini è fra i primi, sulla soglia della modernità, a tematizzare il dolore del sentirsi «al buio», mentre «le cose si scaricano» su di noi, sulla nostra vita ridotta alla pura «esperienza». Già nei suoi Ricordi, per alcuni aspetti sensibili anticipatori dello Zibaldone leopardiano, si sente che, in un senso assolutamente e astrattamente ontologico, «la morte è propinqua», e ci appare, maschera tremenda nel luogo di quello che Harald Weinrich ha chiamato il «tempo stretto», quello che ci fa percepire nel corpo il suo ritmo fatale, il «polso del tempo», giorno-dopo-giorno, ora-dopo-ora, pulsazione-dopo-pulsazione[77].
A questo punto si illumina il lungo considerare di Asor Rosa, nello specchio degli auctores che ha eletto nel cànone, intorno alla fisicità, alla corporeità dell’esperienza umana nella vita, privata e pubblica, esistenziale e politica. Rilevo che nel recente libro su Machiavelli questa posizione è assunta come soglia d’ingresso, nel riconoscimento del «nesso […] fra atteggiamenti e scelte intellettuali e politiche e la sua disposizione umana, perfettamente umana, a collegare il sopra e il sotto, il celebrale e il fisico, il corpo e la mente»: cosicché «tra il basso e l’alto e tra il comico e il tragico non c’è un’alternativa netta e insormontabile»[78], e Machiavelli stesso, in una lettera a Guicciardini successiva al 21 ottobre 1525, ormai a pochi passi dalla fine, si definisce «Niccolò Machiavelli, istorico, comico e tragico»[79]. Il centro del ripensamento di Asor Rosa su Machiavelli e su Guicciardini è nell’idea di una «eterna duplicità, e alternanza, delle sorti umane», forze che «regolano anche i comportamenti quotidiani, e al tempo stesso il loro raffrontarsi, e misurarsi, talvolta enigmatico, alla storia»[80].
Asor Rosa riconosce in questo percorso una continuità identitaria e “genetica” (nel senso del genus italicum): il problema in cui i grandi pensatori colgono l’incrinarsi di un’epistéme nel disfarsi dell’impianto politico-istituzionale di primo Cinquecento, è lo stesso che Dante, forse lo scrittore più vicino a Machiavelli, aveva posto esattamente al centro della Commedia, nel canto XVI del Purgatorio: «il rapporto fra libertà e necessità nell’agire umano, (…) carattere inconfondibile e permanente (finora?) della cosiddetta civiltà occidentale: estraneo inequivocabilmente, almeno in questa forma decisa e dirimente, a tutte le altre forme di civiltà umane. L’aspetto straordinario del discorso machiavelliano (…) è che Niccolò pone questo atteggiamento a fondamento del pensiero politico moderno»[81]. Quando esorta i principi italiani a «“darsi da fare” prima che sia troppo tardi», Machiavelli, attraverso «un poderoso organismo pensante» capace di abbracciare una realtà estremamente composita fronteggia «l’approssimarsi della catastrofe» con «le forze del pensiero e della ragione», ma anche con la propria fisicità dolente e difettiva, nella certezza che «il pensiero non è spirito, è materia, al pari del corpo: ed esattamente come il corpo funziona e agisce»[82].

  1. Il Classico, il corpo, il «ghiribizzo», la scrittura

Mi pare assai significativo che la dimensione primaria della corporeità trapeli con forza anche nella scrittura “creativa” di Asor Rosa, con perfetta consonanza tra la riflessione storico-critica e la letteratura, che è un tratto caratterizzante delle opere più recenti. Ne riconosciamo esempi numerosi e di grande bellezza: come nel «solo grumo di materia senziente e pensante» in cui si trasformano, nella pagina conclusiva del racconto Pepe e il Vecchio, il protagonista e il suo cane nell’attimo in cui «s’immergono, – insieme, appunto, l’uno accanto all’altro, – nell’oscurità»[83]. E del Vecchio era stata descritta, poco prima, la natura lacerata fra astrazione intellettuale e impulso alla fisicità:

Quando un’idea gli germoglia nella testa, – e questo, ahimé, capita spesso, – invece di trasformarla in desiderio e in piacere e di scatenarsi allegramente in una corsa selvaggia su di una spiaggia deserta o su di una riviera fiorita, il Vecchio s’apparta, si rifugia in se stesso, s’immalinconisce, estrae dai suoi scaffali e dalle sue cataste tre, quattro, cinque, dieci, cento! dei suoi libri, comincia a sfogliarli furiosamente […], li consulta e li confronta, li legge […], li legge per ore: cerca lì dentro la verità […], o almeno un suo ragionevole facsimile, anche soltanto un simulacro appena appena profilato di come le cose stiano e di come vada affrontate e convenientemente trattate. Infine, dopo ore ed ore, solleva il capo dai suoi libri, li chiude e ripone uno dopo l’altro sconsolato: non ha fatto che imbattersi nello stesso problema enunciato mille volte in forme diverse; nessuna soluzione che ponga fine una buona volta a quella vana […] ginnastica[84].

Il tema della vecchiaia, anzi dello stato di decrepitezza, nella sua figuralità estrema affascina Asor Rosa, sia come immagine della sorte che spetta al corpo di ogni individuo, e dunque al rapporto fra interiorità e socialità, sia come allegoria di una situazione collettiva di decadimento catastrofico. In Fuori dell’Occidente, ad esempio, trattando del rapporto fra Apocalissi e Rivelazione, introduce una pagine di notevole densità letteraria dedicata al progressivo allontanarsi dell’individuo dalla realtà, e alla vecchiaia come laboratorio di un consapevole autoesilio interiore:

La profezia non ha età, ma essa assume una forma singolare soprattutto quando scaturisce da quella nicchia di totale solitudine e di esilio sempre più irrimediabile, che è un’estrema vecchiezza […]. Con la vecchiezza l’uomo si isola sempre più dal mondo, è sempre più esiliato in sé all’interno del proprio corpo, anche se continua a dimorare nella propria casa e a sedere sulla medesima poltrona; anche se dotato di un’enorme fede, non può non nutrire disperazione; perché sa di dover perdere presto la propria vita, e la vita è l’unico bene sostanziale dell’uomo (cosa resta poi? Il ricordo dei morti; il cerchio si chiude)[85].

Le età della vita, specie la vecchiaia, rispecchiano una topografia dell’interiorità nelle forme della corporeità. I Ricordi guicciardiniani che ho citato poco fa mi sembrano fra i luoghi più intensi non solo della letteratura, ma della filosofia e dell’antropologia moderne: e nella lettura rigorosa e originale di Asor Rosa questo Classico si manifesta come il primo antropologo dell’interiorità individuale. Necessariamente frammentari, quasi encefalogrammi spirituali, sono questi aforismi di fulminea incisività: infatti definiti «ghiribizzi» dallo stesso autore[86]. Un ghiribizzo è il «ricordo», l’aforisma frammentario e impellente di Guicciardini e di molti «moralisti classici», maestri della modernità (La Bruyère, la Rochefoucault, ma anche Leopardi nello Zibaldone): figlio dell’ozio, ma contro l’ozio in costante battaglia. Il ghiribizzo è un impromptu, un “improvviso” del pensiero e del corpo che ad esso reagisce. Gli sono affini il guizzo del gesto creativo e la bizza immaginativa dell’artista; l’impulso momentaneo e la sospensione meditativa lo guidano[87]. Sfidando il margine della vacuità, in questo minimo spazio tra veglia e sogno, che apre verso il territorio ambiguo della fantasticheria e della falsa coscienza dove il meditare sconfina nel cincischiare, il ghiribizzo è scaturigine del pensiero: lì affonda le sue radici la Mente dell’artista moderno. Guicciardini e gli artisti suoi contemporanei tracciano la nuova mappa dell’interiorità e delle funzioni creatrici che in essa prendono voce, metaforicamente animale, spiritualmente angelica. La forte insistenza di Asor Rosa sulla corporeità mette in luce come l’esperienza conoscitiva sia per Guicciardini prima di tutto, e alla fine di tutto, «esperienza» del corpo, del tempo, della «morte propinqua» che teatralmente «apparisc[e] a ogni ora», occhieggiando senza posa dalle quinte, fra le “Cose” che «si scaricano» con violenza sull’interiorità. La sua sperimentazione del sentire e del conoscere è moderna perché è proprio l’esperienza del pensare e del provare emozioni, si stringe alla «pena del ricordarsi», al «vecchio feroce struggimento di sentirsi uomo», la stessa (fatte le dovute differenze di contesto storico) di cui parlerà Primo Levi nella derelizione del Lager, dove si sterminano non uomini, ma l’umanità[88].

Un bell’esempio lo trovo in racconti di Amori sospesi come Il Vecchione e la Bella Fanciulla, e ancor più nello struggente, tenero Trippoli, storia di un professore di greco beffardamente soprannominato Trippoli per la sua pinguedine, che trascorre l’esistenza intera in un Liceo adempiendo per decenni con annoiato, monotono rigore il proprio dovere finché, «dolorosamente-estaticamente», subisce «l’immedicabile ferita» dell’amore per una nuova studentessa dalla voce di colomba, Elisa, balenante «epifania» delle occasioni «eccezionali e imprevedibili»: e così sacrifica «la sua componente angelica» «per la prima volta in vita sua sull’altare insanguinato delle passioni»[89]. Sprofondando nell’ebetudine che lo accompagnerà alla banale fine (in cui si riverbera chiaramente il Thomas Mann di Morte a Venezia), Trippoli comprende e subito perde il senso delle cose, cogliendolo in un lampo in un frammento di Mimnermo letto e insegnato per anni, ma nuovamente scandito per la sua classe dopo l’improvvisa partenza di Elisa. Allora arriva «vicino alla muta verità delle cose»: l’esito del vivere, il corpo che non sfugge all’età, al mutare della carne: «così un dio vuole che la vecchiaia sia spaventosa»[90].

Un altro esempio notevole lo trovo nel conclusivo, articolato aforisma eponimo di L’ultimo paradosso (1985), sullo sfondo del quale mi pare di poter individuare un sottotraccia inespresso che rinvia a Palomar di Calvino (1983), in particolare alle pagine finali dedicate alla possibilità di «conoscere un’onda», esperienza fisico-gnoseologica che si concretizza solo nell’attimo della morte del protagonista, apokatástasis della sequenza di sperimentazioni durate per tutta la vita: «L’ultimo paradosso è che uno sa tutto quello che gli serve per vivere nel momento in cui ha già vissuto: la mia esperienza si compie dunque sul già fatto; per ciò che devo fare, esperienza ancora non c’è; quando ce ne sarà, non ci sarà più da fare. […] La morte coincide dunque con il momento di massima esperienza dell’uomo, perché dopo di essa – come è persino ovvio, banale – non potrà essercene altra. Ma questo momento di massima esperienza arriva esattamente quando non c’è più modo di valersene: allora sappiamo tutto quanto c’era da imparare, ma questa facoltà ci è data unicamente perché allora non c’è più nulla da imparare»[91].
Un secondo brano di L’ultimo paradosso, che riproduco solo in parte, si impernia sulla fisicità dolente, sul corpo che percepisce la propria fragile natura, il proprio limite, divenendo luogo di passione e di compassione e di fraternità. Questi termini, su cui si fonda una semantica complessa, mi sembra invitare a un accostamento della posizione dell’ultimo Asor Rosa, che dichiara esplicitamente di aver superato una «lunga fase “politica», a quella, laicamente attenta alla sacralità creaturale, di un Pasolini lettore di Auerbach:

Non facce, ma discorsi. Non volevo facce, ma discorsi. Non corpi, ma idee. È stata la mia lunga fase «politica». Mi ostinavo a pensare a uomini e a donne immaginandomeli privi di volto. Letteralmente, quando parlavo con loro, mi sforzavo di credere che avessero un foglio bianco al posto del volto: lo consideravo essenziale, perché il nostro rapporto fosse veramente «puro», «intellettuale». Da questa lunga allucinazione sono uscito non di colpo, ma a poco a poco, per frammenti separati: nei corpi e nei volti riemergevano, come per istantanee e non sempre raccolte illuminazioni, degli sprazzi, colori, pezzi del quadro, elementi di un rapporto «non-ideale». Una notte, in ospedale, avevo sofferto terribilmente, attraverso lunghe ore di buio e di solitudine. Il mio vicino di sinistra, la sera prima, aveva mangiato, ruttato, si era voltato verso il muro e si era addormentato, dopo avermi guardato per un istante con l’aria assorta e lontana di chi capisce ma non vuol capire, e ti tiene distante, geloso della esclusività del suo dolore. Il mio vicino di destra aveva passato la notte a tenermi la mano nella mano (la mano! Una cosa tangibile, vivente, un poco strana e imbarazzante nella sua incerta mobilità, umida di sudore) e ad asciugarmi le lagrime, che, senza sforzo, mi colavano dagli occhi e si perdevano sul cuscino. […][92].

È sulla base di questa centralità del fisico, del corporeo, dell’antropologico (la faccia, la mano stretta, le lacrime, l’estraneità, l’intimità con l’estraneo, la felicità che ne deriva) come pernio dell’identificazione individuale e della dialettica fra soggettività e politica, che Asor Rosa rimedita le antiche categorie di esteriorità e interiorità (declinata perfino nell’accezione di anima), ricorrendo ad Agostino e alla sua fondazione dell’homo interior. A mio parere qui prende figura l’atto di apertura verso il Moderno: «Il ragionamento […] muove dalla persuasione […] che senza una Riforma non ci saranno riforme. E una Riforma si fa, innanzitutto, in interiore homine». Un nesso interessante con questa riflessione sull’interiorità si incontra in Fuori dall’Occidente, «ragionamento sull’Apocalissi», ma anche sulla «Riforma» dei valori, che si sviluppa intorno alla trascendenza quale ulteriorità, generazione di senso a partire dal pensiero “dentro” il corpo, “dentro l’individuo”, nel superamento dell’indifferenza come conformismo, falsa identità: «Si può uscire dall’Occidente, solo passando attraverso la propria anima. La nostra propria anima è l’unico luogo dove entrare ed uscire, restare ed andare, possono essere contemporaneamente possibili e legittimati da un atto di libertà insindacabile e assoluto»[93].

  1. Il Classico, la «Riforma» interiore, la battaglia contro l’«indifferenza»

Alla categoria marxiana di «lotta di classe» mi sembra, a questo livello del pensiero di Asor Rosa sulla crisi della modernità, annettersi o forse addirittura sostituirsi quale premessa irrinunciabile quella peculiarmente spirituale, e per certi aspetti ideologici, semantici e lessicali esplicitamente cristiana, di «riforma interiore». Ma credo che il punto di mediazione sia da riconoscersi in Antonio Gramsci[94], specie in quello ancora in parte gobettiano delle pagine giovanili (1917) sull’indifferenza come malattia supremo dell’individuo e dei gruppi apparse su «La città futura» (ad esse si ispirò di certo il Moravia di Gli indifferenti, 1929). Gramsci riconosce nell’indifferenza «il peso morto della storia», «il male che si abbatte su tutti» e che si contagia «perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà»; per Asor Rosa essa è «un modo di vita, che s’attacca come un morbo schifoso all’esistenza, anche quotidiana, di tutti».

Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che «vivere vuol dire essere partigiani». Non possono esistere solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? [95]

Credo si possa additare un nesso diretto fra queste argomentazioni gramsciane (e in certa misura anche gobettiane) di carattere prima etico che politico, pedagogico e per questo civile, vibrate, umanistiche, e la maturazione, nel lavoro critico-letterario, antropologico e politico di Asor Rosa che assume a fondamento della pienezza umana (e umanistica) la «lotta per liberarsi dalla “barbarie”» e dall’indifferenza degli individui e delle masse quale unica prospettiva per restituire un orizzonte di riscatto collettivo a fronte dell’apocalisse, della «grande catastrofe».
Decisivo per questo riscatto è il ruolo del Classico come eroe culturale di una civiltà, come modellizzatore “eroico” di un sistema di valori capace di riformare gli individui e per questa via, “dall’interno”, rivoluzionare le civiltà: Dante, Guicciardini, Machiavelli, il Leopardi del Discorso sopra lo stato presente del costume degl’italiani (1823), che insieme al Manzoni dei capitoli XII e XIII dei Promessi Sposi (1827) inaugura in Europa un’ermeneutica antropologica ed etico-civile dei movimenti delle masse e della loro manipolabilità. A questo pensavo parlando, in apertura, del Classico come «eroe illustre» portatore di luce, eroe della luminosità conoscitiva, e collegavo questa figura allegorica alla definizione di Ernesto de Martino a proposito del mago come «il signore del limite, l’esploratore dell’oltre, l’eroe della presenza». Il superamento dei limiti, l’esplorazione dell’oltre, rappresentano la coraggiosa esperienza della «catastrofe» in cui la presenza individuale e collettiva rischia di perdersi, e va invece riplasmata e riformulata, al di là di ogni individualismo e conformismo, grazie a un’accorta pedagogia della comunità.

  1. Per un’etica della fraterna compassione: finis historiae.

Un simile orizzonte riconosco nell’esortazione di Asor Rosa a sostituire all’«indifferenza», anche quella delle mere strategie politiche e culturali, una scelta radicale di «differenza», che prende forma di compassione, intesa come compartecipazione e condivisione della «riforma interiore» contro la «grande catastrofe»:

Bisogna ripartire dal basso, dove l’Occidente ha sedimentato le sue repressioni e insieme allineato una dietro l’altra le sue innumerevoli sconfitte. A quel livello s’indovina meglio l’esistenza di una «trama» che sconfina al di là del disegno imperiale. Patire-con – «sentire», «vedere», «soffrire», «pensare» insieme con qualcuno – cioè compiere l’operazione esattamente contraria a quella che il sistema quotidianamente c’impone, – la pratica dell’«in-differenza», – e quindi cogliere e coltivare la «differenza» nel suo movimento dinamico di composizione e ricomposizione delle forze come l’elemento attivante di nuove dimensioni dell’essere, – e al tempo stesso condividere questa faticosa operazione con altri, spartirla fraternamente, – può essere un modo per far sorgere scogli e difese dove c’era solo una striscia sottile di sabbia. Non «re-ligare», dunque, ma «com-patire»; non essere comunque sopra; ma insieme[96].

Per quanto Asor Rosa negli anni Sessanta abbia espresso forti critiche intorno alla concezione di «popolo» espressa da Pier Paolo Pasolini, mi pare si possa chiamare in causa, a questo punto, il pensiero intorno alla compassione di questo altissimo scrittore-moralista-antropologo, il quale, rifiutando la religione che sottomette a gerarchie, invece riconosce e proclama l’originaria sacralità del suo sguardo sul mondo: appunto, con le parole di Asor Rosa, «Non “re-ligare”, dunque, ma “com-patire”; non essere comunque sopra; ma insieme». Pasolini, in una conversazione con il fotografo, regista e giornalista americano-tedesco dell’11 giugno 1965 a Gideon Bachmann, a proposito di Accattone parlava infatti di una «sacralità stilistica» e di uno «sguardo sacrale» come «quello più antico e arcaico, che io ho dalla nascita e mi sono formato nella prima infanzia ed è dunque il mio sguardo originario»[97].
Accattone, ma anche Mamma Roma (1962). Come il Cristo di Mantegna visto dai piedi, “dal basso”, deposto in una assoluta povertà e in umanissima nudità anche il «ragazzino», l’adolescente Ettore che da quel Cristo deriva con intenzionale gesto di copia nella costruzione dell’immagine in un finale tragico fra i più belli di Pasolini (Mamma Roma 1962), incarna nella storia umana il povero Cristo dell’historiola mitica evangelica (uso il termine nel senso di Ernesto de Martino). Il povero, il povero Cristo che la letteratura rimpiange con una passio che solo Erich Auerbach (così caro a Pasolini) ha saputo descrivere nelle sue valenze più segrete, come «realismo creaturale»[98], e che la fotografia fra Otto e Novecento si sforzerà, con qualche ipocrisia, ad eleggere a modello iconico della compassione borghese, «usa il mondo come non usandolo o non abusandone» («et qui utuntur hoc mundo, tamquam non utantur»: I Cor., 7, 20). Anche l’Ettore di Mamma Roma è, alla lettera, un povero Cristo, una poverissima creatura umana che “porta la sua croce”, al pari di ogni vivente: «Povero come un gatto del Colosseo…» (Il pianto della scavatrice, 1956)[99]. Quando la Madre lo piange da lontano mentre sta per morire, disteso sul letto di contenzione, nelle sue parole straziate il «ragazzino» Ettore è un «Cristo passeretto», la «pora creatura mia»[100] che disperata, «davanti alla distesa di Roma, […] immensa e indifferente sotto il sole», lei piange e compatisce, in una compassio matris[101] laicamente religiosa, sacrale, come è, appunto, uno «sguardo sacrale» la visione del mondo di Pasolini.
Ed è in questa dimensione che credo vada inteso il senso della comprensione e compassione da opporre all’indifferenza, che nel pensiero di Asor Rosa mi paiono collegare il momento antropologico, quello critico-letterario, quello politico. Quando, già nel saggio sulla Fondazione del laico, da considerarsi fra gli archetipi della riflessione sulla funzione antropologico-identitaria del Classico, Asor Rosa sottolineava la centralità di Dante, Petrarca e Boccaccio nella «fondazione di una letteratura laica, a ridosso di un’esperienza secolare di cultura ispirata direttamente ai principî di una religione e di una metafisica ben caratterizzate e totalmente trascendenti, come quelle cristiane»[102], individuava una dimensione di civiltà in cui occorre inserire anzitutto la rivoluzionaria proposta di una spiritualità laica elaborata da Francesco d’Assisi, che, non clericus, si definiva invece con fierezza laicus et illitteratus[103]. E a me pare che appunto questo sia l’orizzonte su cui si stagliano Pasolini prima, quindi, in piena autonomia ma con forte consentaneità, l’ultimo Asor Rosa. Superata la fase del j’accuse depositato nell’«“archetipo” di tutta la “historia”», Scrittori e popolo[104] («L’adolescente Pasolini si sprofonda nella contemplazione di questa esistenza primitiva e atemporale, con lo stesso ardore di un mistico che ha intravisto l’immagine della Salvezza»)[105], Asor Rosa scioglie molti nodi lungo la crescita della sua riflessione storico-letteraria e “moralistica”, superando «la [su]a lunga fase “politica”» e così aprendo verso una prospettiva che lui stesso, come ho abbondantemente ricordato, denomina «antropologica». Asor Rosa riconosce, pur criticamente, che Pasolini, lungo gli anni,

ha subìto dentro la propria opera il crollo di una posizione ideologica non soltanto personale, ma storica, oggettiva. È avvenuto, insomma, che mentre egli impiantava tutta la sua ricerca intorno ad una determinata concezione del mondo, esaltante in modo particolare la condanna moralistica dei miti borghesi e la richiesta di una umanità più umana per tutti […] questo moralismo antiborghese di impianto borghese, questa petizione umanitaria di natura tanto tradizionale, questo concetto così accomodante e così comodo di popolo, entravano in crisi nell’ambito della crisi di una “cultura di sinistra”, arrivata ormai a dimostrarsi fin troppo chiaramente parte integrante e necessaria di una cultura borghese[106].

Lega l’Asor Rosa storiografo e il Pasolini saggista e poeta una profonda meditazione su Gramsci, ed anche «sulla fine del millennio» di fronte a cui non è «concesso di nutrire consolazione o speranza né per il proprio né per l’altrui futuro»[107], in un parallelo con Calvino che Asor Rosa coglie con grande finezza, scavalcando le oggettive difformità fra lo sguardo creaturale del primo e quello geometrico del secondo. Allora anche per l’Asor Rosa ipercritico di Scrittori e popolo il «Pasolini post-gramsciano», recuperando «la dimensione panica, istintiva, dell’esistenza«, infine «riallaccia i rapporti con la fase pre-gramsciana della sua ispirazione»[108]: ed è allora che si svela «il Pasolini più vero», di «aristocratica raffinatezza», il quale «sa esser poeta, quando ci fa sentire che la letteratura può essere anch’essa, in quanto tale, occasione di dolore e di scandalo»[109].
In questo percorso verso una scrittura come «occasione di dolore e di scandalo» e come antropologia della crisi e dell’apocalissi, ove letteratura ed esistenza si saldano e si annullano e il geometrico si sovrappone al creaturale, Asor Rosa coglie nello specchio del Classici una propria dimensione tragica e nel contempo comica, così come ha ben visto per Machiavelli di fronte alla «grande catastrofe».
Il finale dell’ultimo paradosso dell’Ultimo paradosso (1985), imperniato su una straordinaria enumeración caotica, in un’arcata discorsiva che ha il respiro di certe pagine “cosmologiche” gaddiane e rammenta il finale apocalittico di Palomar, sintetizza mirabilmente questo legame tra corporeo e spirituale, privato e pubblico, esistenziale e storico, antropologico e politico. Così si chiude, provvisoriamente, l’historia:

Sappiamo tutto (tutto, naturalmente, quanto ci è dato sapere): non possiamo niente. La sapienza tanto faticosamente acquisita prende, allora, la forma di una colossale, infinita, patetica perorazione in favore della nostra colossale, infinita debolezza: la nostra vita coincide, è una cosa sola con uno sterminato, infinito cahier de doléances indirizzato alla storia, agli uomini, ai nostri figli, ai vostri amanti, a Dio – e continuamente respinta senza risposta. Qualunque siano le convinzioni precedentemente nutrite – e io spero naturalmente che esse siano di un incrollabile, forte, scettico materialismo -, qualunque siano tali convinzioni, io sono certo che allora, in quel momento, si prega: se pregare significa chiedere ad altri spiegazione e protezione nei confronti dei paradossi inspiegabili, entro i quali ci si trova invischiati e avvinti. Ma anche questo tentativo di dialogo si risolverà presto in un monologo: e ognuno saprà da sé e per sé qual è stato il suo valore e perché ha vissuto. Oltre questa soglia non possiamo, davvero, indovinare nulla; ma solo immaginare come la chiusura – prevedibilissima, e insieme imprevista – di un sogno. Ci sarà un momento – deve esserci un momento – in cui tutti gli innumerevoli detriti di conoscenza accumulati nel corso di decenni – e poi logori, corrosi, consumati, dimenticati, messi inesorabilmente da parte, ma mai completamente gettati nelle immondizie – bruceranno all’improvviso come un falò in mezzo alla nebbia sopravveniente: e insieme con quel chiarore ci sarà colore, e consolazione, e certezza – e insieme tranquilla, serena consapevolezza della inutilità e futilità di questa troppo tardiva scoperta; e attesa tranquilla dello scioglimento del grande paradosso dell’essere e della conoscenza: e allora, in quel momento, precisamente in quel momento, insieme con quel chiarore, e quel calore, e quella consolazione, e quella certezza, e quella consapevolezza, e quell’attesa – una festa, una grande festa, un godimento inconcepibile, una riflessione profonda, un solo respiro e sospiro, uno struggimento di tutto l’essere – proprio con tutto questo, in quell’istante, in quello stesso preciso istante: Finis historiae[110].

[1] A. Asor Rosa, Il canone delle opere (1992), in Id., Genus italicum. Saggi sulla identità letteraria nel corso del tempo, Einaudi, Torino 1997, pp. 3-31 (a p. 27; il riferimento polemico è, evidentemente, alla posizione di Croce, definita nel saggio sull’Ariosto del 1917).

[2] Ibid., p. 13.

[3] Id., Genus italicum (nota al testo posta in appendice a La nuova critica), ibid., p. XXIX.

[4] Id., La nuova critica, ibid., pp. XIII-XXIX (a p. XXII).

[5] Ch.-A. Sainte-Beuve, Qu’est-ce qu’un classique?, in Id., Causeries du lundi, III, Paris s. d., pp. 38-55 (a p. 42); lo cita A. Asor Rosa, Letteratura italiana. La storia, i classici, l’identità nazionale, Carocci, Roma 2014, p. 77.

[6] Le citazioni che seguono sono tratte da La nuova critica cit., p. XV.

[7] Cfr. G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, p. 307, ed. critica e annotata a cura di G. Pacella, 3 voll., I, Garzanti, Milano 1991, p. 255 ; lo cita A. Asor Rosa, Letteratura italiana. La storia, i classici, l’identità nazionale cit., p. 83.

[8] Cfr. G. Macchia, I moralisti classici. Da Machiavelli a La Bruyère, Garzanti, Milano 1961 (poi Adelphi, Milano 1988); ma cfr. già Id., I convitati di pietra: saggi su moralisti e poeti francesi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1952.

[9] Il rinvio è alle Lezioni americane (1988) di Italo Calvino (in Id., Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, 2 tomi, Mondadori, Milano 1995, I, pp. 697-714) e al saggio dello stesso Asor Rosa («Lezioni americane» di Italo Calvino), molto bello e importante, ripreso in Genus italicum cit., pp. 753-795 (specie l’ultimo paragrafo, Un “ponte” verso il terzo millennio, alle pp. 789-795). Lo stesso saggio è stato successivamente compreso anche nel notevole volume Stile Calvino. Cinque studi, Einaudi, Torino 2001, pp. 63-134.

[10] A. Asor Rosa, Canti Orfici di Dino Campana, in Genus italicum cit., pp. 683-751 (a p. 749; i corsivi sono dell’autore). L’autore stesso rinvia al proprio saggio sui «Canti Orfici» di Dino Campana, ibid., pp. 683-751 (alle pp. 735 ss.: Un ponte sull’infinito; la frase nietzschiana, ricordata da Asor Rosa per commentare un passo del Taccuinetto faentino di Campana sul «ponte gettato sull’infinito», è a p. 749).

[11] Id., Le armi della critica. Scritti e saggi degli anni ruggenti (1960-1970), Einaudi, Torino 2011, p. L.

[12] Ibid., pp. L-LI.

[13] Ibid., p. XXVII.

[14] Ibid., p. XXIX.

[15] Ibid., p. XLIV.

[16] Id., Genus italicum cit., p. XV.

[17] Ibid., p. XIV.

[18] Ibid., p. XV (i corsivi sono miei).

[19] E. W. Said, Humanism and Democratic Criticism (2004); trad. it. Umanesimo e critica democratica, con un’Introduzione all’edizione italiana di G. Baratta, Il Saggiatore, Milano 2007, p. 81 (nel cap. 2, Le mutevoli basi dello studio e della pratica umanistici, pp. 59-82; il corsivo è mio).

[20] Ibid., p. 84 (nel cap. 3, Il ritorno alla filologia; anche qui il corsivo è mio; da qui anche la frase virgolettata poco più sotto).

[21] A. Asor Rosa, Fuori dall’Occidente, ovvero Ragionamento sull’«Apocalissi», Einaudi, Torino 1992, p. 15 (in apertura del capitolo II: Apocalissi, Rivelazione)

[22] Id., L’ultimo paradosso, Einaudi, Torino 1985, p. 19, aforisma n° 18 (i corsivi sono miei).

[23] Id., L’alba di un mondo nuovo, Einaudi, Torino 2002 (ed. 2018), I. La luce del crepuscolo, pp. 5-23 (alle p. 5, 10-11 e 23).

[24] Ibid., II. L’alba di un mondo nuovo – Lo specchio, pp. 29-33 (a p. 33).

[25] Id., Amori sospesi, Einaudi, Torino 2017, L’ultima volta, pp. 300-323 (a p. 323).

[26] M. M. Santschi, I. Calvino, Je ne suis pas satisfait de la littérature actuelle en Italie, in «Gazette de Lausanne», 127 (3-4 juin 1967, p. 30). Cito il testo pubblicato (sul dattiloscritto autografo) in Note e notizie sui testi, a cura di M. Barenghi, B. Falcetto, C. Milanini – Ti con zero, in I. Calvino, Romanzi e racconti, 2 voll., ed. diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, II, Mondadori, Milano 1992, p. 1347.

[27] Id., Lettera a Sebastiano Timpanaro, Luglio 1979, in Id., Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, introduzione di C. Milanini, Mondadori, Milano 2000, p. 1082.

[28] Id., Lettera a Mario Socrate, 23 aprile 1961, ibid., p. 669.

[29] A. Asor Rosa, «Lezioni americane» di Italo Calvino cit., in Genus italicum cit., pp. 789-790; in Stile Calvino cit., pp. 123-125.

[30] E. W. Said, Umanesimo e critica democratica cit., p. 84 (nel capitolo Il ritorno alla filologia). Rinvio alle considerazioni da me svolte in La Filologia e le origini del Moderno, in «Lettere italiane», LXII, n. 3 (2010), pp. 375-394 (in particolare 382 ss.).

[31] H. U. Gumbrecht, The Powers of Philology. Dynamics of Textual Scholarship, Illinois Univer­sity Press, Urbana-Chicago 2003, pp. 4 e 8. Dello stesso Gumbrecht si veda anche The Produc­tion of Presence. On the Silent Side of Meaning, Stanford University Press, Stanford (California) 2003.

[32] A. Asor Rosa, La nuova critica cit., p. XXV.

[33] Cfr. E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo (1948), Il Saggiatore, Milano 1967, p. 129 (nel cap. II, Il dramma storico del mondo magico).

[34] Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, ed. a cura di M. Tavoni nel vol. I delle Opere di Dante nell’ed. diretta da M. Santagata (Rime, Vita Nova, De vulgari eloquentia, a cura di C. Giunta, G. Gorni, M. Tavoni, Introduzione di M. Santagata), Mondadori, Milano 2011 (il testo e la traduzione del DVE alle pp. 1125-1547: il testo citato è a p. 1268).

[35] A. Brelich, Gli eroi greci. Un problema storico-religioso (1958), nuova edizione, con una nota di Corrado Bologna, Adelphi, Milano 2010, p. 307. Nel mio saggio (Mitsingen ist verboten. Cinquant’anni dopo Gli eroi greci di Angelo Brelich, ibid., pp. 433-455) ragiono su questi aspetti delle categorie di eroe e di mito: cfr. in particolare le pp. 443 ss.

[36] A. Brelich, ibid., pp. 34-35.

[37] Id., Introduzione alla storia delle religioni, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1966, p. 11 (i corsivi sono dell’autore).

[38] Id., Gli eroi greci cit., p. 39.

[39] Ibid., p. 304

[40] Rinvio per queste considerazioni al mio studio: Potere della lingua – Lingua del potere: De vulgari eloquentia, Monarchia e la Napoli angioina, in «Significar per verba». Laboratorio dantesco, Atti del convegno Università di Udine, 22-23 ottobre 2015, a cura di Domenico De Martino, Longo, Ravenna 2018, pp. 35-78.

[41] A. Asor Rosa, «Lezioni americane» di Italo Calvino, in Genus italicum cit., p. 761; in Stile Calvino cit., p. 76 (il corsivo è mio).

[42]Ibid., in Genus italicum cit., p. 771; in Stile Calvino cit., p. 92 (i corsivi, salvo «in sé», sono miei).

[43] Cfr. Id., Fuori dall’Occidente cit., con una riflessione che si impernia ancora una volta sull’idea di sguardo come strumento gnoseologico, fondamentale in Calvino: «Se l’Occidente potesse “vedersi” anche una sola volta, nella sua indifferenza gelida e disperata, nel suo tetro grigiore di potenza esclusiva e soddisfatta, si aprirebbe probabilmente una crepa in quella corazza, che è anche un carcere. E se non si aprisse, si potrebbe finalmente considerare la questione conclusa e passare ad un altro ordine del giorno. Il compito fondamentale in questo momento non è dunque “fare politica”, ma costringere l’Occidente a “vedersi”» (p. 107: si tratta dell’ultima pagina del libro).

[44] F. Dostoevskij, L’Idiota, rispettivamente parte II, cap. VI e parte III, cap. V, in Id., L’Idiota. I taccuini per «L’Idiota», in Id., Romanzi e taccuini, a cura di E. Lo Gatto, vol. II, Sansoni, Firenze 1958, pp. 312 e 470.

[45] C. E. Gadda, Meditazione milanese, a cura di G. C. Roscioni, Einaudi, Torino 1974, p. 7 (nella «II stesura, Paragrafi I° e 4°», par. I°, Il dato e l’inizio dell’attività relatrice); poi in Id., Scritti vari e postumi, a cura di A. Silvestri, C. Vela, D. Isella, P. Italia, G. Pinotti (Opere di C. E. Gadda, V*, ed. curata da D. Isella), Garzanti, Milano 1993, p. 863 (i corsivi sono dell’autore).

[46] Ibid., pp. 99-100 (nella «I stesura, parte I, Critica del concetto di metodo e di alcune posizioni ermeneutiche tradizionali, cap. VII, I sensi) ; poi in Id., Scritti vari e postumi cit., p. 668.

[47] A. Asor Rosa, Vent’anni dopo, in id., Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura italiana contemporanea, Einaudi, Torino 1988 (la prima edizione del libro era apparsa a Roma, presso Samonà e Savelli, nel 1965). Nel 2015 Asor Rosa ha riproposto l’opera facendola seguire da quella che dev’essere intesa evidentemente come un’integrazione delle riflessioni di mezzo secolo prima: Scrittori e popolo 1965 – Scrittori e massa 2015, Einaudi, Torino 2015 (il primo testo, dedicato Ai vecchi compagni, porta come sottotitolo: Saggio sulla letteratura populista in Italia, e si legge alle pp. 1-354; il secondo, con il sottotitolo Saggio sulla letteratura italiana postmoderna, e con la dedica Ai compagni che verranno, è alle pp. 355-422).

[48] Id., Vent’anni dopo, ed. 1988, p. XVI (nel 2015 queste pagine non furono ristampate).

[49] Ibid., pp. XVI-XVII.

[50] Ibid., p. XVIII (il corsivo è dell’autore).

[51] A. Asor Rosa, Machiavelli e l’Italia. Racconto di una disfatta, Einaudi, Torino 2019, pp. 29-30.

[52] W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco cit., p. 156.

[53] Ibid., pp. 245-246.

[54] A. Warburg, Heidnisch-antike Weissagung in Wort und Bild zu Luthers Zeiten, in «Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wisenschaften – Philosophisch-historische Klasse», 1920, n. 26; dopo la traduzione curata da Emma Cantimori (1966) si veda ora la nuova versione curata da M. Ghelardi, in Id., Opere, II, La rinascita del paganesimo antico e altri scritti (1917-1929), Aragno, Torino 2008, pp. 83-207 (le citazioni a p. 88).

[55] Id., Burckhardt und Nietzsche. Schlussübung (1927), trad. it. Burckhardt e Nietzsche, ibid., pp. 895-901 (le citazioni a p. 897 e a p. 900).

[56] Id., Kulturwissenschaftliche Methode. Schlussübung (1927-28), trad. it. Il metodo della scienza della cultura. Esercitazione finale, ibid., pp. 911-918 (la frase citata è a p. 916).

[57] Id., Doktorfeier, databile a prima del 30 luglio 1929 (giorno in cui tenne il discorso); trad. it. Discorso di festeggiamento per tre dottorati, ibid., pp. 903-910 (a p. 908).

[58] Id., Mnemosyne. L’Atlante delle immagini. Introduzione, ibid., pp. 817-828 (le frasi citate a p. 819).

[59] Cfr. E. R. Curtius, Deutscher Geist im Gefahr, Deutsche Verlags-anstalt, Stuttgart, 1932; tr. it. Lo spirito tedesco in pericolo, a cura di A. Bercini, I libri di Emil, Bologna 2018, con un’utile Introduzione della curatrice, pp. 7-65 e una sua Nota alla traduzione, pp. 67-68). Su questi temi ha scritto pagine notevoli R. Antonelli, Filologia e modernità, in E. R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, a cura di R. Antonelli, La Nuova Italia, Firenze 1992, pp. VII-XXXIV (io stesso ho collaborato all’edizione italiana).

[60] Rinvio a quanto ho scritto in Assenza, più acuta presenza. Il Medioevo di Warburg e il Rinascimento di Curtius, in «Immagine e Parola», I (2020), pp. 21-44, anche a proposito di E. R. Curtius, Abbau der Bildung (1931); trad. it. L’abbandono della cultura, introduzione di A. Genovesi, postfazione di D. Marcheschi, Aragno, Torino 2010.

[61] Cfr. J. Ortega y Gasset, La rebelión de las masas, Espasa, Barcelona 1929; trad. it. La ribellione delle masse, Il Mulino, Bologna 1962 (la traduzione era di Salvatore Battaglia).

[62]La recente scoperta di materiali già pronti per la stampa di un libro completamente dedicato alla formazione umanistica (Elemente der Bildung) e alle minacce contro di essa, dovuta a Ernst-Peter Wieckenberg e Barbara Picht, aiuta a un ripensamento più sereno della posizione “umanistico-conservatrice” di Curtius: cfr. E. R. Curtius, Elemente der Bildung, aus dem Nachlass hrsg. von E. P. Wieckenberg und B. Picht, mit einem Nachwort von E. P. Wieckenberg, C. H. Beck, München 2017; il testo di Elemente der Bildung occupa le prime 190 pagine; in particolare per Abbau und Aufbau cfr. le pp. 15-19).

[63] A. Asor Rosa, Machiavelli e l’Italia cit., p. 34.

[64] Ibid., p. 27.

[65] Ibid., p. 39.

[66] Ibid., p. 111 (corsivi dell’autore). La frase citata è da N. Machiavelli,  Il principe, ed. a cura di G. Inglese, Einaudi, Torino 2013, p. 190.

[67] Ibid., pp. 28-29.

[68] Id., «Istoria del concilio tridentino» di Paolo Sarpi, in Id., Genus italicum cit., pp. 343-407 (a p. 397).

[69] Ibid., p. 401-407: La macchina del potere e le responsabilità individuali è il titolo del primo paragrafo del capitolo Potere e morale, che si chiude con il paragrafo Le due catastrofi.

[70] Rinvio al mio saggio Documento e ermeneutica: Warburg, De Martino, Castelli, in Aby Warburg e la cultura italiana. Fra sopravvivenze e prospettive di ricerca, a cura di C. Cieri Via e M. Forti, Mondadori Università, Milano 2009, pp. 275-294, tradotto in spagnolo come Documento y hermenéutica: el papel de la imagen, con altri di tematica affine, nel volume El Teatro de la Mente. De Giulio Camillo a Aby Warburg, Siruela, Madrid 2017, pp. 254-277.

[71] Cfr. E. de Martino, Furore simbolo valore, Il Saggiatore, Milano 1962, p. 55.

[72] Id., La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Il Saggiatore, Milano 1961 (nuova ed. 2008), pp. 268-269.

[73] Id., Machiavelli e l’Italia cit., p. 280.

[74] Cfr. M. Jeanneret, Perpetuum mobile. Métamorphoses des corps et des oeuvres de Vinci à Montaigne, Macula, Paris 1997, in particolare pp. 80 ss., 255 ss., 265 ss. e 300 ss. Sul tema della rappresentazione del moto è fondamentale il libro di R. Pierantoni, Forma fluens. Il movimento e la sua rappresentazione nella scienza, nell’arte e nella tecnica, Boringhieri, Torino 1986.

[75] Questa citazione e le altre alla fine del capoverso che precede derivano da M. de Montaigne, Les Essais, III, 2, Du repentir, éd. par J. Balsamo, M. Magnien et C. Magnien-Simonin, Paris, Gallimard, 2007, pp. 844-845 (i corsivi sono miei); trad. it. Saggi, a cura di F. Garavini, Adelphi, Milano 1966, p. 1487.

[76] Cfr. A. Asor Rosa, «Ricordi» di Francesco Guicciardini cit., pp. 264-265, a proposito di F. De Sanctis, L’uomo del Guicciardini (1869), in Id., Saggi critici, a cura di L. Russo, Bari 19572, III, pp. 1-25.

[77] Cfr. H. Weinrich, Il polso del tempo ciò che le tempie sanno del tempo, o, in “Critica del testo”, I/1 (1998), pp. 1-21, poi in Id., Il polso del tempo, a cura di F. Bertoni, Firenze, La Nuova Italia, 1999, pp. 3-21.

[78] A. Asor Rosa, Machiavelli e l’Italia cit., pp. 130 e 134.

[79] Cfr. ibid., p. 153.

[80] Ibid., p. 152.

[81] Ibid., pp. 98-99.

[82] Ibid., pp. 126-128.

[83] Id., Pepe e il Vecchio, in Id., Racconti dell’errore, Einaudi, Torino 2013, p. 215.

[84] Ibid., p. 204-205.

[85] Id., Fuori dall’Occidente cit., Apocalissi, Rivelazione, pp. 15-22 (le frasi citate alle pp. 18-19).

[86] In testa a entrambi i quaderni giovanili pubblicati e studiati da Michele Barbi (Q1 e Q2), e poi alla seconda redazione del 1528, figurava la frase: «Se bene lo ozio solo non fa ghiribizzi pure male si fanno e’ ghiribizzi sanza ozio»: cfr. M. Barbi, Per una compiuta edizione dei «Ricordi politici e civili» del Guicciardini (1932), in Id., La nuova filologia e l’edizione dei nostri scrittori da Dante al Manzoni, Firenze, Sansoni, 1938, 2° ed. 1973, pp. 125-160.

[87] Rinvio ai miei saggi: I Ghiribizzi di Guicciardini, in Atti del Convegno: Francesco Guicciardini, tra ragione e inquietudine. Atti del Convegno internazionale di Liège, 17-18 febbraio 2004, a cura di P. Moreno e G. Palumbo (“Bibliothèque de la Faculté de Philosophie et Lettres de l’Université de Liège” – Fascicule CCLXXXIX), Faculté de Philosophie et Lettres de l’Université de Liège-Droz, Liège-Genève 2005, pp. 75-107 (specie 89 ss.); Illusioni, ghiribizzi, capricci nel primo Cinquecento, in Illusione. Atti del primo Colloquio di Letteratura Italiana, a cura di Silvia Zoppi Garampi, CUEN, Napoli 2006, pp. 115-136; Bernoccoli e altre protuberanze spirituali, in Finis Corporis. Eccedenze, protuberanze, estremità dei corpi. Convegno internazionale. Lugano, 28-30.V.2009, a cura di A. Paravicini Bagliani (“Micrologus”), SISMEL, Firenze 2012, pp. 63-86.

[88] Cfr. P. Levi, Se questo è un uomo, in Id., Opere, 2 voll., a cura di M. Belpoliti, Introduzione di D. Del Giudice, Einaudi, Torino 1997, vol. I, p. 138 (nel capitolo Die drei Leute vom Labor).

[89] A. Asor Rosa, Trippoli, in Amori sospesi cit., pp. 213, 215, 218.

[90] Ibid., p. 230.

[91] Id., L’ultimo paradosso, Einaudi, Torino 1985, pp. 185-186, n° 197, L’ultimo paradosso.

[92] Ibid., pp. 69-71, n° 75, Non facce, ma discorsi.

[93] A. Asor Rosa, Fuori dall’Occidente cit., pp. 120-121.

[94] Sul pensiero di Gramsci, al quale si richiama in maniera esplicita in numerose occasioni, Alberto Asor Rosa ha scritto pagine di grande rilievo: mi sembrano particolarmente importanti, per l’evoluzione del suo pensiero storiografico e politico e nella prospettiva ermeneutica qui assunta, quelle di Scrittori e popolo (cap. La Resistenza e il gramscianesimo: apogeo e crisi del populismo, ed. 1988 cit., pp. 128-230; ed. 2015, pp. 124-222) che riguardano il rapporto con la Resistenza. Proprio la Resistenza è stata ripensata ancora di recente, in chiave esplicitamente gramsciana, come «un ritorno alle origini» e una rielaborazione delle categorie machiavelliane di «principe nuovo» e di «armi proprie», diventate «metafora dell’insieme delle funzioni e istituzioni, giuridiche e civili, con le quali la collettività si regge e si governa, in base ai principi di cittadinanza e di eguaglianza» (Machiavelli e l’Italia cit., p. 256).

[95] A. Gramsci, Odio gli indifferenti, in  «La città futura», 1917, ora in Id., Odio gli indifferenti, Chiarelettere, Milano 2011, p. 3 (i corsivi sono miei).

[96] A. Asor Rosa, Fuori dall’Occidente cit., p. 122.

[97] P. P. Pasolini, Polemica Politica Potere. Conversazioni con Gideon Bachmann, a cura di R. Costantini, Chiarelettere, Milano 2015, p. 41 (nella sezione Polemica).

[98] Ho raccolto materiali e svolto un ampio ragionamento sul ruolo che ebbe, nella riflessione di Pasolini sulla categoria di creaturalità, la lettura di Mimesis nella versione italiana del 1956 nel mio studio: Le cose e le creature. La divina e umana Mimesis di Pasolini, in Mimesis. L’eredità di Auerbach. Atti del XXXV Convegno Interuniversitario (Bressanone/Innsbruck, 5-8 luglio 2007), a cura di I. Paccagnella e E. Gregori, Esedra, Padova 2009, pp. 445-466. Per questa categoria si veda anche il bellissimo, piccolo quanto intenso libro di Silvia de Laude, La rondine di Pasolini, Minesis, Milano-Udine 2018 (con una introduzione di A. Zaccuri, Allodole e teologi, pp. 7-10).

[99] Id., Il pianto della scavatrice, in Le ceneri di Gramsci. Poemetti (1957), in Id., Tutte le poesie cit., I, pp. 833-849 (a p. 836).

[100] Ibid., p. 359.

[101] Rinvio al mio studio: Compassio Virginis, in “La parola del testo”, X (2007), fasc. 2, pp. 219-289.

[102] A. Asor Rosa, Genus italicum cit., p. 35.

[103] Rinvio al mio studio (propiziato dallo stesso Asor Rosa): L’Ordine francescano e la letteratura nell’Italia pretridentina, in Letteratura italiana, a cura di A. Asor Rosa, I, Il letterato e le istituzioni, Einaudi, Torino 1982, pp. 729-797; ho ripreso e sviluppato l’esame di questa peculiare categoria di laico in: Il modello francescano di cultura e la letteratura volgare delle origini, in I Francescani in Emilia. Atti del Convegno di Piacenza, 17/19.II.1983 (“Storia della Città”, nn. 26-27 [1983]), pp. 65-90.

[104] Così lo stesso Asor Rosa nella dedica di un esemplare, in mio possesso, dell’edizione 1988 di Scrittori e popolo. È appunto questa idea che ho cercato di illustrare in parte di queste pagine.

[105] A. Asor Rosa, Scrittori e popolo cit., p. 292. E ancora: «Alle qualità antiche del popolo, Pasolini non sostituisce, ma sovrappone altre nuove qualità, scoperte nel clima di una generale tensione storica. All’ingenuità, purezza, semplicità, s’aggiunge insomma la speranza: una speranza sotto veste di sogno, che, da questo momento in poi, si confonderà ambiguamente alla natura e ne costituirà l’antitesi sfuggente e illusoria» (p. 303).

[106] Ibid., pp. 353-354 (il lungo corsivo è dell’autore).

[107] A. Asor Rosa, «Lezioni americane» di Italo Calvino cit., in Genus italicum cit., pp. 770; in Stile Calvino cit., p. 90.

[108] A. Asor Rosa, Scrittori e popolo cit., p. 360.

[109] Ibid., p. 363.

[110] A. Asor Rosa, L’ultimo paradosso cit., p. 197, L’ultimo paradosso,

L'autore

Corrado Bologna
Corrado Bologna
Corrado Bologna ha insegnato Filologia romanza in diverse Università italiane e straniere, e Letterature romanze medioevali e moderne alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha pubblicato numerosi saggi sui principali autori delle letterature europee. Il suo ultimo libro è Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Luca Sossella, Roma 2022.