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Susanne Lippert intervista Eva Menasse

Interview auf Deutsch

Il 28 ottobre 2022, Eva Menasse è stata invitata al “Forum Austriaco di Cultura” di Roma per una lettura dai suoi due volumi di racconti tradotti in italiano “Animali per esperti”, Bompiani 2019 e “Peccati capitali veniali”, Mimesis 2021. In occasione di questa lettura, la professoressa Susanne Lippert ha conversato con Eva Menasse del suo lavoro di scrittrice.

Il tema dell’antisemitismo abbraccia tutta la tua opera, a partire da “Der Holocaust vor Gericht”[1], passando per “Tutto il resto è di primaria importanza”[2] e fino a “Dunkelblum”[3]. Dal romanzo delle vittime al romanzo dei colpevoli, dalla storia personale al silenzio dei carnefici?

La scena madre della mia scrittura è quella della stazione ferroviaria. È la storia di mio padre che hanno fatto salire su un treno alla stazione Westbahnhof di Vienna[4] quando aveva otto o quasi nove anni. Da quando l’ho saputo da adolescente, non riesco a togliermela dalla testa, fino a oggi. E poi c’è la seconda scena. Sono quei due momenti alla stazione: il primo quando parte, e non sa cosa succede e non capisce nemmeno cosa significhi, e il secondo quando torna, ormai diciassettenne, un giovane adulto, e lo aspettano due anziani vestiti di stracci. Alla stazione di Vienna. Sono i suoi genitori, che lui ricorda a malapena. E non riescono nemmeno a parlarsi perché mio padre ha dimenticato il tedesco. Questa cosa è una mostruosità, ed è il motore delle mie ricerche e anche del mio stupore per le cose che sono accadute alla mia famiglia.

In verità, il fatto che nostro padre conoscesse così bene l’inglese è stato a lungo presentato a noi bambini solo come una storia eroica. Ma ho sempre avuto la sensazione che dietro ci fosse qualcos’altro: l’espulsione e la fuga venivano semplicemente nascoste. Parlare inglese diventava così un trofeo. Quando trovo un nuovo tema, come ora “Dunkelblum”, allora mi assale questa stessa identica sensazione: c’è dietro qualcos’altro, qualcosa di oscuro, pericoloso – ma voglio saperlo. È quello che mi è successo in biblioteca, quando mi sono imbattuta nel tema di Rechnitz e ho improvvisamente capito: c’è molto di più, qualcosa che ancora non so. A quel punto ho iniziato a fare delle ricerche. Il passato è la fonte della mia scrittura, ma tuttavia questi temi a volte vanno via. E poi tornano di nuovo.

In realtà, credevo di aver elaborato l’intera questione dell’antisemitismo-ebraismo con “Der Holocaust vor Gericht” e “Tutto il resto è di primaria importanza”, e anche con gli articoli di giornale su quell’argomento (sul Memoriale dell’Olocausto a Berlino, sul Museo ebraico, sui cimiteri profanati di Berlino). Ho scritto molto su questi argomenti, avevano già un grande peso nella mia carriera giornalistica. Dopo “Tutto il resto è di primaria importanza” sono riuscita ad allontanarmene per un po’. In “Quasikristalle” compare ancora quel capitolo su Ausschwitz. Nel racconto “Papere” di “Animali per esperti”[5] la storia del padre si ripresenta e in modo un po’ diverso. “Papere” era come una rielaborazione di “Tutto il resto è di primaria importanza”, lo so. Mi ha fatto male scriverlo, era una descrizione del dolore. E poi ho pensato, ora il tema del passato se ne andrà, ora è finalmente risolto, ma dopo è tornato di nuovo con “Dunkelblum”, qui più dalla prospettiva dei carnefici.

Politicamente l’ebraismo, il mio ebraismo, è diventato un caso enorme da quando ho partecipato a un viaggio di ricerca nei territori occupati nel 2016. Si tratta di un’antologia di due scrittori ebreo-americani, Michael Chabon e Ayelet Waldman[6] , in cui nel 2017 – a 50 anni dall’occupazione della Cisgiordania – gli scrittori descrivono cosa significa occupare un paese per 50 anni. Fino a quel momento, non avevo mai affrontato la questione dei palestinesi e dell’occupazione; anzi, credo di averla evitata deliberatamente. Mi ci è voluto così tanto tempo per realizzare o, per così dire, abbracciare la mia parziale identità ebraica. Questo argomento era semplicemente troppo per me. Poi ho cominciato a lavorare all’antologia e ora sono immersa fino al collo in questi dibattiti e non riesco a uscirne. Ma allo stesso tempo non ho più paura. Ora sento una grande chiarezza. Anche quando scrivo i saggi. So che tutto è molto complesso, ma so anche che bisogna essere in grado di parlare di queste cose, soprattutto in Germania.

Credo che tra tutti i tuoi libri “Tutto il resto è di primaria importanza” sia quello che mi piace di più perché è così pieno di passione. C’è tanta emozione. Eppure non è facile da leggere, perché mancano i nomi dei protagonisti. Non è scritto in modo convenzionale.

Trovo che sia facile da leggere proprio per questo motivo, se si immagina che la voce narrante sia il pilastro al centro e che intorno a lei giri la telecamera, allora si torna sempre al centro. Tutti sono imparentati con lei.

Ma torniamo al tema dell’antisemitismo o dell’ebraismo. È una questione di identità che regala una posizione di partenza buona per uno scrittore. Come Amanda Gorman, per esempio, ha la sua posizione di donna di colore negli Stati Uniti d’America. E tu sei figlia di un padre ebreo.

Una delle mie amiche è la filosofa ebreo-americana Susan Neiman. Per il mio ultimo compleanno, quando eravamo già nel bel mezzo di tutti quei dibattiti – anche lei è dalla mia parte, lo chiamiamo ebraismo liberale e progressista – mi ha regalato “The Non-Jewish Jew” di Isaac Deutscher.[7] Il libro parla proprio del fatto che il pensiero ebraico è diventato importante quando si è spostato oltre i confini. Come si vede per esempio con Heine, Börne e Marx. Cioè, quando si cerca di uscire dalla propria identità sicura diventando più laici, qui nascono le cose nuove, ai margini, dove c’è tensione. Questo è vero per molte cose. Nel mezzo di una società sicura di sé, nel ventre caldo e morbido di qualsiasi identità nazionale o religiosa, raramente emergerà qualcosa di nuovo. Si tratta della tensione tra interno ed esterno, di comprendere che ogni “noi” genera anche un “loro”. E l’ebraismo è sempre stato profondamente dialettico; la ricerca più lo scetticismo sulla propria ricerca: è quasi un gioco folle nell’ebraismo. Ogni argomento viene sempre rigirato mille volte. Anche la religione funziona così. È quasi un pensiero scientifico, come lo ha descritto Christian Drosten durante la pandemia: la propria argomentazione vale solo finché non si trova una contro-argomentazione migliore. E la cosa migliore è trovarla da soli. Quindi questo ebraismo dialettico e diasporico, ormai mi ci identifico molto. E un dibattito pubblico come quello con Maxim Biller mi rende solo più ebrea di quanto non fossi prima, alla fine.[8]

L’ho trovato davvero presuntuoso. Significa voler annullare la libertà di pensiero. Si tratta di negare a chi non è della mia opinione il diritto di dire ciò che pensa.

Hai letto la risposta di Meron Mendel[9] ? Ottima! E la discussione si concluse così.

Ma poi ho pensato anche a quel tuo progetto di scrittura, di cui hai parlato ieri: il tuo nuovo libro che tratterà proprio dei conflitti sociali intensificati dalla modernità digitale. Non necessariamente correlato all’argomento dell’antisemitismo, però.

Sì, ma anche in relazione a questo argomento. Ed ecco perché il nuovo saggio mi tormenta così tanto. In primo luogo, perché è difficile da comprendere, l’aspetto generale, in tutti i dibattiti. E in secondo luogo, perché vorrei concentrarmi su questo tema in Germania. E lo so già in partenza: il mio articolo sullo scandalo alla Documenta dell’estate, per esempio, credo di averlo iniziato tre volte. È stato difficile scriverlo. Ho passato un intero fine settimana a elaborarlo. Di solito, saggi del genere, li scrivo velocemente. Ero una giornalista, ero in grado di scrivere recensioni e commenti teatrali in una sola notte. Riesco a essere rapida, se è necessario. Ma con una cosa del genere, no. Ho iniziato tre volte prima di essere pronta a saltare attraverso il cerchio infuocato.

Si tratta anche dell’argomento del “politically correct”, al momento va tutto in quella direzione. Non si possono fare o dire alcune cose perché qualcuno vorrebbe vietartelo. In parte è giusto, naturalmente, in larga misura. Ma in parte è anche problematico.

Mi preoccupa questo moralismo eccessivo, che non ha più alcuna base ideologica. Faccio un esempio: Nel nostro lavoro al PEN di Berlino, abbiamo scritto una dichiarazione di solidarietà con Assange proprio all’inizio, quando Assange in Inghilterra era a un passo dall’estradizione in America. Il che è incredibile, uno dei più grandi scandali giudiziari del mondo occidentale.

Sì, anch’io mi chiedo spesso: che razza di democrazia sarebbe?

Esattamente, questo è il punto. Non occorre puntare il dito contro la Russia e la Turchia se permettiamo che accada una cosa del genere, in quanto Stati democratici. In ogni caso, ho scritto nel comunicato stampa ciò che ho detto anche molte volte in privato: Assange è il Dreyfus del nostro secolo, un intero stato si accanisce su un individuo. Alcuni si sono subito arrabbiati. Probabilmente dei nipoti di nazisti, lo dico con disinvoltura, hanno sentenziato: Dreyfus è inconcepibile senza antisemitismo, e non si può prendere questo esempio come riferimento per altri casi che non hanno nulla a che fare con l’antisemitismo. Questa è la classica politica identitaria, ma da parte di persone che non sono ebrei, che però vorrebbero impormi di astenermi da un simile confronto.

A volte assume veramente forme assurde. Come nel caso della traduzione delle poesie di Amanda Gorman, che non dovevano essere tradotte da una traduttrice bianca.

Conosci John McWhorter? È un linguista della Columbia University. Il libro si chiama “Woke racism”. Credo che abbia riflettuto a fondo, descrive il desiderio morale di essere giusti come la nuova religione. Si oppone a queste esagerazioni della “critical race theory” e della questione del “black lives matter” in America. È un libro molto americano, ma l’analisi può benissimo essere applicata alla Germania e alla discussione sull’antisemitismo. Questo è ciò che vorrei fare, quando finalmente ne avrò il coraggio.

Un altro punto importante: la figura del padre. Tuo padre era, per te, il ponte verso la letteratura. Ma anche il ponte verso l’ebraismo. Pure il tema del silenzio ha a che fare con tuo padre.

Nulla è veramente grave se non mette in pericolo la vita.

Somiglia alla figura del padre in “Tutto il resto è di primaria importanza”. In effetti, a quanto pare, tuo padre era una persona piuttosto solare.

Sì, mio padre era una persona molto solare. Credo di aver ereditato anche questo tratto caratteriale da lui. Almeno in parte.

Sebbene non volesse affatto che i suoi figli diventassero scrittori, ti ha portato anche verso la scrittura, non è vero?

Era il ponte verso la scrittura perché il talento veniva da lui. Eppure lui stesso non l’ha mai capito veramente. Non ha mai scritto nulla, lui parlava, era un narratore brillante. Non era un giornalista, era un addetto stampa, aveva un lavoro d’ufficio. Ma sapeva inventare e raccontare storie strepitose, fare bellissime battute, tenere discorsi fantastici. Per ognuno dei suoi figli aveva inventato un personaggio speciale per le storie della buonanotte. Non ci leggeva mai le storie, ce le raccontava, inventandole di getto. Alcune di queste storie erano anche abbastanza pazze. Nostro nonno, suo padre, era uguale. Erano semplicemente degli oratori dotati, dei geni della parola. Sapevano raccontare storie, aneddoti, aforismi, storpiare le parole, fare battute. E ogni volta che mio padre diceva quella stupida frase: “Tre figli, due scrittori. Cosa ho fatto per meritarmi questo?”, cercavo di spiegargli che l’avevamo preso da lui. Il talento viene da lui, l’arte della affabulazione. Solo quando ho scritto il suo elogio funebre ho capito perché non aveva mai scritto nulla. Perché era stato costretto a cambiare lingua proprio all’età in cui aveva imparato a leggere e a scrivere. A sei anni si imparano le lettere, a sette, otto si impara lentamente a scrivere e a formulare i propri pensieri. E proprio in quel momento fu catapultato in un’altra lingua. Gli è rimasta sempre un po’ di insicurezza, qualche incertezza ortografica in tedesco. Dopo l’emigrazione non ha avuto una buona istruzione scolastica. Ha compiuto la scuola media in Inghilterra, ma a quattordici anni era finita. C’era la guerra, e dopo la scuola dell’obbligo ha lavorato in fabbrica.

La figura del padre in “Tutto il resto è di primaria importanza” è in qualche modo mio padre, anche se alcune cose sono state inventate e altre omesse. Lo stesso vale per lo zio. Il resto è piuttosto inventato. Mia madre, per esempio, si è sentita offesa da un passo in cui aveva la sensazione di essere dipinta male. Ma quella era una citazione della prima moglie di mio padre. Ho amalgamato le cose. Ho un solo cugino e nel libro ce ne sono due. Trasformavo le cose nel modo in cui pensavo che sia meglio.

Beh, serve per entrare nell’argomento e poi viene rimodellato. Molti scrittori lavoravano così. Anche “I Buddenbrook” di Thomas Mann è un romanzo a chiave.

Naturalmente. Eppure, c’è un famoso saggio di Thomas Mann in cui dice: “Uno scrittore è come un bambino che costruisce qualcosa di completamente nuovo con delle cose trovate – e poi vuole essere lodato per la grande novità che ha costruito e non sentirsi dire: oh, ma quello è il mio vecchio cappotto”.

Sì, certo, lo capisco bene.

Ed è proprio così. La famiglia o gli amici trovano sempre solo ciò che riconoscono, e per questo pensano che anche tutto il resto sia tratto dalla realtà. Invece lo scrittore prende due o tre cose ed è orgoglioso del suo risultato, di quello che ha costruito, creando qualcosa di nuovo. E non vuol’essere costantemente ricordato: ma quello l’hai preso da qui e questo l’hai copiato da lì! Si tratta di due prospettive completamente diverse sul lavoro dello scrittore. Ora capisco molto meglio questo aspetto e per questo motivo, prima mi rifiutavo.

Ho letto tante cose ultimamente, per esempio di Monika Helfer.[10]

Sì, è bravissima.

Annie Ernaux e Proust. Anche qui sarebbe un sacrilegio dire che abbiano semplicemente trascritto la storia della loro famiglia.

Sì, certo. Senza l’intervento creativo, non sarebbe mai diventato un grande romanzo. Bisognava essere Proust per poter scrivere quest’opera. Tutto il resto non basta. Tutti hanno avuto una famiglia. Tutti hanno almeno un amore infelice o si vedono come un’altra persona o sono in verità omosessuali, o altro. Ma ci vuole del talento per creane un’opera d’arte.

Ora passiamo a un argomento completamente diverso, ovvero scrivere come stile di vita. Hai iniziato a scrivere con il sostegno del “Deutscher Literaturfonds”[11], che ha finanziato il tuo lavoro al romanzo “Tutto il resto è di primaria importanza”. Ma non avevi un agente, vero?

Sì, lo avevo già dal libro di Irving in poi. Il libro di Irving è stato originariamente commissionato dalla casa editrice Suhrkamp. Ero a Londra per seguire il processo contro Irving. Ero seduta su un autobus rosso a due piani, quando mi squillò il cellulare ed era una famosa agente letteraria della casa editrice “Jüdischer Verlag”.[12] Disse che leggeva ogni giorno con grande interesse i miei articoli sul processo e che voleva farne un libro, una volta che il processo era finito. Era il terzo giorno del processo, credo. Ne fui lusingata e iniziai subito a lavorare il doppio. Sono andata anche all’ufficio legale della Penguin e dagli avvocati difensori di Deborah Lipstadt, dovevo capire bene tutti i retroscena del processo per farne un libro. Era un lavoro molto impegnativo. Ma quando il processo era finito, questa stessa agente mi richiamò un’altra volta e disdisse tutto all’improvviso. Ancora oggi è in imbarazzo per questa cosa: “Il signor Unseld[13] ha detto che la nostra casa editrice non pubblica libri su chi nega l’Olocausto.” Nel 2000, anche questo era considerato come buon antifascismo tedesco: i negatori dell’Olocausto non dovevano essere pubblicati affatto. Il mio impulso di coprire questo processo era stato esattamente l’opposto: volevo sapere cosa spinge queste persone, che influenza hanno e se dobbiamo averne paura. E come combatterli. Quindi, io cercavo di capire e loro preferivano tacere. Naturalmente, David Irving era una persona piuttosto sgradevole per i tedeschi buoni, i tedeschi purificati, perché gli piaceva alzare il numero dei morti di Dresda e abbassare il numero dei morti di Coventry. Irving parla fluentemente il tedesco, è un vero gentiluomo dai modi garbati, ma è anche uno storico di destra fai da te. Da tedesco, non si vorrebbe aver a che fare con una figura così diabolica, non si vorrebbe certo essere difesi da un tale personaggio, né ascoltare la sua affermazione preferita: Hitler non sapeva nulla della Soluzione Finale. In ogni caso, ero arrabbiata perché non vedevo l’ora: il mio primo libro. Così chiamai Matthias Landwehr, che è ancora oggi il mio agente. Ci conoscevamo già. Gli chiesi: Suhrkamp mi ha rifiutato, pensi di trovare un altro editore? Ha detto che sarebbe stato difficile con questo argomento. Ma due settimane dopo aveva persino due editori concorrenti e una piccola asta. Così, per la prima volta, ho guadagnato bene con la mia scrittura. Da allora Matthias Landwehr è il mio agente e anche il mio amico. Facciamo tutto assieme.

Quindi, è comunque importante. Chi scrive dovrebbe avere un agente?

Sono sempre stata molto contenta di averlo come consigliere, anche per le decisioni personali. Può essere un grande rapporto di fiducia, come lo è tra noi.

Ancora un’altra domanda simile: quanto sono importanti i premi letterari?

Per me sono arrivati relativamente tardi. Credo di aver ottenuto il primo premio per “Quasikristalle”. Per “Tutto il resto è di primaria importanza” ho ricevuto un premio per il debutto[14] , ma non mi è sembrato affatto un vero premio. Era una sorta di spettacolo e non si ricevevano nemmeno dei soldi. Era più che altro un evento promozionale bavarese, e come souvenir ti davano una statuetta della manifattura di porcellana di Nymphenburg. Non so nemmeno che fine abbia fatto durante tutti i traslochi. Dovrebbe avere un certo valore. Comunque, il primo vero premio che ho ricevuto, poco dopo la pubblicazione di “Quasikristalle”, è stato il Premio Gerty-Spies, che nessuno conosceva all’epoca. Ma poi è arrivato il premio Böll e quello è stato davvero fantastico. I premi fanno qualcosa con te, chiunque dica il contrario mente. Mi hanno resa più sicura di me. Mi hanno stabilizzato. Per molto tempo non credevo di essere una vera scrittrice, per molto tempo mi sentivo “solo” una giornalista, e più che altro un impostore. E con “Tutto il resto è di primaria importanza” me lo hanno anche rinfacciato. La prima recensione veramente negativa di quel libro fu quella di Volker Hage sullo Spiegel, che esordì con la frase: “Oggi ogni giornalista pensa di poter scrivere un vero e proprio romanzo.” Questo ha davvero colpito nel segno: impostore. Ma da allora ho vinto molti bei premi che mi fanno stare bene.

Probabilmente bisogna aver scritto un romanzo per ottenere un premio letterario, vero?

Sì, i racconti non bastano. E “Tutto il resto è di primaria importanza” è stato il debutto. La maggior parte degli studiosi di letteratura, ossia quei pochi con cui sono in contatto perché scrivono o lavorano su di me, sono fan di “Peccati capitali veniali”. Se lo rileggo ora, però, in alcuni punti il libro mi sembra troppo artificiale.

Non è troppo artificiale, è complicato. Ha tanti strati e si scopre sempre qualcosa di nuovo. E soprattutto, si tratta di storie che ti rimangono impresse nella mente, che non ti scordi più. Naturalmente ho letto molte volte il libro, abbiamo corretto la traduzione ancora e ancora[15] .

Sì, ma spero che anche “Animali per progrediti” funzioni in modo simile, e che le cose ti rimangano impresse, ma che qui l’accesso sia più facile. Il mio racconto preferito in “Peccati capitali veniali” è quello del funerale, “Invidia”. Ma se oggi ne analizzo la costruzione, è piuttosto complicata.

A proposito: questi peccati sono davvero dei peccati o piuttosto dei semplici difetti di carattere?

Mentre scrivevo quel testo, cioè dopo la nascita di mio figlio, ascoltavo costantemente “I sette peccati capitali” di Kurt Weill. Così un giorno mi sono chiesto: ma che cosa sono questi peccati capitali? E poi mi sono documentata su questo concetto medievale della Chiesa cattolica. È piuttosto vago: una volta c’erano otto peccati capitali e poi ce n’erano solo quattro. Poi mi sono chiesto – ed è una cosa che mi chiedo sempre – se ancora oggi, in qualche modo, possono esserci utili questi vecchi concetti. Che cosa significa in realtà, per me, orgoglio, avarizia, avidità, lussuria? In quali dosi omeopatiche svolgono un ruolo nella nostra vita quotidiana? Come si può prendere questo concetto antico, mastodontico, e raccontarlo oggi, nel presente? È da lì che sono nati questi racconti. Immagino sempre di fare del bricolage quando scrivo. Prendo qualcosa e creo qualcosa di nuovo. Come se creassi un paesaggio per il modellismo ferroviario: esattamente nel modo in cui mi piace in quel preciso momento. Si inseriscono cose che si conoscono e cose nuove che ci si abbinano bene. È così che ho scritto questi peccati. Volevo mantenerli piccoli, volevo mantenerli quotidiani, non spettacolari. Raccontare peccati di cui il peccatore non si accorge nemmeno, perché sono semplicemente scaturiti dalla situazione, da un vecchio trauma, da una vecchia ferita, dal cattivo umore di una giornata. Piuttosto accidentali, per così dire. Se si pensa alla borghesia liberale che è il personale di queste narrazioni, istruita, civilizzata, si tratta di un gruppo di persone completamente diverso da quello di “Dunkelblum”. Loro sì che erano abbrutiti, anche moralmente, dopo la seconda guerra mondiale e gli anni del dopoguerra. Mentri i protagonisti di “Peccati capitali veniali” non lo sono. Non vogliono fare del male a nessuno, ovviamente. Si svegliano al mattino pensando di essere brave persone. E vanno a dormire la sera sentendosi brave persone. Tuttavia, vivere significa diventare colpevoli, vivere significa fare male agli altri. Non è un concetto filosofico, sono cose che percepisco. E provo a mostrarle nella letteratura.

Esiste il concetto del peccato nella religione ebraica?

È diverso. Sono piuttosto le buone azioni che ti vengono richieste.

Una mia amica che studia l’ebraismo, dice che per gli ebrei è fondamentale vivere insieme e non gli uni contro gli altri: è peccato violare questa unione. Funziona anche rispetto a “Peccati capitali veniali”. Perché il libro parla del fatto che le persone non si accorgono degli altri. Ognuno vive per conto proprio, non vede l’altro, non si accorge di ciò che accade all’altro e segue semplicemente la propria strada senza tener conto di nulla e di nessuno. All’inizio pensavo che il libro parlasse della comunicazione fallita, o della mancanza di comunicazione tra i protagonisti. Ma in realtà c’è molto di più.

Sì, in alcuni casi c’è di più. Si potrebbe controllare questo aspetto racconto per racconto. Il fatto è che l’orgoglio era considerato il peggiore dei peccati capitali. Quindi, se c’era una gerarchia nella dottrina cattolica, l’orgoglio era al vertice. Essere orgogliosi significava mettersi al di sopra di Dio. Si pecca direttamente contro Dio. E non solo contro i suoi comandamenti. La persona arrogante crede di essere Dio. Ecco perché il racconto “Superbia” è il più lungo. Il protagonista non vede sé stesso. Calpesta tutto con le migliori intenzioni. In definitiva, si tratta di un viaggio alla scoperta di sé stessi, quando il protagonista, in età avanzata, s’innamora di quella  ragazza. Quasi una fede nella redenzione che fa valere nei confronti della moglie profondamente cattolica. Anche questa storia è molto cattolica. Proprio come gli aristocratici austriaci, sono cattolici fino al midollo. Anche in questo caso sono arrivata al testo in modo intuitivo, iniziando a leggere molto sulla nobiltà, in biblioteca, senza alcuna premeditazione. Sulla nobiltà austriaca, l’alta nobiltà, la media nobiltà, i Prìncipi Elettorali del Medioevo. Sono quasi diventata un’esperta di nobiltà. Dopo un po’ mi chiesi: “Ma cosa stai facendo?” Il mio lavoro in biblioteca funziona esattamente così: leggo tutto quello che mi va, in totale libertà. Da un libro passo all’altro.

L’hai fatto anche adesso, con “Dunkelblum”?

Sì, ho fatto una ricerca completa prima di scrivere “Dunkelblum”, in biblioteca. Per fortuna, la fase di ricerca era finita ed ero già nel bel mezzo della scrittura quando è scoppiata la pandemia. Altrimenti avrei avuto un problema. La ricerca è durata quattro mesi, per l’intero argomento di Rechnitz e del Burgenland.

A quale biblioteca ti rivolgi per le tue ricerche?

Vado alla Staatsbibliothek al Potsdamer Platz.[16] Presto avrò un problema, perché verrà chiusa per lavori di ristrutturazione. Presumibilmente per otto anni, quindi avrò sessant’anni quando finalmente riaprirà. Poi, a Berlino, di solito, tutto richiede ancora più tempo del previsto… Così ora, quando inizierò qualcosa di nuovo, dovrò andare da un’altra parte. Di recente ne ho parlato con Claudia Roth[17] e mi ha detto: “Vai alla Humboldt, è stata rinnovata di recente.[18] È vero che è molto lontana da casa mia, ma probabilmente dovrò fare così. Ho bisogno di una biblioteca per lavorare.

Pensiamo sempre che gli scrittori lavorino a casa, nella loro “torre d’avorio”.

Esatto, ma lì si fa anche il bucato, si pulisce il bagno, si ricevono i pacchi dei vicini e ci si distrae in ogni possibile modo. Non così in biblioteca. Adoro la Stabi[19] e sarà davvero difficile per me, ma dovrò andare altrove. Ho iniziato a lavorare in biblioteca a Vienna quando mio figlio era piccolo e passavo molto tempo con lui a casa dei miei genitori. Me lo teneva mia madre e io andavo alla Biblioteca Nazionale di Vienna per qualche ora. Si trova nell’Hofburg ed è molto, molto bella. C’è un’antica sala di lettura di epoca imperiale. È lì che ho preso quest’abitudine. Vado in biblioteca per lavorare e quando torno a casa il lavoro lo lascio fuori. Non come si fa con lo smart working. Avrei potuto spiegare a tutti in anticipo qual è il problema con lo smart working, perché già lo sapevo, da sempre: la procrastinazione. Si posticipa tutto, sempre. Preferisci fare tutto quello che è tecnico, pratico, e si sposta il lavoro a notte fonda come quando eravamo studenti. Perché poi finalmente c’è il silenzio. Ma ora non riesco più a scrivere bene di notte.

(L’intervista è stata realizzata a a Roma il 27.10.2022).

[1] Il primo libro della Menasse, “Der Holocaust vor Gericht. Der Prozess um David Irving“ (Siedler Verlag, Berlino 2000) tratta del processo contro David Irving a Londra. Irving è un noto negazionista dell’Olocausto. Ha perso questo processo.

[2] Eva Menasse, “Tutto il resto è di primaria importanza” (Sperling & Kupfer, Milano, 2006).  Il titolo tedesco è “Vienna” (Kiepenheuer & Witsch, Cologna 2005).

[3] Eva Menasse, Dunkelblum, Kiepenheuer & Witsch, Cologna 2021. Si tratta dell’ultimo romanzo di Menasse.

[4] Si tratta di uno di quei treni con destinazione Inghilterra sui quali furono caricati migliaia di bambini e ragazzi ebrei per fuggire ai nazisti.

[5] Eva Menasse, “Animali per esperti”, Bompiani 2019

[6] Michael Chabon, Ayelet Waldman, “Kingdom of Olives and Ash: Writers Confront the Occupation”, 2017, Forth Estate, London.

[7] L’ebreo non ebreo, Milano, Mondadori 1969. L’opera citata da Eva Menasse è la riedizione dell’originale inglese: The Non-Jewish Jew, London/ New York 2017.

[8] Il dibattito con Maxim Biller verteva su un articolo di giornale di Eva Menasse che parlava dello scandalo alla mostra Documenta 2022, a Kassel, dove un’opera del collettivo di artisti indonesiano Taring Padi, inizialmente esposta alla mostra, nonostante fosse stata considerata antisemita, ha causato l’indignazione di molti. In un secondo momento l’opera è stata smontata e allontanata.

[9] Meron Mendel: una risposta a Maxim Biller. Gute Juden, linke Juden, in: Süddeutsche Zeitung, 25 luglio 2022: https://www.sueddeutsche.de/kultur/meron-mendel-maxim-biller-eva-menasse-1.5627127

[10] Una scrittrice austriaca che scrive opere in parte autobiografiche.

[11] La fondazione dello stato tedesco per sostenere gli scrittori tramite borse e altri finanziamenti.

[12] Il nome della casa editrice, tradotto in italiano, è: Casa Editrice Ebraica (Jüdischer Verlag). Fa parte della casa editrice Suhrkamp.

[13] Il direttore della casa editrice Suhrkamp.

[14] Premio Corine per la letteratura

[15] La traduzione italiana di “Lässliche Todsünden” è stata curata da Susanne Lippert: Peccati capitali veniali, Mimesis, Milano 2021.

[16] La biblioteca statale di Berlino.

[17] Claudia Roth è commissario del governo federale tedesco per la cultura e i media dal 2021.

[18] La biblioteca della Humboldt Universität di Berlino.

[19] Abbreviazione per Staatsbibliothek.

L'autore

Susanne Lippert
Susanne Lippert è nata a Starnberg in Germania e vive a Roma dal 1992. È pofessoressa di lingua tedesca presso l'Università degli Studi Roma Tre. Dal 1999 le sue traduzioni e poesie escono su riviste e antologie tedesche (tra cui Akzente, Das Gedicht, Orte, Litera(r)t). Ha pubblicato due volumi di poesia, "Die Schmetterlinge sind abgestürzt" (2010), ora tradotto in inglese sotto il titolo "Butterflies Lost" (2022) e "Kosmisches Gelächter" (2021) – “Risate cosmiche” (2022). Dal 2015 gestisce un laboratorio di traduzione presso l'università in cui sono state tradotte in italiano opere di Eva Menasse, Friedrich Christian Delius, Doris Dörrie e Marc-Uwe Kling. Le sue linee di ricerca sono il plurilinguismo, la didattica del tedesco, la traduttologia.

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