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“Buzzati e il confine”: Anna Raimo intervista Marco Perale

Marco Perale (1957) è dal 2017 Presidente dell’Associazione internazionale Dino Buzzati, fondata nel 1988 da Nella Giannetto. Laureato in lettere antiche a Padova, diploma di archivistica paleografia e diplomatica a Venezia, ha studiato negli Stati Uniti. Giornalista professionista, ha scritto per “Il Giornale” di Montanelli.  È Socio dell’Ateneo Veneto, dell’Ateneo di Treviso e Membro della Deputazione di Storia Patria per le Venezie. Direttore della rivista “Studi buzzatiani”, è condirettore della rivista “Archivio storico di Belluno Feltre e Cadore”. Scrive di storia tra Alto Medioevo e Rinascimento nel Veneto, con una quindicina di libri e oltre 100 pubblicazioni.  È Ispettore Onorario della Sovrintendenza Archivistica per il Veneto.  È stato per nove anni vicesindaco e assessore alla cultura del Comune di Belluno.

Vorrei innanzitutto ringraziarla per avermi dato l’opportunità di intervistarla e di parlare della chiusura dell’anno di Buzzati con gli Atti del Convegno di Merano Buzzati e il confine, pubblicato per Peter Lang. Perché ha deciso di curare insieme a John Butcher uno studio così vasto tra le relazioni del mondo italiano e tedesco attraverso Buzzati? Cosa l’ha spinta ad esplorare questi due mondi?

Ringrazio io lei per questa opportunità di parlare di Buzzati, che il cinquantenario ha sempre più saldamente confermato all’interno del canone europeo, e non solo: nel 2022 siamo stati presenti negli Istituti Italiani di Cultura di Parigi e Varsavia, Dublino e Ankara, Lima e Skopje. Abbiamo deciso di aprire le celebrazioni del 50° con un convegno dedicato ai rapporti con il mondo tedesco proprio per allargare lo sguardo critico, visto che in Italia e più ancora in Francia la riflessione su Buzzati è già consolidata. Era ed è necessario invece estenderla al mondo ispanico (e in autunno del 2023 saremo a Salamanca), a quello slavo, all’universo anglosassone e all’oriente, ma la prima tappa non poteva non essere il mondo tedesco, anche perché era uscita in tedesco la prima traduzione buzzatiana, già un anno dopo il suo esordio editoriale nel 1933 con il Bàrnabo delle montagne, comparso a Berlino nel 1934.

Nel suo contributo Patrizia Della Rosa considera le ambientazioni di numerosi racconti buzzatiani, che si svolgono in particolare in montagne chiuse. L’autrice nota che solitamente i protagonisti di questi racconti sono scacciati dai loro luoghi d’origine e poi messi a morte. Quali sono a suo parere i racconti che maggiormente sintetizzano questa visione notata dall’autrice?

Il racconto più emblematico è forse Il borghese stregato (comparso inizialmente sul “Corriere della Sera” nel 1942 ma incastonato dei Sessanta racconti del 1958 che valsero a Buzzati il premio Strega), ma altrettanto straordinari a mio avviso sono anche l’Assalto al grande convoglio del 1936 o L’uccisione del drago del 1939.

Mi sembra molto interessante la distinzione che viene fatta tra i personaggi che abitano la montagna in quanto nativi, coloro che la vivono stagionalmente e chi vi transita. Come mai questa tripartizione è funzionale alla prosa di Buzzati?

È una distinzione che Buzzati conosce perché l’aveva sperimentata direttamente: nato a Belluno, nella villa di famiglia a cui è tornato fedelmente ogni anno pur vivendo a Milano, aveva imparato a conoscere la montagna come alpinista fin da giovane, ma aveva anche compreso i montanari attraverso i coloni e i mezzadri che lavoravano le magre terre possedute dai Buzzati, così come lamenterà spesso la fretta di quanti attraversavano le valli dolomitiche senza degnare di uno sguardo né le rocce né le persone, correndo verso la mondanità di Cortina. Una consapevolezza  sofferta, che traspare fin dai primi lavori (il Barnabo o il Segreto del bosco vecchio) ma che troverà la sua espressione più compiuta e poetica nei Miracoli di Valmorel, la sua ultima opera dell’autunno 1971.

Gennaro Tallini analizza la passione alpinistica di Massimo Mila e Dino Buzzati, notando che questi grandi esponenti della cultura italiana del Novecento hanno un rapporto profondo e interiorizzato con la montagna, in particolare con le Alpi. Sono riscontrabili delle “Affinità elettive”, citando il famoso romanzo di Goethe tradotto da Mila, tra i due intellettuali su questa tematica. Quali sono invece le divergenze nel loro ideale di montagna?

Le affinità sono molte, tanto che oltre alla montagna e alla scrittura anche la musica è stata una delle grandi passioni di Buzzati, che aveva studiato violino e pianoforte e scriverà i libretti di una mezza dozzina di opere liriche per le musiche di Luciano Chailly e Riccardo Malipiero.  Il differente approccio consiste invece nello sguardo eroico che Mila ha dell’impresa alpinistica, mentre per Buzzati la montagna con la sua severità ed i suoi silenzi è connaturata al suo stesso atteggiamento nei confronti della vita di ogni giorno.

Silvia Zangrandi riconosce cinque confini all’interno dell’Opera Il buttafuoco, cronache di guerra sul mare; tra questi mi sembra particolarmente interessante il confine tra articolo edito e inedito. Potrebbe spiegare i punti salienti di questo primo “confine”?

Inviato di guerra sulle navi della Marina italiana, Buzzati si vide censurare molti articoli perché il racconto di sconfitte e affondamenti poteva deprimere lo spirito dei lettori, ma ci sono anche testi che Buzzati scrisse solo come pagine di un suo diario personale di quei due anni vissuti sul mare, in vista di una rielaborazione successiva che l’Italia del dopoguerra non ha invece mai voluto affrontare veramente.

Altro confine presentato dalla Zangrandi è quello tra articolo di cronaca e fantasia, dove la studiosa citando Alberto Cavallari afferma che gli articoli di Buzzati sono “un esempio di come la fantasia dello scrittore pieghi il giornalismo ai suoi fini”; vi sono altre opere nelle quali Buzzati fa questo? Il Buzzati giornalista che linguaggio usa?

Il ricorso alla fantasia fu una straordinaria scappatoia dai lacci della censura, che non consentiva al cronista di fissare le tradizionali coordinate spazio-temporali di ogni evento, che andava quindi assolutizzato ed astratto.  Una scuola di scrittura che Buzzati applicherà nel dopoguerra tanto alla “nera” (come nel racconto a puntate del processo a Rina Fort) quanto al giornalismo sportivo, con la sua cronaca del Giro d’Italia del 1949 in cui Coppi e Bartali diventano eroi omerici.

Nel contributo di Johanna Bartkowiak vengono analizzate e comparate alcune opere di Buzzati e Max Ernst, in particolare vorrei soffermarmi sul confronto tra Romantica del primo e di Au rendez-vous des amis del secondo. Oltre al comune sfondo alpino, cosa unisce queste due opere così famose?

Una stessa sensibilità, elaborata autonomamente in due parti lontane di quella stessa Europa uscita dalla Grande Guerra, a conferma dell’originalità e delle risonanze continentali che anche la pittura di Buzzati, fin dagli anni Venti, riusciva a raggiungere: quella doppia vocazione di scrittore e pittore insieme (la rara e consapevole “Doppelbegabung”) che Buzzati porterà a fusione al termine della sua parabola creativa con il Poema a fumetti del 1969 e i Miracoli di Val Morel del 1971.

Altri due quadri che vengono paragonati sono Paesaggio con alberi, montagne e nuvole, realizzato da Buzzati nel 1970, e The last forest, dipinto da Ernst tra il 1960 e il 1970. In entrambi è visibile il concetto di confine; secondo lei quali sono gli elementi che rendono questo concetto così evidente nelle due opere analizzate da Johanna Bartkowiak?

Per Buzzati il confine simboleggiato dalle montagne è sempre una condizione individuale ed esistenziale, che interpella il singolo di fronte all’assoluto, mentre per Ernst si tratta più probabilmente di una sfida collettiva e sociale.

Centrale nell’opera di Buzzati è l’Oltremondo e in particolare il tema della discesa all’inferno. Quali sono le influenze che l’autore si porta dietro nel racconto di queste catabasi?

C’è una costante buzzatiana nel suo descrivere un possibile aldilà. Dal viaggio di Domenico Molo del 1938 (che diventerà il Mastorna a cui lavorerà per due anni con Fellini) al Lasciapassare del 1958, fino al Poema a fumetti del 1969, Buzzati racconta un universo parallelo in cui ciò che scompare è il tempo, con i suoi corollari: non c’è più alcuna speranza, nessuna passione, neppure la paura.  Il vero inferno è la noia, come scoprivano in quegli stessi anni gli esistenzialisti.

In cosa si differenzia Viaggio agli inferi del tempo dalla notissima discesa dantesca fino al centro della Terra?

In Buzzati non c’è alcun giudizio morale. Osserva e racconta, fedele al Beruf (che è mestiere ma anche vocazione) del suo imprinting lombardo-veneto, la progressiva scomparsa della vecchia Milano orizzontale a cui si stanno affiancando l’assalto al cielo della Torre Velasca o del Pirellone e lo scavo viscerale dei tunnel della nuova metropolitana.  Nuovi stati di coscienza in uno spazio urbano che sta conquistando la terza dimensione.

Simone Raffaello Pengue nota un parallelismo tra la fisica dei buchi neri e il racconto I sette messaggeri. Potrebbe brevemente spiegarci in cosa consiste questo parallelismo? In che modo l’autore analizza il tema del confine, tematica principale del convegno?

Questo saggio dimostra bene l’urgenza di un approccio coraggiosamente interdisciplinare, capace di aprire visioni e comprensioni del tutto inedite.  Un fratello di Buzzati, il genetista Adriano Buzzati-Traverso, aveva già studiato negli Stati Uniti nel 1934, per poi passare a Milano, Berlino, Pavia e infine a Berkeley (e Einstein si era trasferito negli USA fin dal 1933). La curiosità giornalistica di Buzzati aveva sicuramente colto dai racconti portati in casa da Adriano e dal cognato Luca Cavalli Sforza le nuove frontiere della ricerca scientifica. Il confine è sempre più un limite mentale, da riconoscere, affrontare e superare.

Quali sono gli echi e i confini presenti nel teatro di Dino Buzzati che subiscono l’influsso del teatro epico di Bertolt Brecht, analizzati da Mirco Michelon?

Buzzati coglie le medesime contraddizioni sociali (basti ricordare La rivolta contro i poveri messa in scena da un giovanissimo Strehler nel 1946 o Paura alla Scala del 1949) ma le racconta da un punto di vista posto dall’altra parte della barricata sociale. Paradossalmente, con il medesimo esito.

Nell’opera buzzatiana la presenza del mito asburgico è evidente sebbene, come sottolinea Alessandro Scarsella, sia spesso allusiva, ambigua immaginazione, “perturbata e commossa”; come mai il bellunese Buzzati propone un ritratto tanto sfumato degli Asburgo e del “mito” Mitteleuropeo?

Buzzati, veneto trapiantato in Lombardia, ha respirato ed assorbito la Weltanschauung del Mondo di ieri di uno Zweig, ma il suo rimarrà un approccio, un modo di vedere e descrivere, non una nostalgia passatista.  Altoborghese urbano proveniente dalla piccola nobiltà della provincia alpina, il modello asburgico rimane sullo sfondo, o nella divisa – vuota – con cui rappresenterà pittoricamente il suo Tenente Drogo.

Le opere di Buzzati sono state ampiamente tradotte in ambito tedescofono nel corso del Novecento, ma secondo lei è possibile notare delle differenze tra le traduzioni redatte nella Germania d’est da quelle della Repubblica Federale tedesca? Quali opere sono state tradotte nelle due Germanie, analizzate da Giulia Silvestri?

Fin dal Bàrnabo del 1933, il tedesco è la prima lingua in cui è stato tradotto Buzzati, di cui sono poi uscite quasi tutte le opere, fino al Poema a fumetti (non i Miracoli di Val Morel).  Il contributo di Giulia Silvestri ha spalancato una porta del tutto inattesa (la doppia traduzione del Deserto dei Tartari e di alcuni racconti nelle due Germanie) che ha aperto la strada ad altre scoperte analoghe: anche in oriente sono state appena realizzate due diverse traduzioni del Deserto a Pechino e a Taiwan.

Mariangela Lando scrive sulla ricezione antologica delle opere di Buzzati in Italia e all’estero negli ultimi decenni; potrebbe sintetizzarci quali sono gli spunti di confronto proposti dall’autrice rispetto alla ricezione oltre i confini nazionali delle opere di Buzzati?

Paradossalmente, Buzzati è accolto nel canone novecentesco più facilmente in Europa (a partire dalla Francia) che in Italia, dove la sua scrittura lineare e giornalistica e il suo schieramento radicalmente apolitico lo hanno penalizzato fin delle antologie sessantottine di Contini e Asor Rosa.  Un gap che si comincia a colmare solo ora.

Oltre a Il deserto dei Tartari, quali sono le opere maggiormente proposte agli studenti italiani e internazionali?

I racconti, naturalmente, ma anche un’opera assolutamente visionaria come il Poema a fumetti, che ha rivoluzionato il rapporto tra letteratura e fumetto influenzando un’intera generazione di disegnatori, dall’Europa agli Usa al Sud America, aprendo la strada alla graphic novel.

Secondo lei, qual è un altro contributo che ancora non abbiamo esplorato in questa nostra breve intervista?

L’ultimo approdo di Buzzati, ancora tutto da studiare, con i Miracoli di Val Morel del 1971 che non solo fonde scrittura e pittura ma inaugura quella sorta di “romanzo destrutturato”, senza trama apparente e senza coordinate spazio-temporali predefinite, che troverà la sua piena attuazione qualche anno più tardi a partire dalle Città invisibili di Calvino.

Per concludere, ci saranno altre iniziative per celebrare l’operato di Buzzati? Può presentarcele brevemente e nel caso lasciare ai nostri lettori un suggerimento di un’opera poco nota, ma molto significativa del grande Dino Buzzati?

Nel corso del 2022 abbiamo organizzato due grandi convegni a Milano-Iulm su “Buzzati e la parola” e a Venezia-Chambery su “Buzzati e il segno”, proprio per scandagliare il doppio filone creativo buzzatiano.  Gli atti di Milano sono appena usciti e in primavera usciranno quelli di Venezia e Chambery.  Ma sono usciti anche altri lavori fondamentali, come il carteggio Buzzati-Mondadori 1940-1972 curato da Angelo Colombo o la raccolta Buzzati e le stelle di Valentina Polcini con i testi buzzatiani dai primi avvistamenti di dischi volanti negli anni Quaranta fino alla conquista della luna.  E infine, usciranno gli atti di due seminari tenuti a Parma su fumetto e transmedialità e a Torino sulla fantascienza nei testi e nei quadri di Buzzati.

anna.raimo@live.it

 

L'autore

Anna Raimo
Anna Raimo è nata a Pisa il 25 dicembre 1995. Laureata magistrale con il massimo dei voti in Linguistica e didattica dell’italiano nel contesto internazionale presso l’Università degli Studi di Salerno e l’Universität des Saarlandes di Saarbrücken, ha in seguito conseguito un Master di II Livello in Didattica dell’Italiano L2 presso l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale. I suoi interessi di ricerca spaziano dalla linguistica e didattica della lingua italiana alla storia, letteratura e poesia contemporanea. Si è infatti occupata dell’italiano dei semicolti nella sua tesi di Laurea Magistrale e ha recentemente pubblicato un articolo su una particolare varietà della lingua italiana: "L’e-taliano: uno scritto digitato semifuturista?", in (a cura di S. Lubello), Homo scribens 2.0: scritture ibride della modernità, Franco Cesati Editore, Firenze 2019, pp. 159-164. Tra i suoi autori preferiti vi sono Mario Vargas Llosa, Jung Chang, Philip Roth, Azar Nafisi, Orhan Pamuk, Anna Achmatova, Rainer Maria Rilke, Federico García Lorca, Alda Merini, Bertolt Brecht e Wisława Szymborska. Le sue passioni sono la lettura, la scrittura di poesie e i viaggi, soprattutto in Germania, paese di cui adora la storia, la cultura, l’arte e i magnifici castelli.