Interventi

Tra metafisica e ironia. Ricordando i cento anni dalla nascita di Renato Ghiotto

Il 12 aprile del 1986, Cesare Garboli, sulle pagine dell’“Unità” ricordava Renato Ghiotto, “scrittore che ha saputo ridere, con intelligenza, di certi falsi valori del mondo”, a due giorni dalla morte. E indicava come doverosa la ristampa di Adiòs, il romanzo di Ghiotto che riteneva più importante. A cento anni dalla sua nascita (il 25 gennaio 1923), seguendo le parole di Garboli, si dovrebbe dire che sarebbe doveroso ricordare non un solo romanzo, ma l’intera opera di Renato Ghiotto, e la sua personalità poliedrica e il suo impegno civile nato negli anni della Resistenza.
Intellettuale veneto/romano (nato in provincia di Vicenza e trasferitosi a Roma all’età di trent’anni, dopo alcuni anni di soggiorno argentino durante i quali aveva conosciuto Jorge Luis Borges), Renato Ghiotto a soli ventidue anni era diventato direttore del “Gazzettino di Vicenza” su indicazione del Partito d’Azione (l’antifascismo e l’educazione alla libertà rimarranno sempre suoi punti fermi, sia nell’attività giornalistica che in quella di narratore). Negli anni Cinquanta diventerà direttore della rivista femminile “Stella”, e in seguito, dal 1969 al 1972, condirettore del “Mondo”, del quale sarà direttore nel 1973 (un anno dopo sarà costretto ad abbandonare la direzione della rivista a causa di un procedimento giudiziario seguito alla coraggiosa pubblicazione di un documento degli Affari Esteri, procedimento che si concluderà con la sua completa assoluzione). È sotto la sua direzione che Pasolini comincerà a pubblicare sulla rivista fondata da Pannunzio, e che il Partito Radicale avrà a disposizione una pagina per le sue battaglie civili. In seguito, Ghiotto collaborerà con l’“Espresso”, la “Stampa”, il “Messaggero”, “Bianco e nero”.
Il cinema sarà la sua grande passione, insieme alla scrittura. Critico cinematografico e sceneggiatore, fonderà con O. Jemma la rivista “Cronache del cinema e della televisione”, collaborerà a lungo con Pasquale Festa Campanile (che trarrà un film dal romanzo d’esordio di Ghiotto, Scacco alla regina) per il quale scriverà la sceneggiatura di Il ladrone; lavorerà per la RAI (partecipando alla scrittura del soggetto dello sceneggiato Una città in fondo alla strada e del documentario del 1980 Storia di Cinecittà); scriverà di storia del cinema e sarà il ghost writer di Maria Mercader.
Autore di teatro, traduttore dal latino, critico d’arte, pubblicitario, Renato Ghiotto ha saputo declinare la sua scrittura in ambiti diversi senza rinunciare mai a un’eleganza che non è semplice e ovvia cura della forma in sé, ma naturale espressione di un pensiero lucido, di un’“avventura mentale” (come ha scritto Garboli) che fonde con rara profondità immaginazione e logica. Eleganza che contraddistingue la sua narrazione (con il romanzo d’esordio, Scacco alla regina, nel 1967 sarà finalista allo Strega; in seguito pubblicherà Adiòs nel 1971 e Rondò nel 1985; nel 1987 uscirà postumo I vetrii). Una narrazione pressoché unica nel panorama italiano degli anni Sessanta-Ottanta, fondata com’è su una raffinatissima riflessione metafisica e ironica (riprendendo ancora le parole di Garboli) sulla complessa psicologia della generazione che era passata attraverso gli orrori della Seconda Guerra Mondiale, le speranze della Resistenza, le illusioni del Boom economico e il passaggio dalla Storia alla Dopostoria pasoliniana – il tempo dell’omologazione e del consumismo. Tempo che diventerà distopia nel suo romanzo postumo, che Garboli, nel 1986, sperava venisse pubblicato. Un romanzo che ha molto da dire a chi, negli anni Duemila, sta vivendo l’ultima evoluzione della Dopostoria. 

L’Inquisitore e il Grattacielo. I vetri

Avevi forse dimenticato che la tranquillità e perfino la morte è all’uomo più cara della libera scelta fra il bene e il male? Nulla è per l’uomo più seducente che la libertà della sua coscienza, ma nulla anche è più tormentoso.
Sofferenza. La libertà, ossia la necessità di scegliere. (Renato Ghiotto, I vetri, Longanesi 1987, p. 30)
La signorina Cantoni ha perso una piantina e una pila di romanzi di Dostoevskij, che la nascondevano solo in parte (I vetri, p. 17)

I vetri di Renato Ghiotto (pubblicato postumo da Longanesi nel 1987, con prefazione di Luigi Meneghello) è un romanzo distopico (Meneghello cita tra le possibili fonti il 1984 di Orwell o il Brave New World di Huxley, ai quali si potrebbero aggiungere L’uomo è forte di Alvaro e My di Zamjatin), e onirico (il sogno è il fantasma onnipresente della narrazione di Ghiotto, ne è il motore, e non a caso Meneghello, nella sua prefazione, evoca il nome di Borges, amico di Ghiotto). E certamente è un romanzo sul potere (Meneghello ricorda Il castello di Kafka e i Racconti di Buzzati). Pasolini, Volponi, Sciascia, negli anni Settanta, hanno scritto del potere usando la dispersione della scrittura, la frammentazione della narrazione (Petrolio, Corporale), la rilettura filosofica del giallo (Todo modo). Ghiotto, negli anni Ottanta, con lo stesso scopo, riprende il genere della distopia degli anni delle dittature storiche (evocate dal protagonista del romanzo – “ho il mio segreto, sono più potente […] di Hitler e di Stalin”), senza farne una versione postmoderna. S’inserisce da classico tra i classici della distopia. Nessun gioco di scrittura, nessun uso parodico di un genere. Il “comporre fluido, disinvolto, senza pentimenti” (Luigi Meneghello, Prefazione in I vetri, p. II ) che è proprio della sua scrittura, cristallina e logica (della logica del sogno e del flusso monologante), non concepisce parodia e gioco. A parte il suo. Un gioco non stilistico, ma ideologico:

Ghiotto era attirato dall’idea del gioco, del distacco, della astensione elegante: scrivere, forse più in generale vivere, senza dare l’impressione di impegnarsi del tutto. È una variante della postura del dandy, la persona raffinata che si mantiene fuori della mischia: ma in lui non era una semplice posa, anzi c’era di mezzo un tratto profondo, un senso di separazione, quasi un disagio di fronte alle forme ordinarie dell’esperienza. (Luigi Meneghello, Prefazione, p. III )

E in questo gioco, che obbliga il lettore allo stesso disagio emotivo e percettivo dello scrittore (e del suo doppio/voce narrante/protagonista), il potere è scarnificato, reso vitreo, ritratto in un’immensità pervasiva che è nulla (tutto ciò che ci viene narrato è reale, tutto ciò che ci viene narrato è sogno). Una torre di vetro, nella quale controllo e verità pretendono d’identificarsi, distruggendo l’identità umana, altrimenti detta libertà. Ciò che appare non è. La verità è opaca, la menzogna trasparente. Il gioco che si svolge tra i Vetri è quello dell’Inquisitore del racconto di Ivan Karamazov – eliminare il primo tormento dell’uomo, il libero arbitrio, la scelta.

Il potere e la Torre

Al posto del Tuo tempio sorgerà un nuovo edificio, sorgerà una nuova spaventosa torre di Babele […] Essi torneranno allora a cercarci […] ci troveranno e ci grideranno: “Nutriteci […]”. E allora saremo noi a ultimare la loro torre […]
Oh, passeranno ancora secoli di orgia del libero pensiero, di umana scienza e di antropofagia, perché, avendo cominciato a costruire la loro torre di Babele senza di noi, è con l’antropofagia che termineranno. […] ma allora soltanto, e allora spunterà per gli uomini il regno della pace e della felicità. […] Con noi […] tutti saranno felici e più non si rivolteranno, né si stermineranno fra loro come facevano dappertutto nella Tua libertà. Oh, noi li persuaderemo che allora soltanto essi saranno liberi, quando rinunzieranno alla libertà loro in favore nostro e si sottometteranno a noi.
L’edificio, il nostro, quello che noi chiamiamo con fede Grattacielo […] dovrebbe […] essere enorme e altissimo. (I vetri, p. 19)

L’altezza è la metafora biblica del potere (la bestemmia contro il vero e unico dio, pronunciata da chi vorrebbe essere dio). Il vetro è la metafora contemporanea del controllo (la trasparenza smette di essere tratto di purezza e bellezza, per esprimere lo sconcio dell’omologazione). Il Grattacielo che chiude in sé l’esistenza meccanica di un gruppo di eletti (scelti per diventare schiavi funzionali all’esistenza del Grattacielo e del Cervello elettronico che ne è la ragion d’essere e l’animus), è la nuova Torre di Babele, che però non crea, ma annulla, la diversità e la funzione del linguaggio, nel verde dei caratteri che appaiono sugli schermi cui sono condannati uomini e donne privi d’identità (gli “impiegati”). La parola non ha più valore là dove la Torre è stata completata dall’Inquisitore. Diventa accumulo insensato d’informazioni autoreferenti (il potere basta a se stesso) e non più comunicazione. Gli impiegati non parlano tra loro per dirsi ciò che realmente pensano o provano:

I contatti personali non sono esplicitamente proibiti ma qui s’impara subito un regolamento non scritto che è soprattutto un risultato di autocensura. (I vetri, p. 11)

Il valore della parola è negato per negare un’autonomia, mentale ed emotiva, percepita come colpa e limite. Nel Grattacielo la sottomissione è volontaria. La felicità consiste nella rinuncia a sentimenti e scelte, all’intimità del corpo, del pensiero e della volontà, impedite materialmente dalle pareti di vetro di uffici e abitazioni (quelle interne al Grattacielo, dove vivono gli impiegati) e dalle telecamere fissate ai soffitti. Ogni tentativo di opporsi al controllo, per quanto debole e aleatorio, viene punito. Con prudenza, però. Allo schiavo è data sempre la possibilità di auto-redimersi. Solo se ciò non accade, si provvede drasticamente al ritorno alla normalità. Piante e oggetti, che possono impedire il controllo attraverso i vetri, vengono distrutte. Non subito, e in modo indiretto, così che chi ha contravvenuto alle regole si senta obbligato al loro rispetto “volontario”:

I libri scomparvero e al loro posto furono trovate le bobine su cui erano trascritti. Il possesso di materiale elettronico è un delitto, considerato alla stessa stregua del furto e dello spionaggio industriale. Si videro file di impiegati dirigersi agli inceneritori più vicini e distruggere essi stessi ciò che restava dei loro libri. (I vetri, p. 17)

D’altronde, coloro che tentano una seppur innocua ribellione, sono una minoranza. La maggioranza degli impiegati crede nell’auto-asservimento, e dunque lo pratica senza porsi dubbi. Anzi, per alcuni di loro è una vera e propria fede, una morale, un’“ipotesi religiosa” (la religione dell’Inquisitore):

Alcuni di noi sostengono un’opinione forse più ortodossa: la trasparenza non sarebbe un mezzo di controllo ma di elevazione morale, che ci viene imposto per il progresso del nostro spirito. Dovremmo cioè convincerci che qualcuno non ci perde d’occhio un istante e, a partire da questo, diventare migliori: che ci sia o no il misterioso Occhio giudicante, vigili esso o no su di noi, impariamo a comportarci come se ci fosse, a esso deleghiamo le funzioni della coscienza. (I vetri, p. 21)

Nella vitrea Torre di Babele della contemporaneità, in cui tutto “è trasparente ma niente è davvero palese” (I vetri, p. 28), si va compiendo la predizione di Ivan Karamazov.

Il potere, il lavoro e il gioco

Certo, li obbligheremo a lavorare, ma nelle ore libere dal lavoro organizzeremo la loro vita come un giuoco infantile, con canti e cori e danze innocenti.
Chi sono gli impiegati? Le cavie di un esperimento i cui risultati possono essere applicati in scala più ampia? E perché sono stati scelti? Perché il loro asservimento dev’essere percepito come un privilegio? Il protagonista di I vetri, impiegato narratore (il vero e unico ribelle, e perciò il solo prescelto dal Cervello per ovviare alla solitudine del potere) non può rispondere, ma percepisce l’assurdo di un sistema così totale da non avere neanche una logica:

Marina Fiori dice che vivere come viviamo noi è un privilegio, ma non sa o non osa spiegare come viviamo, cioè quale sia il significato e il valore di ciò che facciamo. Per ciò che ne so potrebbe anche essere un agitarsi privo di senso. (I vetri, p. 21)

Gli impiegati devono lavorare. Devono essere felici del loro lavoro. Il lavoro è la loro dipendenza:

Qui il pensiero del lavoro da riprendere non sgomenta nessuno. Anzi, il miglior modo di presentarsi al sonno è figurarsi di tornare al proprio terminale il giorno dopo. (I vetri, p. 23)

Marcuse, in Eros e civiltà, ha scritto:

La civiltà è innanzitutto progresso del lavoro – cioè del lavoro per procurare e aumentare le necessità della vita. Questo lavoro, normalmente, non offre soddisfazione in sé stesso; per Freud esso è spiacevole, penoso. […] La sindrome istintuale “infelicità e lavoro” ricorre in tutti gli scritti di Freud, e la sua interpretazione del mito di Prometeo si aggira intorno alla connessione esistente tra il dominio della passione sessuale e il lavoro civilizzato. Il lavoro fondamentale, nella civiltà, è non-libidico, è fatica; la fatica è “spiacevole”, e questo stato spiacevole deve venir imposto. (Herbert Marcuse, Eros e civiltà, Torino Einaudi 1964, pp. 117-118)

Nel Grattacielo lavorare per il Cervello più che spiacevole è insensato, sebbene (anzi proprio perché) venga presentato come necessario:

Ufficialmente il nostro lavoro è sensato, utile; paragonato a quello degli inservienti, viene definito di concetto. Che cosa facciamo? Prepariamo materiali perché il Grande Cervello li elabori. Questo dice il nostro catechismo (I vetri, pp. 43-44)

L’imposizione del lavoro avviene attraverso un condizionamento così pervasivo, da rendere di fatto impossibile la percezione della sindrome “infelicità e lavoro” descritta da Freud (e ripresa da Marcuse). La fatica che de-sessualizza è sopportata perché, in fondo, non è che un gioco del quale si accetta l’inutilità. Nella sezione del protagonista (la “sezione narrativa”) si stravolgono brani di romanzi, dai classici agli inediti, senza alcuno scopo. Allo stesso modo, gli stessi impiegati in precedenza avevano chiesto al Cervello di formare figure geometriche, e ancora prima si erano dedicati “alla genealogia e alla cronologia comparata”, sempre seguendo un “modo laterale, che sfiora e non ricerca, che elenca e non classifica” (I vetri, p. 46). Il lavoro per il Cervello è talmente alienante da diventare idiota:

Bisogna proporsi uno scopo, ma dev’essere quello imperscrutabile del Nostro; non sapendo quale sia, elaboriamo solo larve di progetto, tendiamo a risultati grezzi, ripetitivi; frughiamo tra i cascami del già noto, rimescoliamo e buttiamo di nuovo tutto nel mucchio. (I vetri, p. 46)

Eppure, quell’insensatezza assume presso alcuni impiegati un valore quasi filosofico, addirittura maieutico:

Bernardi disse tempo fa che il nostro lavoro non serve al Cervello ma ci aiuta a conoscere noi stessi. (I vetri, p. 47)

Il Cervello è generoso, ama i suoi impiegati. Li protegge dalla violenza del mondo esterno. Permette loro di avere un tempo libero nel quale giocare – giardini interni che sostituiscono l’ambiente naturale esterno, bar, “sale di spettacolo e […] riservate ad attività espressive degli impiegati” (I vetri, p. 19). E televisori, che sostituiscono il proiettore del cinema (il cinematografo è vietato nel Grattacielo, perché è un ambiente chiuso e non illuminato, dunque impossibile da controllare – Ghiotto, uomo di cinema, rende così omaggio alla sua arte facendone concreta figura della libertà). Ma anche nel tempo libero l’autocensura è necessaria. Nei bar scompaiono gradualmente gli alcolici, perché gli impiegati stigmatizzano spontaneamente il consumo dell’alcol e i giochi d’azzardo che in qualche modo vi sono collegati, come il poker (“l’autocensura imperversa” I vetri, p. 23). Il Cervello permette perché nega. Ogni cosa, anche quella apparentemente più innocente, è una concessione – mai fatta ma come tale percepita. La vera schiavitù è quella di chi sceglie di negarsi la scelta, da solo.
Per caso, o forse per punizione (ma niente è definito e definibile, nella logica del Cervello), può capitare che un impiegato venga allontanato dal Grattacielo per quarantott’ore. Espulso nel mondo esterno. Ed è allora che capisce quanto gli sia ormai impossibile vivere senza i suoi vetri, senza il suo lavoro privo di senso e penosamente routinario:

l’allontanamento temporaneo dell’uno o dell’altro di noi. Non è soltanto una punizione, si dice, quanto un esercizio spirituale a cui veniamo sottoposti per corroborare il nostro attaccamento all’azienda. La mancanza dell’ambiente consueto, protetto, confortevole, la privazione del lavoro, col senso d’insicurezza che vi si accompagna, dovrebbero destare la nostalgia del Grattacielo, rendere trionfale il ritorno ed entusiastica la ripresa della routine. (I vetri, p. 27)

Anche il protagonista viene espulso. Senza un perché, com’è normale che sia. E all’avvicinarsi della scadenza delle quarantott’ore, comincia a soffrire fisicamente i dolori dell’astinenza. L’esterno gli ha regalato la gioia stupita dell’opacità, del cinema, del sesso. Eppure, il ritorno al Grattacielo è necessario:

“Si potrebbe non tornare”, dico, “restare in città. […]”
“No”, dice Rita, “qualcuno ha provato ma non ha resistito. Intanto non si trova niente da fare e poi, qualunque lavoro ti capiti, non sembra mai all’altezza di ciò che facciamo al Grattacielo. Pochi giorni fuori e senti di non poter vivere senza il tuo terminale.”
“È ridicolo. Io non amo ciò che faccio laggiù.”
“C’è dell’altro.”
“Che cosa?”
“Non saprei spiegartelo: angoscia, depressione. È un malessere così forte da costringerti a tornare indietro. Forse potresti resistere qui qualche giorno ancora ma già adesso ritrovi con sollievo l’idea che puoi rientrare alla scadenza delle quarantott’ore. […]” (I vetri, p. 35)

Come dice l’Inquisitore a Cristo, se è vero che nulla “è per l’uomo più seducente che la libertà della sua coscienza”, è altrettanto vero che “nulla anche è più tormentoso”. Ed è per non vivere questo tormento che chi si è asservito al Cervello deve tornare al Grattacielo. Il mondo esterno è ancora barbaramente libero. Affascinante quando lo si scopre (o riscopre), ma angosciante nella sua natura non meccanizzata e imprevedibile, che obbliga alla scelta, il procedimento della coscienza che si fa adulta.

“[…] noi […] fuori dal Grattacielo, ci sentiamo perduti. Non hai paura tu?”
“Sì. Delle pareti opache, che prima mi rassicuravano, del sole, della gente, non so di che.” (I vetri, p. 37)

Il potere e il sesso

Oh, noi consentiremo loro anche il peccato, perché sono deboli e inetti, ed essi ci ameranno come bambini, perché permetteremo loro di peccare. Diremo che ogni peccato, se commesso con il nostro consenso, sarà riscattato, che permettiamo loro di peccare perché li amiamo e che, in quanto al castigo per tali peccati, lo prenderemo su di noi. 

Marcuse scrive, in Eros e civiltà:

Una più forte difesa contro l’aggressività è necessaria; ma per poter essere efficace, la difesa contro un’aggressività più forte dovrebbe rafforzare gli istinti sessuali, poiché soltanto un Eros forte può “legare” efficacemente gli istinti distruttivi. E questo è precisamente ciò che la civiltà sviluppata non è in grado di fare, poiché proprio la sua esistenza stessa dipende da irreggimentazioni e controlli più estesi e più intensi. La catena di inibizioni e deviazioni dagli oggetti istintuali non può essere infranta. “La nostra civiltà, per parlare in termini generali, è fondata sulla repressione degli istinti”. (H. Marcuse, Eros e civiltà, p. 117)

Così è nel Grattacielo. Gli istinti sessuali sono a tal punto repressi (cioè auto-repressi, nella logica dell’Inquisitore), da scomparire. Tra castità (come valore religioso) e repressione, quella del Cervello è una fede (e una struttura socio-ideologica) che rappresenta perfettamente l’assimilazione dell’alienazione borghese all’aspirazione antica (classica e cristiana) alla verità. Foucault ricorda come, nella Grecia della classicità, l’astinenza fosse “legata a una forma di saggezza che […] metteva direttamente in contatto con qualche elemento superiore alla natura umana e che dava […] accesso all’essenza stessa della verità” (Michel Foucault, La cura di sé. Storia della sessualità 3, Feltrinelli Milano 1985, p. 25). Il Cervello è un elemento superiore, e la sua verità (retorica e autoreferenziale) giustifica una mistica necessaria agli impiegati per accettare passivamente la loro condizione servile. Agli espulsi, però, il Cervello permette ciò che nel Grattacielo è peccato. Nel mondo esterno il sesso è libero. Il protagonista e Rita, la collega che lavora vicino a lui, usano le quarantott’ore dell’espulsione per esprimere finalmente le loro identità sessuali (che in Ghiotto rientrano nella dinamica dominatore-dominatrice/sottomesso-sottomessa). Rita si trasforma in Margot (come accade alla protagonista del Maestro e Margherita), perde ogni tratto del grigio anonimato che fa degli impiegati una massa uniforme, e torna ad essere una donna che desidera e vuole essere desiderata. Il protagonista vede finalmente un corpo e un volto (nel Grattacielo Rita nasconde persino i suoi capelli, sotto due parrucche) e se ne innamora. Ma allo scadere del tempo concesso fuori dal grattacielo, anche il sesso perde ogni carattere di trasgressività (di libertà). Smette di essere codice di rivolta, variante espressiva (cioè poetica) del linguaggio del corpo (intuizione pasoliniana), e diventa “esercizio e ripetizione” (ancora bello, nota il protagonista, ma ormai privo della sua potenzialità eversiva e comunicativa). Margot torna ad essere Rita, il rapporto dominatore/sottomessa evolve in una dinamica esplicitamente e malinconicamente sadomasochistica. I corpi e le menti si preparano a tornare alla de-sessualizzazione del Grattacielo. Eppure qualcosa è accaduto, e Rita non può tornare indietro. Deve rinunciare al suo doppio eversivo e stregonesco, ma non rinuncia al sesso. E anche se il suo amante, nel Grattacielo, non ha più desideri sessuali, lei sfida ugualmente le regole che impongono nei fatti la castità, e s’introduce nella camera e nel letto del protagonista per cercare nella vicinanza del suo corpo un rimedio alla solitudine. Il sesso è ora solo un reciproco toccare organi sessuali che non hanno più nulla di erotico, ma sono comunque il segno di una presenza realmente umana. Il peccato concesso all’esterno, e condannato nel Grattacielo, verrà scoperto dagli impiegati “bigotti” (che credono cioè ciecamente alla religione del Cervello e gli obbediscono con disumana convinzione). Sarà allora che il protagonista simulerà una virilità che non possiede più, per fingere l’atto che lo condanna. Una sfida che non giunge a nulla, perché “delle nostre scopate (mancate) al Computer non importava assolutamente niente” (I vetri, p. 67).
Battei sulla tastiera un breve messaggio, avvertendo che da tre settimane Rita passava la notte nella mia camera. “No matter”: la scritta verde palpitò come un ammiccamento. (I vetri, p. 67)

Ma non è davvero così, e infine il protagonista lo comprende – il Cervello permette a lui e a Rita il sesso altrimenti proibito perché “loro sapevano che i nostri coiti erano finti” (I vetri, p. 68). Non si sfugge alla de-sessualizzazione necessaria alla religione del lavoro fine a se stesso, dell’asservimento ad esso.
Ma, come ricorda Marcuse, se “la sfera principale della civiltà si presenta come una sfera di sublimazione” e la “sublimazione implica desessualizzazione”, non si deve dimenticare quanto affermato da Freud, e cioè che dopo la sublimazione, la componente erotica non ha più il potere di legare l’insieme degli elementi distruttivi precedentemente combinati con essa, e questi vengono liberati sotto forma di inclinazioni all’aggressione e alla distruzione (Herbert Marcuse, Eros e civiltà, Torino Einaudi 1964, p. 119).
Sull’aggressività e la distruttività auto-represse si fonda, infatti, il sistema del Grattacielo. Fino a quando il protagonista non travalicherà il limite di questa repressione, proprio liberando la sua violenza. 

Il potere e la conoscenza

La libertà, il libero pensiero e la scienza li condurranno in tali labirinti e li porranno davanti a tali portenti e misteri insolubili, che di essi gli uni, ribelli e furiosi, si distruggeranno da sé, gli altri, ribelli ma deboli si distruggeranno fra loro, mentre i rimanenti, imbelli e infelici, si trascineranno ai nostri piedi e ci grideranno: “Sì, voi avevate ragione, voi soli possedevate il Suo segreto, e noi torniamo a voi, salvateci da noi medesimi”.
C’è una strada che conduce alla rivolta. Ed è il dubbio. E il dubbio è generato dalla conoscenza, che indica i limiti necessari al pensiero per essere libero. Per questo l’autentica conoscenza è bandita dal Grattacielo. O meglio, è vietata agli impiegati che lo abitano.
Non abbiamo la radio, non compriamo giornali; poiché c’è la televisione interna, sostengono i devoti, sarebbe segno d’ingratitudine e indiscrezione cercare altre fonti d’informazione. La televisione, nei bar e nelle mense […] trasmette solo documentari e concerti, più alcuni concorsi a indovinelli, in cui le persone come Marina s’illudono che siano nascoste indicazioni da applicare al nostro lavoro. (I vetri, pp. 41-42)

Dunque, non solo il Cervello impedisce una conoscenza reale delle informazioni che possiede (che vengono manipolate dagli impiegati in modo insensato), ma vieta anche la conoscenza della realtà. Per il bene dei suoi servi, certo:

Nella nostra fortezza gli avvenimenti esterni arrivano, quando arrivano, come da un altro pianeta. Da ciò la saggezza di escludere quotidiani e notiziari, inutili perturbatori della nostra pace. (I vetri, p. 91)

Eppure, quando il protagonista riuscirà a penetrare il Cervello (facendosi a sua volta penetrare), scoprirà che in esso sono nascoste informazioni dettagliatissime sulla realtà – passata e presente. Esiste dunque il segreto posseduto dall’Inquisitore dostoevskiano, che solo il potere può possedere, e che assimila a sé l’intero esistere, dalla grandiosità della natura allo squallore del controllo (descrivendo il quale, Ghiotto ritrae una realtà non più distopica, ma assolutamente contemporanea):

Incominciai a esplorare la memoria del Computer per grandi ripartizioni, poi per materia. […] Il Computer era l’oceano, o meglio gli oceani, l’Atlantico, il Pacifico, l’Artico; poi i mari, il Mediterraneo, il Caspio, il Golfo Persico; ma era anche l’acqua salata, il fondo marino, i pesci e le madrepore, il balletto instancabile del plancton e quello invisibile degli infusori; vi si trovavano mostri, vi giacevano navi naufragate e tesori. Trovai una copia dei rapporti che redigevano gli agenti del servizio segreto, una relazione sui profitti delle maggiori banche nazionali. Il Computer era stato collegato da tempo con i suoi confratelli minori, installati nelle grandi fabbriche, nei centri di ricerca, negli istituti di statistica. (I vetri, p. 101)
Al Computer arrivano “giornali e libri da tutto il mondo”:
Grandi sezioni di memoria vengono aggiornate continuamente: quotazioni di borse; andamento delle maree […]; intercettazioni telefoniche (il Computer ha le sue spie dappertutto); progressi nelle armi e nelle ricerche scientifiche (specialmente genetiche); e molte altre. (I vetri, p. 102)
Il Cervello, però, è “contenitore di conoscenze (e non di conoscenza)” (I vetri, p. 103). Non è lui, dunque, a detenere il vero potere. L’Inquisitore è un altro, invisibile (nel mondo del Grattacielo), e governa il Cervello perché il Computer sa “ciò che serve a chi sa veramente qualche cosa, a qualcuno capace di concepire l’uso vertiginoso che si può fare dei suoi materiali” (I vetri, p. 101).

Quando il protagonista diventerà parte fisica di quel potere, sdoppiandosi ed entrando nella meccanica del Cervello, percepirà direttamente nel proprio corpo e nella propria mente il dramma della gestione della conoscenza:

La prima sensazione è il gravare imponderabile di tanta conoscenza. Essa è organizzata per così dire orizzontalmente, un dato dopo l’altro, o elaborata secondo schemi elementari. Ma è immensa: ci vuole qualcuno che sappia metterci dentro le mani e se ne può ricavare praticamente ciò che si vuole.
Il senso della potenza […] appartenne al presente: la carne premeva contro la pelle; dilatandosi, il cervello forzava le pareti della scatola cranica. […] C’è nel potere assoluto una dolcezza dura, acuta, uno stordimento aromatico, dato dal composito odore delle sofferenze altrui, che può indurre al delirio. L’unico inconveniente è il prurito, come potranno testimoniare i pochi che hanno raggiunto in altre epoche vette paragonabili a quella su cui mi trovo io. (I vetri, pp. 98-99)

La conoscenza ha dunque una natura anfibologica – è necessaria alla rivolta quanto al potere assoluto. E Ghiotto lo dimostra con la leggerezza della logica e dell’ironia. Dipingendo, fin nei dettagli, il ritratto del neocapitalismo tecnocratico, e della nostra esistenza.

Il potere e il miracolo

Ci sono sulla terra tre forze, tre sole forze capaci di vincere e conquistare per sempre la coscienza di questi deboli ribelli, per la felicità loro; queste forze sono: il miracolo, il mistero e l’autorità.

Non c’è per l’uomo rimasto libero più assidua e più tormentosa cura che quella di cercare un essere dinanzi a cui inchinarsi. Ma l’uomo cerca di inchinarsi a ciò che già è incontestabile, che tutti gli uomini ad un tempo siano disposti a venerarlo universalmente. Perché la preoccupazione di queste misere creature non è soltanto di trovare un essere a cui questo o quell’uomo si inchini, ma di trovarne uno tale che tutti credano in lui e lo adorino, e precisamente tutti insieme.
Quanto dice l’Inquisitore al Cristo che lo ascolta in silenzio, è ciò che accade nel Grattacielo. La scelta dell’auto-asservimento (“chissà perché si ama la schiavitù fino a cercarla da soli quando nessuno ce la impone” (I vetri, p. 89), dice fra sé il protagonista) è nobilitata dalla mistica superiorità del proprio padrone. Miracolo, mistero e autorità formano la triade del potere, secondo l’Inquisitore. Il Cervello esiste in grazia di questa triade. Ciò che avviene nel Grattacielo presuppone un mistero che a sua volta presuppone un’autorità superiore, che si rivela attraverso il miracolo:

certi colleghi, detti miracolisti, […] credono fermamente che la nostra vita qui sia circondata da continui prodigi, alcuni utili altri superflui, e non si domandano di più. A sentir loro i superiori (o il Superiore perché preferiscono l’idea di un capo unico e supremo), il Superiore non può smettere di compiere miracoli, come il latte bollente non cessa di traboccare. (I vetri, p. 48)

Come affermerà il protagonista, conversando con il collega Bernardi (l’altro prescelto), la riduzione degli impiegati ad automi è la dimostrazione della divinizzazione del Cervello:

Offriamo il nostro lavoro di deficienti al Grande Cervello, come si offrivano sacrifici alle divinità pagane. (I vetri, p. 48)

E anche se nessuno degli impiegati “è così cretino da credere che il computer sia Dio” (I vetri, p. 48), è indubbio che esso faccia parte di un credo che giustifica l’asservimento volontario. Il Computer non è Dio, sì, ma è “il gran sacerdote, il maestro dei riti, il catechista. C’istruisce, ci addestra a stare mentalmente in ginocchio e con questo ci rende quasi felici” (I vetri, p. 48). Ma chi è l’autorità Superiore di cui il Cervello è il gran sacerdote? Chi è l’Inquisitore? Il Padrone del Grattacielo? Il protagonista lo percepirà quando entrerà nel Cervello:

sono uno dei pochi a sapere qui dentro che il Padrone non è un uomo, ma un’astrazione, o forse un dio. Sono laico e scettico, non ateo. (I vetri, p. 92)

Il Potere del neocapitalismo tecnocratico è anarchico, ha scritto Pasolini. È, cioè, un’entità magmatica, che si adatta e rinnova continuamente per rafforzarsi. E ciò è possibile solo perché è un’astrazione. Un’astrazione divinizzata, le cui leggi (mai definitive) sono indiscutibili come quelle di un dio. Chi può rivoltarsi contro la logica della felicità dell’omologazione che un dio Padrone ci ha concesso?

Il potere, la natura, il sogno, la distruzione del Grattacielo

[…] noi soli, noi che custodiremo il segreto, noi soli saremo infelici. Ci saranno miliardi di pargoli felici e centomila martiri che avranno preso su di sé la maledizione di discernere il bene dal male. 

C’è tuttavia, uno spazio irriducibile di libertà che il Padrone non può controllare. Una forza ancora più anarchica della sua. La natura, che è la memoria (esterna) e la percezione della bellezza e della libertà che resistono anche all’interno del Grattacielo. Ed è la visione/ricordo della potenza della natura che apre al protagonista la strada della rivolta e della presa (per quanto provvisoria) del potere.

I lampi incrinavano il cielo. Si avvicinava il temporale […]. Le viti si spettinavano tutte sotto il vento; arrivava un odore di anice, di piante pestate, lontano, dalla grandine. Ora sembrava che il vento volesse strappare le foglie e i rami; bisognava abbassarsi, aderire alla terra per non essere spazzati via. Le prime gocce, molto grosse, mi battono sulla nuca. D’improvviso […] mi raggiunge lo strepito panoramico del tuono: descrive cumuli di nuvole nere, scontri di masse d’aria, calda contro fredda, ma è anche la voce del mago e del gigante, la esultante paura che viene dalle favole.
Alzo tra le mani il terminale, lo strappo dalle prese elettriche sul pavimento, e lo scaravento contro la parete di vetro, che crolla su se stessa. (I vetri, p. 70)

Marcuse scrive in Eros e civiltà:

La tecnica fornisce la vera e propria base del progresso; la razionalità tecnica stabilisce il modello psichico e comportamentale della prestazione produttiva, e il “potere sulla natura” è diventato praticamente sinonimo di civiltà. […] Il sempre maggiore dominio sulla natura, unito alla sempre maggiore produttività del lavoro, svilupperebbe e soddisferebbe in questo caso i bisogni umani soltanto come sottoprodotto; la sempre maggiore ricchezza culturale e le conoscenze sempre più profonde fornirebbero il materiale per una distruzione progressiva, e creerebbero il bisogno di una sempre più intensa repressione degli istinti. (H. Marcuse, Eros e civiltà, pp. 121-122, 123)

Il Grattacielo prevede spazi artificiali nei quali la bellezza della natura sia riprodotta come mero oggetto estetico e ricreativo. Così, esattamente come accade per la natura umana degli impiegati, la reprime, negandone il contenuto attraverso una forma che non le appartiene. Ciò che non è immediatamente funzionale alla “prestazione produttiva”, cioè ciò che ha a che fare con la naturalità, è già una rivolta contro il sistema della tecnocrazia, e perciò va depotenziata.
Ogni atto di ribellione contro il potere del Grattacielo nasce, nel protagonista, da una compenetrazione con la natura (per essere più esatti, con l’elemento vegetale). Tornato nel mondo esterno (questa volta per sua volontà), l’impiegato narratore s’identifica con i tigli fioriti:

Provai la fuggevole tentazione di essere uno di quei fiori o una di quelle foglie, di avere i loro petali e le loro nervature, di starmene al mio posto in una di quelle cattedrali arboree, a espandermi con gli altri fiori e foglie in un’unica spinta di vita. (I vetri, p. 76)

E nel delirio del potere acquisito nella fusione con il Computer, si assume il compito di non far cadere nel nulla un globo terrestre non astratto, ma totalmente naturale:

devo […] vedere mentalmente, qualunque cosa stia facendo e dovunque mi trovi, la palla rugosa e umida della terra, seguirla mentre ruota su se stessa e intorno al sole, avvolta nella sciarpa delle nubi, sempre leggermente fumigante di evaporazione. (I vetri, p. 113)

Infine, perso il potere del Computer, immagina di “impadronirsi del bosco”, di fondersi con le radici di alberi e piante come prima era accaduto con i fili del Cervello elettronico:

Alla fine sarò di nuovo il padrone del mondo. Questa volta non lo sorreggerò sulle spalle, eroe ignoto, salvatore piagato dalle proprie unghie; ci sarò dentro: la mia volontà lo irretirà, ubiqua, ineludibile. (I vetri, p. 130)

Ma il progetto si rivela impraticabile. L’Albero risponde alla logica della naturalità, non comprende il linguaggio del potere. Non è assimilabile al Computer in alcun modo. E perciò il sogno della conquista del mondo deve tornare all’interno del Grattacielo. La natura non possiede le ambiguità della conoscenza. Non può essere contro il potere e a favore del potere. La natura è altro. La sua pervasività non possiede ragione. È, semplicemente. Evidentemente. Il protagonista, che si è ribellato al Padrone ricordando un temporale nella sua campagna, è obbligato a dimenticare la natura per diventare il nuovo Padrone.

Così torna alla ricerca del Grattacielo dal quale si è allontanato (e dal quale è stato allontanato). Ma il Grattacielo esiste? “Devi convincerti” – dice Margherita (la Rita/Margot che si è rivelata moglie del protagonista) – “che il Grattacielo non esiste. Lo hai inventato tu, era una tua costruzione mentale” (I vetri, p. 136).

La vita da narrazione diventa sogno. Ma il sogno non è che la “duplicazione deforme della vita” (I vetri, p. 59). E nella dimensione del Grattacielo “è la vita che somiglia al sogno, immotivata, allucinata” (I vetri, p. 59). E che accada nel sogno o nella vita (ormai la differenza è pleonastica), il Grattacielo riappare. Per autodistruggersi. Implodendo, scompare nella terra riconquistata dagli alberi.
Il potere della Torre è finito. Ora può iniziare quello più umile ed efficace di un “finto quartiere popolare”, con asilo e chiesa, radicato sul Computer sepolto sotto la campagna. La falsa trasparenza dei vetri prende la forma della normalità. La logica dell’Inquisitore si espanderà nella dimensione orizzontale del quotidiano.
Renato Ghiotto non poteva immaginare finale più terribile alla sua distopica narrazione della contemporaneità.

francescatuscano@gmail.com

[Tutte le citazioni tratte da Il grande Inquisitore appartengono all’edizione dei Fratelli Karamazov pubblicata da Garzanti nel 1974, traduzione di Alfredo Polledro]

 

 

L'autore

Francesca Tuscano
Francesca Tuscano
Francesca Tuscano è nata il 7 settembre 1964. Laureata in Lingua e letteratura russa e in Italianistica, addottorata in Letterature Comparate, si occupa soprattutto di storia dei rapporti tra cultura russa e cultura italiana, sui quali ha scritto diversi saggi. Ha tradotto dal russo testi di B. Akunin, R. Jakobson, Ju. Lotman, V. Chlebnikov, M. Kuzmin, A. Blok, A. Achmatova, N. Kaplan, e saggi di letteratura critica su Pasolini e Leonardo da Vinci (quasi tutti ancora inediti in italiano). Ha pubblicato una monografia sulla Russia nella poesia pasoliniana (La Russia nella poesia di Pasolini, Book Time 2010). Ha pubblicato le raccolte di poesie M.Y.T.O. (Era Nuova 2003), alla quale sono seguite La notte di Margot (Hebenon-Mimesis 2007), Gli stagni di Mosca (La Vita Felice 2012) e Thalassa (Hebenon-Mimesis 2015). Ha scritto anche libretti d’opera e testi teatrali (tra i quali Come si usano gli articoli, pubblicato in I diritti dei bambini, Rubbettino 2005). Nel 2016, per il Mittelfest di Cividale del Friuli, è stata messa in scena l’opera lirica Menocchio su suo libretto (musica di Renato Miani).