conversando con...

Daniele Ceccarani e Giulia Grillenzoni intervistano Patrizia Valduga

La foto di copertina è di Elisa Savi

Patrizia Valduga è una delle maggiori poetesse italiane. Alla silloge d’esordio Medicamenta (1982) sono seguite – per limitarci solo ad ad alcuni titoli – le raccolte Cento quartine. E altre storie d’amore (1997) e Quartine. Seconda centuria (2001), e poi ancora le ottave di Requiem (2002), i madrigali di Lezione d’amore (2004) e il Libro delle laudi (2012). Traduttrice raffinatissima, Patrizia Valduga si è dedicata principalmente a versioni dal francese (Molière, Mallarmé, Valéry) e dall’inglese (Donne, Shakespeare). A distanza di quasi un quinquennio da quella di Carlo Porta dal milanese (Poesie, Einaudi 2018), torna in libreria con la sua traduzione dei primi sette Cantos di Pound (E. Pound, Canti I – VII tradotti e annotati da Patrizia Valduga, Mondadori 2022).

Forse è opportuno partire dal Suo incontro con la poesia di Pound. Non è difficile immaginare che c’entri qualcosa Giovanni Raboni – «mio maestro e mio amore», come Lei lo ha spesso definito. Che ruolo ha avuto Pound nella Sua formazione di poetessa, e come è arrivata a tradurlo?

L’ho incontrato tardi, quando è uscito il «Meridiano» del 1977. Alcune poesie le ho subito imparate a memoria: «Go, my songs, seek your praise from the young and from the intollerant»… Era passato da Belluno un inglese – fidanzato temporaneo di un’amica – e l’ho costretto a registrarmi quelle che mi piacevano di più. La cassetta l’ho perduta, ma quelle poesie le so ancora a memoria. Ricordo quell’«unpronounceable title» della poesia dedicata a Atthis; non sapeva leggere il greco…

Ricordo che un paio d’anni dopo, quando studiavo a Venezia, appena potevo andavo alle Zattere da una coppia di amici che abitavano in due stanze al piano terra. Il proprietario, Charles Matz, aveva lasciato lì una bellissima scrivania: era nientemeno che la scrivania di Ezra Pound. Andavo lì, mi sedevo – come un pianista si siede al pianoforte – e la toccavo, la palpavo, la «suonavo»…

Conoscevo bene solo qualche passo dei Canti pisani quando è uscito il «Meridiano» dei Canti, e siamo nell’85. Continuavo a sentire la sua grandezza, ma sentivo anche che non era alla mia portata: troppe le cose che non capivo, troppi i riferimenti che mi sfuggivano… Ma perché, dopo tanti anni, mi è venuta voglia di tradurli? In primo luogo per me: non potevo continuare a ignorare un’opera così importante, e solo traducendola avrei potuto conoscerla. In secondo luogo per Raboni, per rendergli omaggio, perché proprio da quest’opera è partita la sua ricerca, la sua storia poetica, così come per lui avevo tradotto Carlo Porta, un altro poeta che amava, che amava in modo diverso, più legato alla sua infanzia. In terzo luogo, per Pound: perché le traduzioni esistenti non mi convincevano del tutto, mi davano meno piacere di quel poco che avevo visto dell’originale, e perché mi sembrava necessario aiutare il lettore, e soprattutto me, a entrare nel suo mondo; insomma, mi sembrava necessario ritradurlo annotandolo. Così, se per Porta non ho fatto neanche una nota che è una, per Pound avete visto quante? E sapeste quante cose non sapevo… E quante cose ho imparato! La grandezza di Gauthier e di Browning, per esempio, e quella dei provenzali, che mi erano quasi sconosciuti… Ho lavorato più di due anni, e mi è anche capitato di fare degli «scoop». Volete sapere quali?

Sì, sentiamo:

Ne ho fatti sette. La donna «troppo giovane» a cui pensava a Venezia, seduto «sui gradini alla Dogana», è quasi sicuramente Iseult Gonne, figlia di un’amante di Yeats (e di un’altra amante di Yeats sposa la figlia); «la vielle commode» è nella prima versione dell’Educazione sentimentale di Flaubert; poi ho scoperto che cos’è «l’albero dei volti», la fonte di gravi incessu, di e li mestiers ecoutes, del divano claw-foot and lion head e infine del nome Selwyn Mauberly. Tutto questo non si trova in nessun Companion to the Cantos.

Molto è stato detto (e scritto) sulla presunta impossibilità di una traduzione «bella e fedele». Ammesso che questo tipo di categorie «matrimoniali» abbiano ragion d’essere nella valutazione di un lavoro traduttivo, la Sua versione dei primi sette Cantos ci pare aver centrato entrambi gli obiettivi. Com’è possibile conciliare la «fedeltà» al testo d’origine con una resa esteticamente congrua al testo di partenza?

Sulla traduzione il mio «vangelo» è uno scritto di Raboni: Frammenti di un omaggio a Étienne Dolet, uscito in «L’ospite ingrato», 2001-2. Posso citarne dei passi? Eccone cinque, che risolvono ogni problema. Primo: «Una poesia e, più in generale, un testo di elevata specificità letteraria si possono tradurre solo con una poesia e con un testo di altrettanto elevata specificità letteraria». Secondo: «La domanda “a che cosa bisogna essere fedeli?” può essere utilmente corretta (anzi tanto vale dire, già che ci siamo, tradotta) in quest’altra: “a che cosa bisogna essere più fedeli?”» (o addirittura, più realisticamente: “a che cosa bisogna sforzarsi di essere meno infedeli?”)». Terzo: «La fedeltà, per divenire atto di fedeltà, deve incarnarsi in una serie di scelte e di rinunce, deve instaurare un sistema mobile ma rigoroso (forse sarebbe più giusto dire: rigoroso in quanto mobile) di priorità e di trasgressioni». Quarto: «Si può essere concretamente fedeli solo distribuendo in giusta proporzione e nei punti giusti una serie innumerevole di infedeltà funzionali». Quinto: «Chi traduce (chi legge allo scopo e nell’atto di tradurre) non può né astrarsi dal testo, né farsene un’astrazione, deve tener conto – frase dopo frase, parola dopo parola – della sua materialità, deve affrontarla, deve, in un certo senso, perdersi in essa». Ecco, quando traduco, io cerco sempre di applicare meglio che posso questi insegnamenti. E credo che le soluzioni migliori mi siano venute proprio quando mi sono «perduta nella materialità» del testo.

La Sua produzione poetica si caratterizza, sin dagli esordi, per il recupero dei metri tradizionali, dalla terzina dantesca all’ottava, dal sonetto al madrigale. Come si è posta, dunque, Lei che ha fatto del ritorno alla metrica romanza uno dei suoi segni distintivi, di fronte al verso libero di Pound? E quali sono, in generale, le difficoltà nel tradurre poesia da una lingua che adotti sistemi metrici differenti – nella fattispecie la poesia inglese, basata su una versificazione ritmica anziché sulla posizione fissa degli accenti?

È stato davvero molto difficile; e neanche ascoltare e riascoltare la lettura che ne fa Pound non mi è stato di grande aiuto. Mi sono arrabattata, imponendomi di non superare mai le quindici sillabe e di riprodurre la ricchezza lessicale, di riprodurre la stessa quantità di arcaismi, neologismi, parole composte, ecc. Ma credo di aver trattato il testo – per ignoranza e molto infedelmente – come se fosse in metrica sillabica. Tradurre Shakespeare, credetemi, è molto, molto più facile.

Che cosa ha tradotto di Shakespeare?

Riccardo III, che è stato pubblicato, e Macbeth, inedito.

Onestamente ci risulta difficile affermare che Pound possa aver influenzato la Sua scrittura, dato che essa sembra nutrirsi con maggior frequenza di autori decisamente più vicini a Lei per forme e temi (ad esempio, tra quelli da Lei tradotti, John Donne). Ciò nonostante, Le chiediamo se abbia «rubato» qualcosa a Pound, sempre – si capisce – come atto d’omaggio.

Ho rubato «occhi di cielo»: The sky-like limpid eyes, il primo verso di Brennbaum in Hugh Selwyn Mauberley, che Giovanni Giudici ha tradotto con «I limpidi occhi di cielo». Quindi non l’ho rubato a Pound, l’ho rubato a Giudici. Ma a Pound devo per forza aver rubato una quantità di idee o, meglio, «di possibilità poetiche».

In alcune Sue opere emerge con forza una pronunciata vena polemica, che contraddistingue particolarmente il monologo in sirventesi intitolato Corsia degli incurabili del 1996 («Le tivù ci hanno fatto l’incantesimo… / Se non scarica il cielo una saetta, / tutti servi del secolo ventesimo! // Classifiche, sondaggi, lotterie… / siamo solo strumenti di collaudo / per i bordelli… o per le osterie… // Che cosa non si deve sopportare! / Se penso che c’è ancora Pippo Baudo / che son trent’anni che mi fa cagare…»), ma che non manca nemmeno nell’ultima raccolta Belluno, del 2019 («Chi non si oppone alle iniquità / è colpevole quanto chi le fa. / Le avete le villette e le pensioni? / E allora andate fuori dai coglioni!»). L’espediente – diciamo pure il topos – dell’invettiva diventa quasi metodico e programmatico in Pound (pensiamo e. g. al XLV dei Cantos, quello contro l’usura). Crede che il modello poundiano possa aver agito un’influenza, magari anche carsica, su questo aspetto della Sua poetica?

No, non lo credo. Gli accenti polemici mi sono sempre piaciuti, anche prima di leggere Pound: penso a Guittone, a Petrarca e a tutti gli antipetrarchisti, ai quaresimalisti del Seicento… La mia prima invettiva viene da Dante ed è in Donna di dolori: «Ahi serva Italia in mano ai socialisti, / a quel gobbo mafioso e menagramo». «Mafioso» mi è stato censurato, hanno messo nove puntini. La verità è che ce l’ho sempre con qualcuno, fin dai tempi di Medicamenta… perché nella realtà c’è sempre qualcosa che vorrei cambiare, che vorrei migliore…

Nel testo La fucina del gran fabbro, al quale è consegnato il ruolo di prefazione al volume, Giovanni Raboni parla di «vasta, multiforme, apparentemente babelica opera di Pound». L’aggettivo «babelica» ci costringe a riflettere anche e soprattutto sull’impasto linguistico che informa l’opera poundiana, del quale partecipano anche diversi neologismi che Lei ha saputo rendere con solerzia. Ad esempio trim-coifed, che compare nei primi versi del primo canto è da lei reso con «brevichiomata», aggettivo di derivazione pascoliana. Oppure ricordiamo nothingness, nel secondo canto, tradotto con «nientezza», e heathery, volto con «brugoso». Anche nella sua produzione i neologismi non mancano: ne sia prova l’avverbio «morentemente» (Requiem, XIII) o il sostantivo «moribilità…  / se esistesse questa bella parola» (Cento quartine, XXIV). Che valore ha per lei – come poetessa e come traduttrice – il lavorare sul lessico anche in maniera «espressionistica»?

Beh, con solerzia… E con che cosa avrei reso allora sunless e joyless?… «Brevichiomata» è proprio di Pascoli; nothingness non è un neologismo, ma non ha un equivalente italiano soddisfacente: «nientezza» credevo che non esistesse, e invece c’è nel Dizionario Utet, con una sola citazione, da Antonio Genovesi. Sì, ho inventato «brugoso», e anche «tictaccare» (che proprio una vera invenzione non è, se Montale ha usato «tictaccante»), e «s.ciarlare», e «impètala». Sono molto fiera, invece, perché mi ha dato una grande gioia, di «a bianco-circondarla» per white-gathered about her. Nei miei versi, se ho inventato qualche parola, è stato per necessità: «dissorte» in Medicamenta e in poi anche in Corsia degli incurabili; «strafottìo» in Quartine Seconda centuria; «malgiorni» e «malmesi» in Belluno

La ringraziamo sentitamente e Le chiediamo di salutarci con qualche Suo verso.

Di nuovi non ne ho neanche uno. Magari qualche verso dal Macbeth? Lì dove sembra prendersi gioco di alcuni versi famosi di Sidney. Io ho preso dei versi famosi di Casa. E ho dovuto fare un verso e mezzo in più.

Methought I heard a voice cry, “Sleep no more!
Macbeth does murder sleep” – the innocent sleep,
sleep that knits up the ravelled sleave of care,
the death of each day’s life, sore labour’s bath,
balm of hurt minds, great nature’s second course,
chief nourisher in life’s feast.

E mi sembrò che una voce gridasse:
“Non dormir più! Macbèth uccide il sonno” –
il sonno senza colpa che rammenda
le filacce arruffate dell’affanno,
conforto dei mortali, oblio dei mali,
dolce dono della grande natura
che più nutre al convito della vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

L'autore

Daniele Ceccarani
Si è laureato in Lettere Classiche (tesi in Filologia latina) presso l’Università di Perugia, dove è attualmente iscritto al corso di studi magistrale. Si interessa di teoria della traduzione dalle lingue antiche e moderne.