Interventi

I «folli amanti»: Dante, Pasolini, e Moccia

L’immagine di copertina è di Enrico Pulsoni

Questa mia lettura, intorno al tema del «folle amore», condotta «a rete», tra alcune opere della nostra tradizione letteraria, da Dante, a Moccia, passando per Pasolini (e per Salvatores), è una ipotesi di ricerca, ma anche un’offerta didattica. Una «costellazione» letteraria, dunque, che può espandersi ulteriormente, coinvolgendo (almeno) altri due testi: Le mura di Gerico, di Alda Merini, e Ti regalerò una rosa, di Simone Cristicchi. Il lungo episodio, nel secondo cerchio dell’Inferno dantesco, tra i «peccator carnali» (v. 38), con il racconto dell’incontro tra Dante e due di questi dannati, Paolo Malatesta e Francesca da Polenta (ai vv. 73-142), è tra quelli più noti e ri-scritti dell’intero poema. In questo lungo solco di ri-scritture dantesche, relative al canto V, colloco, dunque, il romanzo di Federico Moccia, Tre metri sopra il cielo.

I «folli amanti» di Moccia

Uscito in prima edizione (auto-prodotta) nel 1992, con un piccolo editore, il romanzo Tre metri sopra il cielo di Federico Moccia fu rilanciato nel 2004 da Feltrinelli, con un successo strepitoso. Tre metri sopra il cielo racconta la storia d’amore (impossibile) tra Step (Stefano Mancini), ragazzo violento e problematico, e Babi (Fabrizia Gervasi), ragazza dell’alta borghesia romana, studentessa snob, che, però, resta affascinata proprio dai modi spicci e violenti di questo teppistello di borgata. Un successo editoriale che, a distanza di quasi vent’anni dall’edizione Feltrinelli, e di poco più di trent’anni dalla prima edizione auto-prodotta (1992), per molti versi, dura ancora. Nel 2006, uscì il sequel del romanzo, Ho voglia di te; poi, nel 2017, a chiudere idealmente la trilogia, Moccia diede alle stampe Tre volte te.

Il primo romanzo di questo ciclo, Tre metri sopra il cielo, racconta, dunque, la storia di un “folle” innamoramento, tra due giovani dell’alta borghesia romana, zona nord di Roma, ambientata nei primi anni Ottanta, del secolo scorso: Babi Gervasi, studentessa presso una scuola privata, l’Istituto «Santa Giuliana Falconieri», ragazza bella e altezzosa; e Step, cioè, Stefano Mancini, giovanotto scontroso e problematico, che, dopo la separazione dei suoi, comincia a frequentare cattive compagnie. A livello critico, come proposta di lettura, considero questo romanzo di Moccia, per alcuni suoi aspetti strutturali, una ri-scrittura di due scene della Commedia, l’una infernale, i lussuriosi travolti dal vento, che mai non resta, del quinto canto; l’altra, celestiale, i folli amanti del terzo cielo (quelli che Dante colloca, appunto, tre metri sopra il cielo), nei canti VIII e IX del Paradiso. Dunque, ri-scrittura post-moderna di due scene della Commedia, celeberrima la prima, meno nota la seconda, con Cunizza Romano, Folco da Marsiglia (noto anche come Folchetto), e Raab, luminosissime stelle del terzo cielo, il cielo di Venere.

L’amore tra Step e Babi è un amore forte, carico di difficoltà. Babi, infatti, si farà trascinare in questo amore impossibile, colpa anche del «vento», che la colpisce e che la avvolge, allorquando si sistema sul sellino della motocicletta di Step, per seguirlo nel suo mondo pericoloso, senza alcuna regola, fatto di gare clandestine di motociclette, di soldi facili, di risse, e di tante altre cosucce. La loro storia d’amore finirà, e finirà in malo modo, con una morte. Non rivelo, qui, ovviamente, tutta la trama del romanzo, così, chi non lo avesse ancora letto, potrebbe sentirsi invitato a farlo. Il «vento» è parola concetto, sia in Dante, per i due «peccator carnali», sia in Moccia, per la scena del primo passaggio in moto, offerto da Step a Babi, con i due ragazzi che, anche in questo caso, abbracciati, «insieme vanno»:

La moto parte veloce, con rabbia, scattando in avanti. Babi istintivamente lo abbraccia. Le sue mani finiscono, senza volerlo, sotto il giubbotto. La sua pelle è fresca, il suo corpo caldo nel freddo della notte. Babi sente scivolare sotto le sue dita muscoli ben delineati. Si alternano perfetti a ogni suo più piccolo movimento. Il vento le scorre lungo le guance, i capelli bagnati ondeggiano nell’aria. La moto si piega, lei lo abbraccia più stretta e chiude gli occhi. Il cuore comincia a batterle forte […], gira la faccia e posa la guancia sulla sua schiena, sempre senza guardare, lasciandosi cullare da quel salire e scendere, da quel rumore potente che sente sotto di lei [Tre metri sopra il cielo, Feltrinelli 2004, p. 62]

Farei notare anche altre somiglianze, tra questa pagina di Moccia e il testo di Dante, come, per esempio, il dettaglio che il movimento della moto costringa i due giovani (amanti) ad abbracciarsi maggiormente (sballottolati esattamente come le anime infernali dantesche dei lussuriosi). Inoltre, l’espressione «salire e scendere» dei due ragazzi («di qua, di là, di giù, di su li mena», v. 43), sulla moto, lanciata a velocità folle, nel «vento» della notte; il buio (un «loco», anche questo, descritto da Moccia, «d’ogne luce muto», v. 28), caratterizza entrambe le scene. Dante, rivolgendosi a Virgilio, per definire l’ambientazione di quei dannati, «quelle / genti», utilizzerà proprio l’espressione «aura nera», v. 51. In abbinamento con il vocabolo «vento», anche Moccia, come già aveva fatto Dante (v. 79), utilizza «piega». In Dante, il vocabolo «vento» compare già nel verso 30 del canto, nel buio pesto («loco d’ogne luce muto»), per poi essere ripetuto altre volte, fino a diventare parola-chiave dell’intero episodio:

La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta. [vv. 31-3]
[…]
I’ cominciai: «Poeta, volentieri
Parlerei a quei due che ‘nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggeri»
[…]
Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce […]
(vv. 73-5 e 79-80)

La ri-scrittura di Moccia non si limita soltanto a questo aspetto, come dire, mimetico del celeberrimo episodio di Paolo e Francesca (la cui passione è rappresentata attraverso la forza del «vento»), no. Anzi, già dal titolo del romanzo, Tre metri sopra il cielo, egli evoca e rilancia il terzo cielo del Paradiso dantesco, che è, com’è noto, il cielo di Venere, quello degli spiriti amanti. A questi beati Dante dedica due canti del Paradiso, e precisamente, l’ottavo e il nono. Proprio nel secondo verso del canto VIII, questi spiriti vengono definiti come «folli» amanti. Cosa sono Step e Babi, se non due «folli» amanti? L’espressione dantesca «folle amore», presente al v. 2 del canto VIII, con la collocazione, tra i santi, di Cunizza, Folco e Raab, spiazzò i lettori del suo tempo, e spiazza ancora oggi, per alcune scelte «folli», visto che Dante sistema tra i beati di questo terzo cielo ben tre personaggi che, in vita, si erano fatti notare per il rispettivo abbandono sfrenato e gioioso all’amore sensuale.

I «folli amanti» di Salvatores

Ambientato a Trieste, il film di Gabriele Salvatores, Tutto il mio folle amore (2019), racconta di Vincent, un ragazzo affetto da una forma di autismo, e da un disturbo della personalità, che vive chiuso in un mondo tutto suo, in compagnia di sua madre, Elena, e di Mario, il compagno di Elena, che lo tratta amorevolmente. L’equilibrio familiare viene rotto dall’arrivo di Willi, il padre naturale di Vincent, cantante ambulante (e squattrinato), con la passione per Domenico Modugno, del quale ripropone il repertorio, tra cui, appunto, la canzone Tutto il mio folle amore. Willi aveva abbandonato Elena proprio quando aveva appreso della sua gravidanza. Il piccolo Vincent, che vede per la prima volta suo padre, resta affascinato da Willi (e dalla sua vita raminga). Per il titolo di questo (bel) film di Salvatores, Tutto il mio folle amore, è stato sottolineato il debito nei confronti di Pasolini, esattamente, per l’episodio Cosa sono le nuvole (con Totò, Ninetto Davoli, Ciccio Ingrassia, Franco Franchi, Laura Betti, Domenico Modugno e Carlo Pisacane), inserito nel film a più mani Capriccio all’italiana (girato nel 1967, ma distribuito nel 1968). Nell’episodio pasoliniano, il giovane Domenico Modugno canta Tutto il mio folle amore, il cui testo era stato scritto dallo stesso Pier Paolo Pasolini, con il riuso dell’espressione dantesca «il folle amore» (Pd, VIII, 2). La letteratura, si sa, è un gioco di specchi, e di rimandi, di citazioni, che, a volte, sono esplicite, altre volte, invece, implicite, dissimulate. Tra la prima metà degli anni Sessanta, e i primissimi anni Settanta del secolo scorso, Pasolini era stato impegnato, alla maniera sua, onnivora, in una turbinosa lettura del poema dantesco, che lo aveva portato a scrivere, in forma di frammento non finito, la Divina Mimesis (pubblicata postuma nel 1975).

Come ho già chiarito, l’espressione dantesca «folle amore» è nel canto VIII del Paradiso, in uno dei due canti dedicati al cielo di Venere, il terzo cielo. In ordine di apparizione, i tre rappresentanti danteschi del «folle amore», sono, rispettivamente, Cunizza da Romano, Folco da Marsiglia, e Raab. I primi due, Cunizza e Folco, furono vicini cronologicamente a Dante. Il terzo, Raab, è la prostituta di cui narra la Bibbia, che aiutò Giosuè a conquistare l’altrimenti inespugnabile città di Gerico. Di lei, Dante scrive che, in quel cielo di Venere, «si sigilla» in «sommo grado» (Pd. IX, 117). Per parte sua, Cunizza aveva appena pronunciato versi solenni, di auto-assoluzione, tra i più memorabili della Divina Commedia (32-5):

Cunizza fui chiamata, e qui refulgo
perché mi vinse il lume d’esta stella;
ma lietamente a me medesma indulgo
la cagione di mia sorte […]

Folco da Marsiglia (o Folchetto), autore di componimenti d’amore in gioventù, chiarisce a Dante, che, in quel terzo cielo, nessuno dei beati soffre per ciò che ha commesso in vita, anzi, ne gode (ride), perché, sempre a suo dire, la sfrenata inclinazione all’amore sensuale era stata voluta e determinata dall’influsso di quel cielo:

Non però qui si pente, ma si ride,
non de la colpa, ch’a mente non torna,
ma del valor ch’ordinò e provide (103-05)

Con parole simili, Cunizza aveva espresso, poco prima, lo stesso giudizio di auto-assoluzione:

perché mi vinse il lume d’esta stella (33)

Di Raab, prostituta e meretrice, Dante scrive parole luminose, già nella presentazione, facendole pronunciare a Folco (112-16):

Tu vuo’ saper chi è in questa lumera
che qui appresso me così scintilla
come raggio di sole in acqua mera.
Or sappi che là entro si tranquilla
Raab […]

In soli tre versi, come si nota, ricorrono vocaboli legati alla sfera semantica della luce: «lumera – scintilla – raggio – sole».

I «folli amanti» di Merini e di Cristicchi

Ho conosciuto Gerico,
ho avuto anch’io la mia Palestina,
le mura del manicomio
erano le mura di Gerico
e una pozza di acqua infettata
ci ha battezzati tutti.
[…]

Fummo lavati e sepolti,
odoravamo di incenso.
E dopo, quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno […].
[da La terra santa, Scheiwiller 1984]

Gli anni tra il 1965 e il 1979, Alda Merini (1931-2009) li trascorse entrando e uscendo dall’ospedale psichiatrico «Paolo Pini» di Milano. Il manicomio, come lei scriveva, fu anche il luogo nel quale la sua poesia si risvegliò, dopo anni di silenzio, ma con una voce nuova, diversa dalle precedenti (l’ultima sua opera risaliva al 1962). L’ospedale psichiatrico diventava metafora del viaggio compiuto dagli ebrei, per raggiungere la Terra Promessa. Un percorso che avrebbe condotto quel popolo eletto dall’inferno dell’esilio, al paradiso dell’approdo nella casa promessa. Agli occhi di Alda Merini, però, non fu (mai) così. Per lei, infatti, il Paradiso del fuori, il Paradiso del mondo esterno al manicomio, era il suo vero Inferno. Fin qui, nulla di nuovo, nella lettura e nella interpretazione di questo testo (notissimo) di Alda Merini. Quella che ho appena sintetizzato è, in effetti, la lettura corrente di questa poesia (e dell’intera raccolta dalla quale è tratta). In realtà, per comprendere meglio il messaggio di questa poesia, a mio giudizio, andrebbe preso a modello, direi a fonte, l’episodio dantesco della meretrice Raab, nel canto IX del Paradiso. Raab, infatti, prostituta di Gerico, aiutò Giosuè a conquistare l’inespugnabile città, ospitando in casa sua due emissari di Giosuè, che prepararono l’assalto decisivo alle mura altrimenti inaccessibili di Gerico, con il concorso attivo di Raab. Finito l’assedio, Raab abbandonò la città distrutta, e seguì gli ebrei, ben accolta dal Popolo di Israele. Ritengo che questa poesia di Alda Merini debba essere letta avendo a mente proprio l’episodio dantesco del cielo di Venere, per comprenderla fino in fondo, nella sua «folle» oscillazione tra Inferno (la dannazione) e Paradiso (la salvazione), e per i suoi continui riferimenti all’amore, cioè, al diritto ad amare rivendicato, dalla Merini, anche per i pazienti reclusi nel manicomio, con la conseguente, dolente, sottolineatura della condanna perbenista del «folle amore»:

E dopo, quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno […]

I rinvii intertestuali tra i due testi (quello di Dante e quello della Merini) sono tanti, a cominciare dalla presenza del vocabolo luce, che in Dante è parola chiave:

Tu vuo’ saper chi è in questa lumera
che qui appresso me così scintilla
come raggio di sole in acqua mera.
Or sappi che là entro si tranquilla
Raab […]
(Pd., IX, 112-16)

In Merini, il vocabolo luce compare esplicitamente alla fine della poesia («io patisco la luce»), a sottolineare una perdita, nel passaggio tra l’Inferno (del manicomio) e il Paradiso (del mondo normale), accompagnata dal desiderio paradossale di non voler compiere tale passaggio, che, al contrario, la condurrebbe non già dal buio alla luce, ma dalla luce al buio.

Dante, pur uomo medievale, salva Raab; salva, cioè, il «folle amore», collocandola, in compagnia di Cunizza e di Folchetto, in Paradiso, in quanto spirito luminoso (e felice). Merini, invece, grida il suo dolore, nei confronti del nostro mondo (ipocrita), che, invece, condanna il «folle amore» di chi è nel manicomio:

[…] non sono salita ai cieli
sono discesa all’inferno
da dove riguardo stupita
le mura di Gerico antica […]

Questo è il grido più autentico del testo di Alda Merini, il grido cioè di chi rivendica il diritto al «folle amore»; quello stesso amore che (il medievale) Dante aveva riconosciuto a Raab (e agli altri due), e che, invece, il nostro mondo, pur laico e post-moderno, non riconosce a un malato psichico:

E dopo, quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno […]

Simone Cristicchi, cantautore italiano, con la canzone Ti regalerò una rosa, del 2007 (dall’album Dall’altra parte del cancello), affronta con grande sensibilità il tema della vita e dell’amore negli ospedali psichiatrici. Cristicchi, come già Merini, non ricorre a eufemismi borghesi e distanzianti, del tipo «ospedale psichiatrico», ma utilizza il crudo vocabolo manicomio:

Ti regalerò una rosa
Una rosa rossa per dipingere ogni cosa
Una rosa per ogni tua lacrima da consolare
E una rosa per poterti amare
Ti regalerò una rosa
Una rosa bianca come fossi la mia sposa
Una rosa bianca che ti serva per dimenticare
Ogni piccolo dolore

Mi chiamo Antonio e sono matto
Sono nato nel ’54 e vivo qui da quando ero bambino
Credevo di parlare col demonio
Così mi hanno chiuso quarant’anni dentro a un manicomio
Ti scrivo questa lettera perché non so parlare […].

trifone.gargano@uniba.it

Bibliografia (minima) di riferimento
La Porta Filippo, Pasolini, il Mulino, Bologna 2012
Moccia Federico, Tre metri sopra il cielo, Feltrinelli, Milano 2005
Gargano Trifone, PPP. Pasolini Prima di Pasolini, Edizioni Radici Future, Bari 2022

 

L'autore

Trifone Gargano
Trifone Gargano
Trifone Gargano è professore presso l’Università degli Studi di Bari, con l’insegnamento «Lo Sport nella Letteratura» (Corso di Studio SAMS). Ha insegnato «Didattica della lingua italiana» per l’Università di Foggia, e «Storia della lingua italiana» presso l’Università di Stettino (Polonia). Docente al liceo «don Milani» di Acquaviva delle Fonti (Ba), è autore di numerose pubblicazioni e collabora con la Enciclopedia Treccani.

Con gli Editori Laterza, ha pubblicato Virtute e c@noscenza. Antologia della Commedia di Dante (2010), e il manuale di storia della letteratura italiana Costellazioni letterarie (2012). Con Progedit: La letteratur@ al tempo di Facebook (20162); Geo-Storia della lingua italiana (2016); Dante. La Commedia divina (2017); I come italiano (2017); Infinito pop (2019); Dante pop e rock (2021); La Divina Commedia, edizione integrale, con parafrasi (2021). Con le Edizioni del Rosone: La Divina Commedia di Dante stickers (2017); A scuola (non) si legge (2017); A scuola con Collodi stickers (2018); Dante & Harry Potter (2018); Avanguardie educative e Didattiche della letteratura (2019); Odio Petrarca (e anche Manzoni e tutti gli indifferenti), 2020; Raccontami Gianni Rodari (2020). Con Les Flâneurs Edizioni: L’amoroso canto. Disegni di parole e canzoni (2019). Con Cacucci, Letteratura e Sport (2021).