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“La forma detenuta”, distillato d’azzurro

Certi giorni sono come un’epifania, hanno un che di serendipità, quel fenomeno bellissimo che si presenta quando stai cercando qualcosa e trovi improvvisamente altro. Succede in un giorno di primavera, il primo in realtà, il 21 di marzo, solitamente trascorso nella ricerca spasmodica di celebrare il potere catartico e la bellezza della poesia nel mese più instabile dell’anno, quando si è colti dalla voglia di verseggiare in rime, consonanze e assonanze, un poeta prediletto. Un’illuminazione. E subito dopo sentirsi inondati da una sensazione di contentezza per aver trovato un lessico familiare, le parole esatte per esprimere il qui e ora, l’istante pieno di significato. Ed è come rileggere la vita con occhi altrui, saggiarne con gusto le profondità del cuore, compiere un viaggio dal quale, alle volte, emerge una particolare effervescenza redolente, verde e cristallina; un viaggio che spesso risulta essere un’immersione negli abissi dell’anima, dalle note calde, pungenti e rigeneranti affiorate da certe ruvidità macerate nel fondo. Eppure, l’indefinito abita la certitudine nel suo etimo, un valore talora incerto e indeterminato quanto accrescitivo, quando si ha una certa fame di poesia.

Vatti a fidare delle parole!

Proprio mentre mi accingo a esplorare gli angoli della mia libreria al riparo dalla luce del sole, mi rimbalza in testa una frase letta in un libro di Magris «la parola esatta ferisce». Una parola esatta – nuda, scarna, minuta – ferisce. Perché si scrive, allora? Forse per trattenere qualcosa o far rivivere qualcuno, benché per un’istante, per il dettaglio di un volto, una certa inclinazione della luce, per rammentare uno sguardo feroce sul ciglio di una strada o trattenere l’odore di un fazzoletto imbevuto di colonia mentre lo si sfila della tasca di un vestito, usanza non molto in voga di questi tempi. È curioso ricordare agli allergici delle ricorrenze e a certuni anosmici non avvezzi all’arte della profumeria che la giornata mondiale della poesia coincide con la prima giornata della bella stagione, la stessa dedicata anche al profumo. È in primavera che i fiori hanno un aroma più intenso e al mattino; man mano che si avvicina il mezzogiorno, esso si attenua. Eppure, di breve durata sono i profumi a base di fiori, spiegava Teofrasto parlando degli odori, al contrario di quelli a base di radici: di lunga durata e qualche mal di testa tra le controindicazioni.

Tra poesie e profumi vi è una stretta correlazione. Conservano la mente sveglia, talvolta sono un forte stimolante, capaci di risvegliare dal torpore invernale. Entrambi, libro e profumo, possiedono proprietà terapeutiche, regole di composizione e simili caratteristiche – volatilità, persistenza, densità. L’atteggiamento del poeta, il suo modo creativo di porsi, è lo stesso del profumiere di oggi, non molto diverso da quello degli alchimisti di un tempo, sebbene nella profumeria moderna esistano norme precise che stabiliscono quali sostanze il creatore di fragranze può usare e in che misura, limitando la tavolozza di odori di cui disporre. Come ogni creazione odorosa, la poesia è un distillato, una composizione elaborata con sottile ponderazione di vari ingredienti di natura differente e in diversa proporzione, misture cangianti e in parte sfuggenti, come tutto ciò che proviene dalla natura.

C’è chi afferma che una goccia di essenza profumata può racchiudere l’intera storia del XX secolo. Per essere precisi, in due flaconi: il leggendario Krasnaja Moskva (Mosca Rossa), le cui origini risalirebbero al dipinto cubofuturista «Astuccio di profumo» di Kazimir Malevich, e il N°5, la fragranza più femminile e moderna di Coco Chanel; «un profumo per donne, dall’odore di donna».

La freschezza del mare artico unita al lindore di bucato steso al sole e alla sensazione di pelle tiepida del N°5, quel qualcosa di elaborato che ti resta addosso, in un perfetto connubio di contrasti – purezza e seduzione –  mi riportano alla mente La forma detenuta (edizioni le farfalle, 2018) di Cettina Caliò, in un’associazione sinestetica e paritetica delle iniziali dei nomi.

consolo le mie mani / tenendoti il viso / e conto le sillabe / di questo scorcio fragile / che appassiona le ore

I versi della quarta di copertina condensano la raccolta poetica della poetessa nata a Catania, che figura con i suoi testi su varie riviste e antologie letterarie. Questo libretto, il quinto, che segue Poesie (Ibiscos 1995), L’affanno dei verbi servili (Bastogi 2005), Tra il condizionale e l’indicativo (Ennepilibri 2007), Sulla cruda pelle (Forme Libere 2012), strizza l’occhio al quinto volume proustiano (La prigioniera) e ne riprende i temi: la gelosia, oltre alla memoria e il tempo (perduto?). Si apre con una «realtà» detenuta, racchiusa tra virgolette, come Nabokov invita a scrivere. In scena, illuminando il sipario alla luce di un tramonto sul mare, Penelope e Ulisse: aperto si offre l’uscio / racchiusa nell’occhio / bianco di un neon / Penelope recita Ulisse.

La regina – incarnazione di bellezza, finezza e fedeltà – era l’ideale di donna nel mondo omerico, un vero e proprio modello di compostezza, virtù e onestà. Tesseva la sua tela per consolare le sue mani e aspettava l’amato, appassionando le ore smisurate. Cettina Caliò riprende i fili dell’ultima parte della sua silloge poetica e trama l’attesa consumata nella compassione, riparandosi nei paesaggi angusti dei versi. Sospesa a un filo è la vita, così come il destino di ognuno può di-pendere da altre vite, eventi, lacci e redini, la cui minima oscillazione delle mani guida verso una rotta a senso unico o piega il capo verso il recinto in cerca della libertà.

Cettina / Penelope, alter ego di Odisseo / Ulisse, ri-conosce la «realtà», vi trova il «polso» e ne segue la traccia fino in fondo, senza perderla o lasciarsi distrarre dalla melodia. La trama della distanza ha l’ordito intrecciato, dolente del tormento: curvata nel buio, piegata a una domanda che opprime: ricorda / se morissi domani / mi hai lasciata piuma. Ulisse e Penelope: una coppia sorvegliata tra parentesi tonde, «noi dentro, il mondo fuori», scriverebbe Grossman. E subito il canto squarcia quel «mare ghiacciato che è dentro di noi», con la levità che è di piuma soltanto e la sottigliezza di una lama affilata.

Ci teniamo soli / fino in fondo alla ciotola / a sterminare un lessico scaduto / a perdere/ il conto

La seconda poesia catapulta al centro di un loggiato aperto verso l’esterno, con lo sguardo «in scurto» verso l’oculo di una novella camera «dipinta»: uno scorcio prospettico che sfonda le pareti dipingendole con le parole. La Caliò scolpisce le definizioni trascinando l’occhio di chi legge al centro della scena. Sullo sfondo azzurro di mute rimanenze, in quella curva sghemba della volta profonda, quasi sferica, secondo una prospettiva da «sott’in su», si scorge una dama incline al vuoto nell’oculo aperto. L’istante di un tuono svela una nuvola che nasconde un profilo umano, ridente e sospeso. In quello scorcio, tra silenzio e suono, sudore e rumore, si completa il giorno e una vita sola: nessuno squarcio / solo un incerto sconfinare / di luce / e un periodare tondo / picchia la sera / nelle stanze vuote / e l’anima sola restituisce / gli angoli. (Vite intere)

Con raffinatezza colta, ripristina il contatto fra quotidiano e assoluto, riconduce a una smarrita pienezza di pensiero e restituisce gesti scomparsi. Servendosi di leggerezza mentale e ironia lieve misura, pesa, analizza, cerca la parola e la metafora insolita per dipingere la prima sezione, «La forma detenuta»: un mondo dietro cui si nascondono altri mondi possibili. Uno sguardo lungo che spazia sulla realtà e sosta in un profilo sconsolato, rinnova un sentire largo che muove da un piano sequenza e dettagli quotidiani, riflette sulla misura adeguata e incatenata a una serie di domande semplici e complesse, un affollarsi di consonanti dal suono duro, secco e sottile: rivedo antica e senza più mistero / la ruga a dividere la tua fronte / ostinata nella sua durata abissale (Dove grido). Nel tratto elegante / della mano che racconta / giorni di pelle stretta (La perfezione del cerchio) è racchiuso il senso della perfezione e della bellezza che è anche grazia di crederti / nave di ritorno / perduto (Imprinting). Una «realtà» che è anche smarrimento di fronte a un gravare confuso / che azzera ogni fede (Omissioni e peso netto), che fa fatica a trovare la voglia di arrotondare il vuoto (Il volo di una mosca).

Alla tessitura dell’essere nella prima sezione s’intreccia, nella seconda, il fascino del singolo, del particolare: «Lo strappo che rimane». Nella voce di una campana lenta e fra un rintocco e l’altro (Voi siete qui) è racchiuso il tormento di ultime volte e quel nostro modo di pensarci a caso (Quel nostro modo), nella fissità esigua / di pensieri quadrati (Siamo stati aperti) ogni cosa lasceremo spiegata (Fine a noi stessi). Siamo tempo piegato / in un cassetto / tempo che disteso conserva / il segno antico della piega (Unità di misura). Un tempo poetico che ha memoria lunga e segue l’infinito come in Primavera in ere e are, e la vita è sempre dove non stiamo / guardando / fra l’ultimo bottone e la maniglia: un immagine che volge lo sguardo altrove, verso un minuscolo chiavistello tanto caro a Fragonard, e guardare la bellezza / come fa quando si schianta (Scollature), nel sospiro che rapprende il giorno (C’era così tanto da incontrarci); eppure / dal punto di vista del grano / il cielo è ancora azzurro (L’estensione di poco).

«Lo stupore ci tiene» è il titolo della terza e ultima sezione breve. In un cosmo così piccolo – da stare tra due mani -, divenuto grande e difficile, vi è un esistere «a tempo» e una vita a orario fisso; tuttavia, per descriverla basta un sorriso. E il cielo / mi spiega il cammino / nella nuvola che piano passa / e muta / forma (Ogni niente si accalca). Un tempo di giorni fragili che la memoria aiuta a rivedere in una trasparenza da inizio / quella volta che era estate (Un’indolenza da sala d’attesa). Per un istante, esplode verde la vita (In questa immobilità di pietra): uno stupore che è un tentativo di mettere ordine nel caos, nell’entroterra dell’anima (Ti tengo), uno sforzo per nominare l’odore che resta / del vento (Ci sarà tempo), per riconoscere la sera, in due sillabe di fiato (Sei caduto nel mio vento), per sapere il bene che fa tutto questo cielo che ti viene addosso (Tutta questa vita). Lo stupore tiene uniti e in esso si riconosce l’essenza, l’ampio respiro. In questo torpore malinconico affiora un certo rimpianto, evocato attraverso una lingua intima, schietta e genuina; una nostalgia silenziosa che, sfilacciandosi in parole, nomina le cose e i ritmi di una vita. Espressioni incise su carta, attimi fissati e colti a tempo nel grande fiume del divenire dell’universo che rivela un sentimento costante, forte come una roccia.

La poesia di Cettina Caliò è un tuffo nel profondo azzurro. Un dono che porta con sé un distillato acquatico dal cuore antico, decanta ricordi soleggiati dal sapore marino e si apre al dialogo. La sua capacità di vivere l’attimo, ogni attimo, senza immolarlo al futuro, e non un momento da far passare presto per raggiungere qualcos’altro, la conduce a conservare il candore del verso perfetto; vale a dire la bellezza – tratto distintivo della sua intera poetica – della parola piana. Siamo e sentiamo di essere parte di un’isola o continente solo nel momento del dire la parola esatta, quella che ferisce, ma è dal colpo inferto e meditato che emerge la quarta dimensione. Una cura costante verso la materia, la sintesi, nel desiderio appassionato di fermare, e salvare, col suo stile inconfondibile, le ore preziose e soprattutto i volti amati dall’alterazione nel tempo, dalla scomparsa. Nel suo modo di dialogare consiste il senso dell’esistenza e l’unicità di un sapere d’amore che esalta tutti gli ingredienti, in cui nulla svanisce. L’invisibile che resta addosso, in un eterno presente.

ermira81@virgilio.it

 

L'autore

Ermira Shurdha
Ermira Shurdha
Ermira Shurdha è nata in Albania nel 1981. Si è trasferita nel 1993 in Italia appena adolescente. Oggi vive con la sua famiglia in Abruzzo, regione eletta per crescere le sue due figlie. Dopo una formazione scientifica si è dedicata alla sua vera passione, le lingue straniere, laureandosi all’Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti - Pescara con una tesi sull’opera teatrale di Antonio Buero Vallejo. Nel 2017 ha conseguito una laurea magistrale con una tesi dal titolo “Últimas tardes con Teresa, més que una història”, romanzo eversivo ambientato nella Barcellona degli anni cinquanta di Juan Marsé, Premio Cervantes nel 2008 e prolifico scrittore di testi in castigliano. Ha analizzato l’opera data alle stampe nel 1965, all’interno del contesto storico - culturale catalano, con particolare attenzione al linguaggio musicale e cinematografico, associazioni con la poetica neorealista felliniana, accordando la critica in lingua spagnola, catalana e inglese alla cronaca degli amanti in sottofondo. Sempre attratta dalle tendenze creative del mondo della moda, attualmente gestisce una boutique di abbigliamento fondata nel 1991 a Giulianova.