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Marciando per la pace. Dialogo con Giuseppe Moscati

Giuseppe Moscati, dottore di ricerca in Filosofia, è formatore su pace, disarmo e cooperazione internazionale. Già vicepresidente della Ass. Naz. Amici di Aldo Capitini, è presidente della Fondazione Centro studi Aldo Capitini. Responsabile della Biblioteca Neoumanistica della Fondazione Cucinelli di Solomeo, scrive per varie testate e riviste culturali, tra le quali “Rocca” (1941). Ha curato, tra gli altri volumi, Aldo Capitini nella coscienza delle giovani generazioni (2009), il carteggio A. Capitini – G. Calogero, Lettere 1936-1968 (con Th. Casadei, 2009) e il Dossier Aldo Capitini. Sorvegliato speciale dalla polizia (con A. Maori, 2014). Tra i suoi libri: Sandro Penna e Vittorio Bodini. Tracce di una compresenza poetica (2010), Etos del sacrificio, passione per il mondo e filosofia d’occasione. La critica della violenza in K. Jaspers, H. Arendt e G. Anders (2010), R come responsabilità (2012), Etica e Politica. Prove di dialogo sulla democrazia (con P. Protopapa, 2018), La lumaca Maggiolina. Fiaba per i piccoli, ma anche un po’ per i cosiddetti grandi (2018), Questioni meridionali. Intervista politico-filosofica sul Mezzogiorno. Re-inventare il Sud (con P. Protopapa e A. Stomeo, 2021) e In bocca al gufo. Racconti (brevi e brevissimi) e qualche haiku (2022).

 Nella tua premessa a questa edizione di In cammino per la pace (SilvanaEditoriale 2023) citi quanto scriveva Capitini introducendo la princeps del 1962: «Una ‘marcia’ non è fine a se stessa; continua negli animi, produce onde che vanno lontano, fa sorgere problemi, orientamenti, attività». A distanza di più di 60 anni dalla prima Perugia-Assisi, come definiresti oggi questa Marcia, anche alla luce delle polemiche che hanno accompagnato l’edizione 2022?

La Marcia di oggi non è e non può essere la Marcia del 24 settembre 1961, ma questa è una banalità. Il fatto sostanziale credo sia che non sono solo questi sessant’anni e più a fare la differenza, ma anche e forse soprattutto una differente tensione etico-politica.

Aldo Capitini, che questa straordinaria manifestazione popolare l’andava preparando da diversi anni, aveva piena consapevolezza che la pace è un orizzonte che non può fare a meno di un lavoro quotidiano, dal basso, ispirato alla più autentica persuasione nonviolenta. E questa pace così intesa egli l’aveva pensata come uno dei due corni fondamentali della questione prioritaria per l’umanità: l’altro corno, la fratellanza tra i popoli.

La Marcia odierna, come del resto pure quella che si esprimerà nella prossima edizione e in quelle a seguire, è la Marcia determinata e definita dalle scelte – anche comunicative – che avrà fatto. Poi, che tanti contemporanei sentano il bisogno di marciare ancora per la pace è senz’altro un indice positivo e, d’altra parte, se come ha notato il suo ideatore la Prima Marcia «ne ha cominciate tante altre, per isolare i nuclei militaristici e reazionari» (In cammino per la pace, p. 45), siamo tutti chiamati a non disperdere una così preziosa eredità.

In realtà anche la prima Marcia non è stata esente da polemiche. Basta ricordare gli articoli usciti sulla stampa, nei quali si accusava la monopolizzazione della marcia da parte dei comunisti. Pur considerando fondamentale la «salvaguardia della pace come uno dei cardini della sua attività politica» la Democrazia Cristiana non vi aderì, anche se un suo esponente di spicco come Giorgio La Pira inviò agli organizzatori un telegramma di felicitazioni. Come si spiegano queste oscillazioni nell’Italia del periodo?

Le polemiche che accompagnarono la Marcia ideata e realizzata da Capitini sono state sostanzialmente polemiche di tipo ideologico-partitico: proprio da parte della Democrazia Cristiana giungevano le critiche più accese per la presenza, alla Marcia, dei comunisti e anzi egli veniva accusato di essersi fatto strumentalizzare dal Partito Comunista (a sua volta “spinto” dall’Unione Sovietica). L’edizione del 6 ottobre 1961 di “Il Popolo” maldestramente ironizzava su una “spettacolare iniziativa” tradottasi in “una gita domenicale in macchina” di personalità e rappresentanze politiche, mentre il giorno stesso della Marcia su “Il Tempo” si leggeva di “una specie di gara podistica” (cfr. In cammino per la pace, rispettivamente, pp. 97 e 151) e così via.

La Pira invece, da uomo di pace e lucido intellettuale qual era – prima ancora che capace politico –, aveva ben compreso come Capitini desiderasse una partecipazione il più trasversale possibile, con anche socialisti, liberali, repubblicani e ogni altra forza politica democratica. Oltretutto va ricordato che il telegramma di adesione inviato dal sindaco La Pira a Capitini non si limitava a essere a titolo personale, ma era a nome della giunta di centro-sinistra che allora amministrava Firenze.

Chi non aderì alla Perugia-Assisi, insomma, non colse la eccezionale opportunità di cooperare a quella bellissima festa popolare che stava nascendo, dove i contadini, una volta indossato il vestito della domenica, si sarebbero tolti il cappello al passaggio di un corteo che percepivano come sacro.

Nel suo ricordo della Marcia, Fausto Amodei menziona la canzone E se la patria chiama, «composta da tutta la gente che ha partecipato alla Marcia, ed è stata raccolta, direi ‘coagulata’ da Franco Fortini». In una intervista rilasciata a Giulio Pantalei, uscita proprio in questa sede, Amodei aggiunge nuovi particolari alla sua partecipazione. Chiedo allo studioso Moscati, quali sono gli aspetti che più ti hanno colpito di questa prima edizione?

Un aspetto per me veramente sorprendente della Prima Marcia l’ho già richiamato prima ed è quello della festa popolare, con tutti i risvolti commoventi di una grande umanità attivamente partecipe e, appunto, festosa. Il che mi pare possa cogliersi particolarmente bene in virtù della ricca presenza di fotografie, svariate delle quali inedite: le 100 immagini pubblicate provengono dagli archivi del Movimento Nonviolento, della Fondazione Centro studi Aldo Capitini, di Aldo Peverini e di Carla Gobetti.

Non a caso uno dei passaggi che preferisco della sezione “Testimonianze” è quello nel quale il grande scrittore Giovanni Arpino così si esprime: «manifestare per la pace, la nonviolenza, la libertà collettiva, non è impegno faticoso, noioso, didattico, ma una gran cosa allegra» (In cammino per la pace, p. 57).

Poi vi sono almeno altri due elementi che mi hanno impressionato e che mi sono tornati in evidenza con il lavoro di co-curatela per questa nuova edizione aggiornata e illustrata condiviso con Gabriele De Veris, Andrea Maori e Mao Valpiana. Intanto vi è l’eccezionale dato numerico: Capitini e la sua assai ristretta cerchia di collaboratori sono riusciti a far lievitare la Marcia sino ai ventimila partecipanti e questo lo hanno fatto non solo non avendo a disposizione gli strumenti di informazione e diffusione di oggi, ma anche senza l’appoggio di tanta parte dei mass media del tempo.

Allo stesso tempo mi ha molto colpito il fatto che Capitini non smetta mai di dedicare energie alla componente pedagogica della propria persuasione nonviolenta: nel suo pensiero, del resto, per l’educazione alla pace è centrale una educazione alla gestione del potere che sia aperta e proceda per libere aggiunte di tutti. Un elemento, questo della ‘educazione aperta’, che è ben presente anche tra le righe della “Mozione del popolo per la pace”, letta da Capitini sul prato della Rocca di Assisi a conclusione della Marcia.

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