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«Fare a gara per tutto. Col lutto»

Di madre nuda (già ambigue la grammatica e la sintassi: un genitivo, un complemento di argomento?) si apre su una doppia, feroce sottrazione familiare, la nudità della Madre e la scomparsa irreparabile del Padre: «Nove anni / e un padre dentro alla bara. / Da allora faccio a gara / per tutto. Col lutto» (Nove anni). Aggredita da questa nudità duplice, che è assenza, strappo, negazione, la poesia di Simona Mancini, misurata in arcate brevi, svetta verso la pointe aguzza del pensiero poetante e al contempo riesce ad applicare il pedale della sordina, della lenizione. Subito la lingua s’intreccia in nodi fonico-semantici, in cui il senso e il suono combattono, furiosi e ben camuffati, quasi invisibili. «Col lutto» è anche «collutto»: fare a pugni con il lutto, lottare con la perdita, la nudità, significa anche venir travolti in una colluttazione con le parole convocate per dire; e poi cadere, rialzarsi.

Performativamente compiono questa atletica dell’anima, questo judo esistenziale anche i versi, resi sghembi da un’energia che li fa spencolare nel vuoto: perdendo l’equilibrio scivolano ognuno nel successivo, spesso si appoggiano su parole “vuote”, come un articolo o una preposizione. Le rime tendono a dislocarsi dall’estremità al centro, creando una stupefazione sonora mentre colluttano con la ricerca di senso, senza riuscire ad appagarsi “trovando dimora” nel “ritorno” del suono. Poche liriche dopo: «Oggi penso a te di rado. Come si bada a / un sasso. / Solo se inciampo e cado» (Inciampo). E poi, da assonanza a rima a paragramma palindromo («ancora aro»): «I maschi li solco sempre in volto. / Ancora aro quel campo che tu hai lasciato / incolto» (Aratro). Nei grafismi si acquatta una visionarietà lampeggiante, insieme d’immagine e di parola: «A Natale accendevamo luci / intermittenti. / Accenti spenti sulle parole da dire» (Natale). Il flatus vocis si spegne, la parola viene messa da parte, sospesa, sempre in attesa: «E a volte si smorza il fiato in gola / come lo stoppino di una candela, / la parola soffocata per prudenza, / l’essenza dal bucato. // Svanisce come il gas, / ché non ho pagato il conto, / come un racconto / se mi addormento prima della fine, / come le rime che non scriverò» (A luce spenta).

In quest’opera inaugurale di Simona Mancini canta e sussurra una voce incrinata, in cui il trauma della perdita infantile ha impresso una ferita difficile da sanare, che riguarda la memoria e l’oblio, la parola e la sua negazione. La colluttazione fra silenzio e voce, parola e scrittura, assume anche la forma dell’aforisma, très petit poème en prose connotato da una lieve sentenziosità in cui risuona l’eco metafisica, ateologica e ironica dell’ultimo Caproni: «Quando voglio sottrarmi, scrivo»; «Scrivo perché non so ardire altro»; «Sto in silenzio per non stancare le parole / da scrivere»; «Non parlo. Scrivo. È il fastidio per / questa voce a farmi poeta»; «Non scrivo di ciò che dico, ma di ciò / che taccio»; «Scrivo per non vivere. In attesa di / morire» (Verbalmente). A specchio, pochi esempi caproniani, che scelgo serpeggianti sul tema dell’esser-ci fra Il muro della terra (1975) e Il franco cacciatore (1982): «EsperienzaTutti i luoghi che ho visto, / che ho visitato / ora so – ne son certo: / non ci sono mai stato»; «RitornoSono tornato là / dove non ero mai stato. / Nulla, da come non fu, è mutato. / Sul tavolo (sull’incerato / a quadretti) ammezzato / ho ritrovato il bicchiere / mai riempito. Tutto / è ancora rimasto quale / mai l’avevo lasciato»; «Biglietto lasciato prima di non andar via – Se non dovessi tornare, / sappiate che non sono mai / partito. / Il mio viaggiare / è stato tutto un restare / qua, dove non fui mai»; «Indicazione – Smettetela di tormentarvi. / Se volete incontrarmi, / cercatemi dove non mi trovo. / Non so indicarvi altro luogo». Risuona, nella poesia di Simona Mancini, quello che definirei un capronismo trascendentale, una battuta di caccia al suono-senso per stanare la parola nuda, che nelle pieghe del paradosso, della negazione, della contraddittorietà aforistica, rinviene la propria originaria nominazione.

L’idea fondamentale nel libro di Simona Mancini, importantissima, è proprio che scrivere poesia coincide con l’atto creativo della nominazione: «Poesia è battesimo: nominare come se / fosse la prima volta». La parola viene afferrata e nominata “per la prima volta”, nella sua nudità, appunto: è la parola stessa, al pari dell’autrice, «di madre nuda», privata della maternità. Lo scioglimento del nodo coinciderà con la nascita di un figlio e di una parola scritta. L’interdizione materna del nome del padre scomparso si rivela la vera, angosciosa e straziante trafittura, che ha coinvolto la vita di chi dice “io”, il suo immaginario, la sua capacità di elaborare il lutto attraverso la nominazione del Nome perduto: «A casa il tuo nome era proibito. / Fingevamo di non averlo mai sentito / dire» (Divieti). Anche qui il ritmo ha una terribile cadenza finale che diviene caduta nel vuoto, nel bianco che apre al puro «dire»: la sospensione crea attesa e sorpresa, e «dire» si trasforma nella nominazione di quel «nome proibito», negazione di una negazione.

In questo luogo della nominazione originaria, che Andrea Zanzotto, dichiarandolo «avverbio», definiva Gnessulògo, e che nelle Confessioni Agostino chiamava locus qui non est locus, la poesia di Simona Mancini trova un momento altissimo di potenziale tangenza, parallelo e del tutto autonomo, con il pensiero svolto da una giovane filosofa, Nicoletta Di Vita, intorno all’inno come «apertura prima al dire», «luogo in cui il linguaggio sembra guardare verso se stesso», «luogo dell’emergere della voce» (Il nome e la voce. Per una filosofia dell’inno, Neri Pozza, Vicenza 2022, pp. 269).

Il libro di Nicoletta Di Vita, di certo fra i più acuti che la filosofia, la storia delle idee e della letteratura abbiano offerto negli ultimi tempi, muove dalla considerazione che «“Inno” è il nome che gli antichi danno al generico, di per sé inafferrabile, darsi del linguaggio poetico; e, a un tempo, esso è il nome di una precisa configurazione che quel linguaggio assume, fino a farsi convenzionale. L’inno contiene cioè in sé una doppiezza che pare essenziale in senso più esteso che non il solo genere innodico: l’ambivalenza tra un nucleo sempre imprendibile e incristallizzabile della parola e la sua necessaria cristallizzazione. Esso è come la soglia, il momento in cui il sostrato comune della parola pronunciata è bloccato, prende forma, si mostra in un eidos visibile»; «L’inno è la figura poetica del momento in cui il linguaggio si confronta con il mondo. È il mito di ogni filosofia (di ogni atto di linguaggio) di coincidere con la cosa che dice. […] In questione è qui non il nome qui e ora, ma la nominazione stessa, cioè il fatto di nominare […]. Non conta come dico il mondo, conta che lo si possa dire». Se Roberta De Monticelli, presentando nel 1990 la sua mirabile versione delle Confessioni di Agostino, per quel libro fondativo dell’Occidente poteva parlare di «una metafisica al vocativo», Nicoletta Di Vita, anche rimeditando il pensiero linguistico di uno dei maestri del Novecento, Émile Benveniste, torna oggi sul «caso vocativo», nel quale i nomi «compaiono, in certo modo, come semplici nomi, come il mero darsi di quel nome, al di là di ogni relazione con i costituenti dell’enunciato proferito. […] Non riuscendo mai a coincidere interamente con un caso, il vocativo sembra agire sul piano dell’atto proferito precisamente nella misura in cui si fa portatore di quello stesso proferimento».

La scrittura di Simona Mancini, voce splendida e nitidissima della nostra poesia, finalmente taglia il nodo gordiano del silenzio e si dispiega fra grido e sussurro. Giacobbe-Poeta ingaggia una lunga, drammatica battaglia con il suo Angelo-Parola, fino alla conquista di un gesto raro, proferire per la prima volta, di un’«apertura prima al dire» capace di donare cura e nutrimento mediante il riscatto di una maternità feconda e di una paternità non più vietata. Così nasce la parola-cura: nel riscatto del Nome del Padre «proibito» che, incastonato come una mosca nell’ambra, ha paralizzato la voce e la scrittura con il Divieto della nominazione comminato dalla Madre. Per applicare alla lirica di Simona Mancini un suggerimento di Nicoletta Di Vita direi che, al pari dell’inno, la sua poesia «chiama le cose alla nominazione», e che «la “cosa” chiamata conta qui non tanto in quanto è quella cosa, ma in quanto essa è nominata, in quanto è chiamata nella lingua»: «puro modo di dire», secondo un verso bellissimo della Mancini.

È a questo livello che Di madre nuda riemerge dall’inabissamento nel titolo, e galleggia come ultima sezione del libro, disambiguando le strutture morfosintattiche e gettando fasci di luce oscura sull’epos della nudità e «del primitivo schianto» (in rima con l’epico «io canto»), il quale infine viene risolto grazie al coraggio di divenire-madre:

Di madre nuda

Di madre nuda,
di prodigiosa madre canto,
sillaba sconosciuta un attimo prima
del primitivo schianto.

Madre svestita di vanto e falso pudore,
madre contenitore, urna di ceneri
infanti, di santi pentiti, di riti

senza mistero, di ciò che è vero e lo so
come so la strada.

Nuda come la terra, la roccia, la spada
da brandire.

Puro modo di dire.

L’afasia imposta dalla Madre intorno all’impronunciabile Nome del Padre scomparso dell’inaugurale Nove anni si scioglie lungo il libro-terapia, che diventa libro-inno, libro-litania, conquista della nominazione poetica del Figlio, espugnazione del ruolo materno da «madre nuda» a madre abitata dal figlio, e dalla parola come figlio. In progressione tre delle ultime liriche, insieme corpose e vocative, generano questo nudo Figlio-Parola infine partorito e lo allontanano da sé, in un rito di liberazione e di iniziazione che crea, insieme con il Figlio, anche la nuova Madre, staccandola dalla Madre nuda dell’origine, da colei che vietava e feriva rendendo la figlia (ora finalmente a sua volta madre) «di madre nuda», cioè “nuda”, “priva di madre”.

In queste poesie filogenesi e ontogenesi si sovrappongono attraverso il riscatto della parola poetica, del vocativo con cui si nomina senza nome. La tragedia individuale riflette quella della stirpe umana, e il mito della gestazione della parola replica quelli con cui si eliminano il Padre e la Madre, ormai fossili pre-istorici, per conquistare un nuovo affratellamento con il Figlio, a cui pure si chiede di «smettere di essermi parte», di «partire da me». «Solo scrivere, ed essere madre» diventa la formula di questo affrancamento iniziatico di sé quale madre nuda, passando per quella che Alessandro Fo definisce con intuizione piena di grazia «semplicità e francescana sorellanza». Mettere al mondo dolorosamente il Figlio-Parola d’amore, il Figlio-Foglio coperto di scrittura, significa anche separarlo, farlo «partire da me», «estirparlo» perché possa vivere la sua esistenza di creazione, di opera:

Epifania

Sei l’orco cattivo
il gattomammone
demonio vestito
per la Comunione
fenomeno
apparizione
sei calda coperta di lana
parola d’amore
Erode al contrario
orario sbagliato
sul muro della stazione.
Il giorno che ho detto il tuo nome
era come l’avevo
sognato,
storpiato.
Era pura tristezza:
l’ebbrezza del neonato.

Figlio I

Figlio, sgombera questo campo fiaccato.
Prendi forma,
che sia immagine o nome.

Fatti altro
e non alterazione
mutante
e non mutazione.

Metti pelo, piume, ragione
ma smetti di essermi parte
e parti da me.

Figlio II (o della gramigna)

Figlio, tu sei la malerba che mi spiega sul
cuore.
Infesti a silenzi, senza dolore
e succhi il mio sangue e hai radici
profonde
che se non ti estirpo poi cresci fino a
farmi crepare

Figlio, quando ti sei mostrato
eri il mostro difforme
che rivendica il nome,
eri ipotesi di sofferenza.
Non c’è gioia nel pianto,
nella vita che è assenza.

Io ci provo, figlio, a strapparti da me
ma più tiro più mi cresci nel petto
come un dubbio, un sospetto che non
dico a nessuno.

La poesia di Simona Mancini è mercuriale e vulcanica, vola e focalizza, si sospende elegante nell’atto del puro proferire vocativo in frasi solo nominali e con forza batte il martello degli «apparentamenti fonici non astrusi e ricercati, ma disponibili nel tessuto quotidiano del linguaggio» (Alessandro Fo). Come scriveva Calvino nella lezione americana sulla Leggerezza, richiamandosi a Saturn and Melancholy di Klibansky, Panofsky e Saxl, «la melanconia è la tristezza diventata leggera». Come la vita, la poesia di Simona Mancini conquista la leggerezza di Mercurio attraverso la zoppìa di Vulcano. La mutilazione, l’anima che incespica, si curano imparando a camminare anche sulle rime claudicanti, nei «versi spiazzanti» di cui parla Alessandro Fo, il quale trascrive anche una magnifica definizione della stessa Mancini a lui inviata «all’antica, per posta»: «La poesia è la parte di noi che non sa stare al mondo. Quella azzoppata alla nascita. Scampata alla rupe. Così mi muovo nell’universo delle parole come se fosse la sola dimensione possibile dell’esistere. A dettare il ritmo sono infinite rime che mi piovono addosso impreviste».

E dunque chi mai invocherà Satura, se non proprio la Poesia, la Parola-Figlio a cui grida: «Io ci provo, figlio, a strapparti da me»? La tragedia e la catarsi non si “raccontano”, ma soltanto si “nominano”, giungendo sulla vetta della “prima volta”, quella che Bobi Bazlen chiamava la primavoltità, così legata all’«arte di morire ogni secondo» per vincere la morte:

Satura

Esci dai miei versi
ché solo a me appartiene il batter
zoppo della rima imprevista.

Mia è l’anima in subbuglio:
intruglio d’accenti, groppo,
satura mista.

Simona Mancini, Di madre nuda, con uno scritto di Alessandro Fo («Solo scrivere, ed essere madre»: la poesia di Simona Mancini), peQuod, Ancona 2022, pp. 143.

 

L'autore

Corrado Bologna
Corrado Bologna
Corrado Bologna ha insegnato Filologia romanza in diverse Università italiane e straniere, e Letterature romanze medioevali e moderne alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha pubblicato numerosi saggi sui principali autori delle letterature europee. Il suo ultimo libro è Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Luca Sossella, Roma 2022.