scrivere nelle varie lingue d'Italia

Eugenio Barzagli intervista Nino De Vita

Nino de Vita è nato a Marsala l’8 giugno 1950. Esordisce nel 1984 con la raccolta di versi in italiano Fosse Chiti. Segue la produzione in siciliano: Cutusìu, Mesogea 2001; Cùntura, Mesogea 2003; Nnòmura, Mesogea 2005; Òmini, Mesogea 2011. Nel 2015 sempre con Mesogea è uscito A ccanciu ri Maria. È autore inoltre di racconti per l’infanzia, tre dei quali: Il cacciatore, 2006; Il racconto del lombrico, 2008; La casa sull’altura, 2011 sono stati pubblicati dall’editore Orecchio Acerbo. Nino De Vita si occupa inoltre della “Fondazione Sciascia” a Racalmuto.

Nei suoi versi in vernacolo l’uso, quasi esclusivo, del settenario, si scontra con il crescente quantitativo di proteiforme realtà che abita quegli stessi versi. Il suo settenario si piega ad una vocazione prosastica inedita. Non è tentato dalla prosa? Quale è stato il percorso che l’ha portata a eleggere il settenario a misura ideale della sua voce?

Ho cominciato a scrivere versi che ero giovanissimo. E in verità a 16-17 anni la tentazione di esprimermi in prosa c’è stata. Ho anche fatto dei tentativi, scritto alcuni racconti, ma tutto è finito lì, mi sono accorto che mi mancava, se così si può dire, il respiro lungo del prosatore.

Ho così cominciato a comporre i versi di Fosse Chiti, il mio primo e unico libro scritto in lingua, adoperando da subito l’endecasillabo e il settenario.

Quando, a trent’anni, mi sono messo a scrivere in dialetto, la tentazione della prosa si è di nuovo affacciata e per il semplice motivo che io dovevo questa volta propriamente narrare. E così ho scritto in prosa il primo racconto di Cutusìu intitolato Ottu giugnu millinuvicuntucinquanta, l’ho anche in questa forma pubblicato in una rivista “Lunarionuovo” che allora si pubblicava a Catania. Ma anche questa volta la cosa non è andata avanti, sono ritornato ai versi.

Mi sono poi accorto con gli anni che il settenario, del tutto involontariamente, diventava nei miei versi sempre più preponderante, per così dire più invadente, forse perché il settenario dà più forza al testo, dà più ritmo, più musica.

 

La differenza che c’è tra la sua prima produzione in italiano e quella successiva in siciliano è notevole, non solo per la lingua, ma anche perché la contemplazione dei primi testi si fa narrazione negli altri, nei quali compare un frastagliato e definito personaggio che dice “io”, anzi più precisamente “eu”: Ninu. Qual è la ragione di questo profondo mutamento? Che rapporto intrattengono, tra di loro, i testi dell’una e dell’altra fase della sua poesia?

Il passaggio dalla produzione in italiano a quella successiva in siciliano è dovuto a una sorta di improvvisa conversione, che cercherò di sintetizzare.

Sono nato in una contrada che ha per nome Cutusio. È situata si può dire a metà strada tra le città di Marsala e Trapani: è una lunga striscia di terra con poche case, sparse, o ammucchiate in bagli, prospiciente lo Stagnone, dove c’è Mozia; dopo, lontane, si vedono, a volte solo si intravedono, le gobbe delle Egadi.

Da ragazzo mi sono appassionato, forse anche per sconfiggere la solitudine che avvertivo, alla lettura, poi alla scrittura.

A Cutusio, quando io sono nato, non c’era la luce…  è arrivata che avevo diciassette anni…  non c’era dunque la televisione, non arrivavano i giornali. Vivevo, oltre che con i miei genitori, con i nonni. Per questo motivo il dialetto è stata la lingua che ho, in assoluto, appreso.

Faccio un esempio. A tavola mio padre, o mia madre, o mia nonna, rivolti a me dicevano: “Pigghia a bbuccetta”, cioè “prendi la forchetta”. Non c’era altro modo, allora, per indicare la forchetta. Dopo, a scuola, ho appreso che “a bbuccetta” è la forchetta. E così per tanti altri esempi ancora. Che so: la giacca che veniva nominata bbunaca, la cravatta scolla, le calze pirunetta.

Ho voluto precisare questo perché, quando ho cominciato ad usare il siciliano, io ero già in possesso di una lingua con cui potermi esprimere; una lingua, dico, perché tale è il siciliano.

Incominciai dunque, ragazzo, a scrivere in lingua italiana e non pensavo assolutamente che un giorno sarei approdato al dialetto. Si può dire non mi interessava.

Questa sorta di conversione arrivò improvvisa una mattina dell’autunno del 1980. Mi accade spesso di raccontarla, ma la ripeto perché tutto inizia da lì.

Insegnavo allora presso il Liceo Scientifico di Trapani.

A un ragazzo che, uscito dalla classe, dimenticava di chiudere la porta “Unn’a lassari a ciaccazzedda”, ‘non lasciarla socchiusa’, dicevo, con una espressione tipica del nostro dialetto.

Il ragazzo mi guardò, chiuse la porta.

“Ma che parla arabo, professore” mi disse uno dal banco.

Altri alunni mi chiedevano cosa avessi detto.

Non capivano. Non mi capivano. Come era possibile?

Provai, quella mattina, mettendo da parte le formule di chimica, di intrattenermi con loro in un dialogo che riguardasse il dialetto, il mio dialetto, la mia lingua. Cercai e trovai nella memoria parole inusuali, modi di dire, nomignoli. Ricevetti da loro, insieme ad una interessata attenzione, espressioni di meraviglia e di non troppa velata ironia, abituati i ragazzi oramai a un dialetto colorito e irridente. Alcuni riconoscevano le parole. Ma ce n’erano alcune, di parole, che assolutamente nessuno aveva mai sentito pronunciare.

Tornando a casa meditavo, con amarezza, decisamente, fin quasi a una sorta di rabbia, su questo arco di tempo della mia vita che andava, nella sua parlata, irrimediabilmente scomparendo.
Fu così che decisi di salvare le parole che di più si erano logorate; desideravo conservarle e invece si aprì tutto un mondo che voleva essere rappresentato. Nacque dunque un progetto, ampio, a cui sto ancora lavorando.

E tornando alla domanda sulla ragione di questo profondo mutamento, del passaggio dall’italiano al dialetto, dalla contemplazione alla narrazione, mi viene da citare un passaggio dell’introduzione che Vincenzo Consolo ha scritto per Cutusìu, il mio primo libro in dialetto: ”C’è ancora, nella cristallina lingua di Fosse Chiti, nella sua scabra sostantivazione montaliana, quel che Montale stesso dice della lingua catalana del poeta Maravall, di scoppiettare di pigna verde sopra il fuoco. E in Fosse Chiti: «S’aprono per il caldo / sull’albero le pigne / che sono ancora verdi: / è crepitio / come legna che il fuoco / arde». La pura lingua di Fosse Chiti sta per aprirsi come la pigna: ha già del resto in sé delle crepe, dei varchi verso un’altra lingua, verso un più profondo suono: giummo, cianciane, graste sono quei varchi”.

Fosse Chiti è un libro dove l’uomo è, per così dire, assente; è il fondale di una storia, composta di uomini e di fatti, che sta per rappresentarsi. Il dialetto, quando arriva, popola di fatti e di uomini – e dunque anche di io, di “eu”, di Ninu, di Ninuzzu – la storia, tutte le storie, che contiene.

 

“Cc’era cchiù paci prima, / malirittu strummentu”. In “Nnòmura” così inveisce un personaggio della sua poesia contro la televisione. Ci parli dell’incontro scontro tra quel “maledetto strumento” e Cutusìu.

Ne accennavo precedentemente. La luce arriva a Cutusio che io ho diciassette anni, nel 1967. È un avvenimento che dà conforto, si capisce, ma che crea anche un turbamento nella gente abituata a vivere in un certo silenzio.

“Malirittu strummentu” è una frase pronunciata da Leonardo, soprannominato Sìmmula, un uomo che passava il suo tempo a giocare a carte, a conversare serenamente con gli altri anziani nel circolo.

Quando arriva la luce i soci del circolo decidono di comprare un televisore. Ed è una cosa che sconvolge propriamente le loro abitudini. La sera la gente della contrada si riversa in quella stanza, sta a guardare i programmi, e i soci del circolo perdono, per così dire, la pace. Da qui quell’imprecazione.

 

La sua poesia in Òmini non si occupa più della remota Cutusìu e dei suoi abitanti, ma di altri luoghi dell’Isola e di altri personaggi. Tra questi ultimi figurano i più importanti scrittori, poeti e intellettuali siciliani. Ci parli, a tal proposito, del suo rapporto di amicizia con Leonardo Sciascia.

Dopo aver composto la trilogia di Cutusìu, di Cùntura e di Nnòmura, e dunque dopo aver trattato dei miei diciotto anni passati a Cutusio, adesso la narrazione riguarda Palermo, i luoghi altri della Sicilia. Perché è lì, nel capoluogo siciliano, che nel 1968 io mi sposto per frequentare l’Università. Ed è lì, un anno dopo, che avviene il mio incontro con Sciascia.

Io avevo già letto tre o quattro libri dello scrittore agrigentino, di Racalmuto, ma non sapevo che lui da un anno si trovasse a vivere a Palermo, per seguire le figlie che nel capoluogo siciliano frequentavano l’Università.

Un pomeriggio dell’autunno del 1969, in una galleria di Palermo, io ho incontrato Enzo Sellerio, che in quel luogo esponeva le sue foto. Scambiammo alcune parole e Sellerio mi invitò ad andarlo a trovare nel suo studio.

Così, qualche giorno dopo, suonai il campanello di quell’edificio al numero 50 di via Siracusa.

Mi aprì Sellerio, mi fece accomodare. Subito mi accorsi di un uomo, nell’altra stanza, piccolo, scuro, che si spostava, come passeggiando, mentre fumava. Non lo riconobbi, ma era Sciascia.

 

Come mai si trovava Sciascia in quel posto?

Bisogna dire che in quei mesi del 1969 stava nascere la casa Editrice Sellerio, e proprio per la collaborazione di Sciascia con i coniugi Sellerio: Enzo e la moglie, Elvira Giorgianni. E nasceva con la pubblicazione del primo libro, I veleni di Palermo di Rosario la Duca.

Sellerio mi disse: “Venga, le presento Sciascia”. Rimasi sorpreso, emozionato, non sapevo che dire.

Sciascia mi porse la mano, accennò un sorriso, se ne andò.

Cominciammo a parlare, io e Sellerio, di fotografie; mi fece vedere, poggiandoli su di un tavolo, i suoi lavori.

Dopo un poco ritornò Sciascia. Io mi premurai di dire dei tre-quattro libri suoi che avevo letto e del piacere che provavo per questo inaspettato incontro. Mi domandò di dove ero, che cosa studiavo. Io dissi, fra le altre cose, che andavo e venivo da Marsala con la mia cinquecento e lui mi chiese allora se potevo il giorno dopo, libero da impegni, si capisce, accompagnarlo dalla sua casa a questa dei Sellerio. Io dissi subito di sì. E fissammo l’appuntamento, alle ore 16, in via Scaduto 10/b.

Cominciammo da quel giorno a incontrarci assiduamente.

Sciascia, oltre all’uomo colto che sappiamo, al grande scrittore, era anche un uomo timido, pieno di delicatezze e di attenzioni.

A proposito di questa sua sensibilità voglio adesso, fra i tanti, riportare qui un episodio.

Stavo un pomeriggio con Leonardo, credo fosse l’anno prima della sua scomparsa, nello studio della mia casa, a Cutusio.

Leonardo si spostava piano, poggiandosi al bastone; e guardava, leggeva i nomi degli autori sul dorso dei libri allineati negli scaffali.

E a un certo momento, puntando con il dito: “Alessio Di Giovanni” accenna. (Di Giovanni è un poeta dialettale siciliano che io amo particolarmente. È nato a Cianciana, in provincia di Agrigento, nel 1872 ed è morto a Palermo nel 1946. È un poeta di cui Sciascia si è interessato, ha scritto sulla sua opera).

“Di Giovanni, sì” io ripeto. “Ho raccolto, professore, quasi tutte le sue cose. Ma sono libri difficili da trovare. U puvireddu amurusu, ad esempio, non sono mai riuscito a trovarlo; e l’ho cercato, cercato…”.

Leonardo non dice niente. Guarda gli altri libri, si sposta, si ferma, si avvicina a leggere.

Qualche giorno dopo, a Palermo, nel salotto del suo studio, ci soffermiamo nelle nostre solite conversazioni.

A un certo punto Sciascia si alza e va nell’altra stanza. Manca poco. Torna con un libro. È U puvireddu amurusu di Alessio Di Giovanni. Io ho un palpito al cuore. Leonardo allunga il braccio e me lo porge; e ad un mio tentennamento: ”Lo puoi prendere, lo puoi prendere…” dice premuroso “prendilo: ne ho due copie. L’altra la conservo per me”.

“Ma è proprio così, Professore…”

“Proprio così”.

“Va bene, allora accetto”.

Prendo la copia del libro, preziosa, e la porto con me a Cutusio.

Dopo la sua morte, un pomeriggio, nella sua casa di Palermo, mi ritrovo a scorrere i suoi libri allineati negli scaffali. Libri che sono sistemati in doppia fila e dove mai mi ero spinto in precedenza a guardare. Ho vicino a me la signora Maria.

Parliamo degli scrittori che Sciascia amava e del progetto di catalogare i libri destinati alla Fondazione.

E proprio allo stesso modo, con lo stesso gesto di Sciascia davanti ai libri allineati nello scaffale, a casa mia, alzando il dito e puntando: “Alessio Di Giovanni…” dico.

“Di Giovanni…” ripete la signora Maria. ”È un poeta che mio marito amava. Qui ci sono tutti i suoi libri”.

Quasi preso, d’improvviso, allora, da una sorta di ansia, di curiosità, scorro con le dita la fila dei libri del poeta di Cianciana, ne leggo i titoli sui dorsi, a uno a uno. I libri del poeta ci sono davvero tutti, tutti. Ne manca solo uno, ma ne ero già, dentro di me, sicuro. Manca U puvireddu amurusu.

Ho frequentato Sciascia per vent’anni esatti. Lui è morto la mattina del 20 novembre 1989. La sera prima io ero accanto a lui, che stava nel letto di casa sua, debolissimo.

Qualche mese prima mi aveva chiesto una cosa importante: se volevo far parte del Comitato Scientifico della Fondazione Sciascia, che era da poco sorta a Racalmuto. Accettai. Ancora ne faccio parte.

E per tornare brevemente alla sua domanda. Sì, in Òmini ci sono racconti dove compaiono, oltre a Sciascia, altri importanti scrittori e poeti siciliani. Si tratta di Consolo, Buttitta, Bufalino, Fiore…

Scrittori che ho a lungo, come è accaduto con Sciascia, frequentato e che ho voluto, in questo mio volume, Òmini, appunto, ricordare.

Sono tutti scomparsi.

Si ripete, in questi casi, una frase che è un po’ banale: “Restano i loro libri”.

Ma a me avere solo i loro libri non basta.

 

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L'autore

Eugenio Barzagli
Studente di Lettere moderne presso l'Università degli Studi di Perugia.