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Massimiliano Tortora intervista Romano Luperini

Romano Luperini ha insegnato letteratura italiana contemporanea all’Università di Siena. È critico letterario, teorico, esperto di didattica e romanziere. Oltre agli innumerevoli interventi su Verga (da Tre tesi sul Verga, 1968, a Pessimismo e verismo in Verga, 1971, fino a Verga moderno, 2005), ricordiamo tra le sue pubblicazioni Allegoria del moderno (1990), Il dialogo e il conflitto (1999), L’incontro e il caso (2007); è autore anche dei manuali La scrittura e l’immaginazione e La letteratura e noi. Ha scritto tre romanzi – I salici sono piante acquatiche (2002), L’età estrema (2008), L’uso della vita (2013) – e un quarto è in preparazione. Con Massimiliano Tortora ha curato Sul modernismo italiano (2012).

Caro Romano, siamo qui a Urbino in occasione di un convegno dedicato a Paolo Volponi, a venti anni dalla morte. Volponi è stato scrittore, intellettuale, industriale, uomo politico, senatore: ha insomma raffigurato un’immagine d’intellettuale, e di letterato al tempo stesso, che fino ad un certo punto era molto diffusa. Oggi credi che sia possibile una rinascita, magari su basi diverse, di una figura di questo tipo?

Questa figura di scrittore–intellettuale è venuta meno da trenta anni; è entrata in crisi già negli anni Settanta, e poi negli anni Ottanta direi che è definitivamente tramontata. Oggi gli scrittori sono scrittori-scrittori e nessuno vuole, può, più avere una visione generale e una volontà di incidere sulla società. Quindi quella funzione lì non è più possibile, perché è legata alla centralità della figura intellettuale nella società. E oggi questa centralità non c’è più. Anche Volponi se n’era accorto quando ha pubblicato Scritti dal margine. Prima di morire aveva appunto raccolto i suoi scritti intitolandoli dal margine: si rendeva infatti conto che era la marginalità la nuova situazione dello scrittore, e che la posizione centrale non era più possibile. Ora, però il problema è nel vedere quanto questa marginalità può nel tempo diventare, da una situazione di scacco come oggi, una posizione fruttuosa sul piano civile. I precari, i lavoratori della conoscenza, i disoccupati costretti a viaggiare in tutto il mondo per trovare uno straccio di lavoro (e gli esempi potrebbero essere molti altri), per certi versi potrebbero – anche proprio per questa loro condizione – assumere una prospettiva privilegiata; ossia avere una capacità di giocare di contrabbando fra le frontiere, in grado anche di collegarli e metterli in contatto, come aveva intuito Said, ai marginali del pianeta e agli esclusi del pianeta. E in questo modo assumere una nuova funzione. Ora questa è una possibilità.

In questa tua lettura dai per scontata una coordinata: che l’intellettuale per esercitare la sua funzione deve necessariamente stare dalla parte dei marginali e degli oppressi, e avere dunque una funzione necessariamente antagonista.

Sì, ma, guarda, non è una scelta morale, è il risultato di una condizione materiale; e questo deve essere chiaro. Le cose non stanno come pensava Lenin, quando rifletteva sul “tradimento” (gli intellettuali tradiscono la loro classe e si schierano con gli esclusi): no, gli intellettuali si trovano a essere oggettivamente degli esclusi. Insomma non è una scelta ideologica, ma è l’interpretazione del loro modo di essere: ed è questo dato che può aprire una possibilità. Poi certo mancano tante altre condizioni: per esempio manca ancora una cultura alternativa, almeno nell’occidente e in questo momento; però forse qualcosa si sta muovendo anche in questo caso.

Scusa, ma il caso Saviano, che in questi casi viene sempre evocato come nuova figura d’intellettuale o come esempio di una penna che è capace di avere delle conseguenze sociali e politiche, come si interpreta alla luce di questo fatto?

Finché era marginale e deteneva una posizione di marginalità Saviano ha avuto questa funzione; appena è stato sussunto all’interno della centralità mediatica, ed è diventato un personaggio mediatico e centrale, ha perso questa funzione. Tutti lo vedono oggi: Saviano non ha più la funzione che aveva cinque anni fa e anche quello che scrive è senza paragone inferiore rispetto a quello che scriveva sette, otto anni fa. È stato, diciamo, assunto all’interno del sistema. Però è significativo che il meglio di sé lo abbia dato in un particolare momento.

Ma lo ritieni una figura isolata o vedi altri esempi magari meno celebri?

A me è piaciuto il romanzo di Pecoraro La vita in tempo di pace, perché è un romanzo eccessivo, sbilenco, prolisso, ma capace di unire il privato al pubblico e di disegnare la storia d’Italia dal ’45 a oggi. È un esempio interessante di recupero del modernismo oggi. Perché modernismo? Perché l’impianto è desunto dall’Ulisse: ventiquattro ore in un aeroporto, dove il personaggio ripercorre tutta la propria vita. Ma poi, invece, Pecoraro è un realista, anche se di un realismo molto gaddiano. Ecco questa è un altro dato significativo: il neo-modernismo era finito negli anni novanta, già fine anni ottanta, e ora si ripropone.

Forse proprio con Le mosche del capitale?

Sì è stato l’ultimo. Può darsi che però il neomodernismo stia rinascendo. Proprio un altro libro, uno meno bello, però in questa direzione, è quello di Falco, La gemella H. Ed è interessante anche l’evoluzione di Siti, che, anche se attraverso una parabola discendente sul piano artistico, però dal postmodernismo è passato ad una soluzione quasi balzachiana, come quella di Resistere non serve a niente.

Tu sei critico letterario, sei impegnato nella didattica a più livelli, sei stato uomo politico con una storia politica molto marcata (dalla Lega dei comunisti alla segreteria nazionale di Democrazia proletaria di fatto come segretario). E però sei anche scrittore: hai pubblicato tre romanzi, e un quarto è in lavorazione. Ora nei primi tre romanzi mi sembra che ci sia un percorso “tematico” in senso ampio. Se il primo (I salici sono piante acquatiche) è più sbilanciato sul privato, il secondo (L’età estrema) invece è imperniato su un personaggio che si trova in un momento centrale della storia attuale (è negli Stati Uniti nei giorni dell’attentato alle Torri Gemelle): manifesta insomma un’apertura molto più forte nei confronti della vita pubblica. Il terzo (L’uso della vita), sul Sessantotto, riesce ad unire entrambe le connotazioni o meglio sembra essere forse il punto più alto della tua parabola di scrittore; o comunque ne rappresenta una sintesi decisiva. Insomma c’è nel tuo percorso di scrittore questo tentativo costante di recuperare sempre di più la vita sociale, e di dare una connotazione sociale alla scrittura, dove l’aggettivo sociale è da usare in senso ampio?

Scrittore è una parola grossa, io nel campo della scrittura sono avventizio. L’ho già detto altre volte: ho cominciato tardi, e non ho scommesso la vita su quel piano lì. Però la narrativa è un modo per dire delle cose che sul piano saggistico non è possibile dire, e anzi cose che sul piano saggistico non hanno nemmeno nessun riscontro. Ed è il tentativo quindi di trovare anche un pubblico, ancora un pubblico. Questo è il significato che do al mio passaggio alla narrativa: tentare ancora di scrivere qualcosa. Ma la tua domanda riguardava l’equilibrio tra privato e pubblico.

Sì, se nei tuoi romanzi c’è un tentativo di aggredire e di impossessarsi, attraverso la scrittura, di una vita pubblica e politica.

Questo bisogno di scrivere mi è nato venti o trenta anni fa (anche se lì per lì non ho scritto nulla), quando gli scrittori si guardavano l’ombelico e parlavano soltanto di sé: io, io, io, io, ma cosa succedesse intorno all’io non si vedeva. E da lì poi mi nacque l’esigenza di misurare la sfera privata sempre su quella pubblica, e di ricostruire un disegno di senso anche nella storia sociale. E ho sempre cercato di unire i due piani, ossia di calare la storia privata in una vicenda pubblica che dia conto di quello che è successo in Italia e offra anche un’interpretazione di quello che è successo in questo paese. E questo è ancora il mio intento. Poi può risultare più sbilanciato in una direzione o nell’altra, questo non lo so.

C’è un dato, ossia che tutti e tre i romanzi si focalizzano su un momento nodale della storia: il Sessantotto, le Torri Gemelle e di fatto la seconda guerra mondiale nel romanzo d’esordio. Non può essere casuale questa scelta di scegliere eventi fondatori.

In quello che sto provando a scrivere ora parto appunto da più indietro, perché c’è il fascismo. Cerco di ricostruire una storia già a partire dagli anni Trenta, arrivando fino ad oggi. Quindi è quasi un secolo – un secolo di storia d’Italia – attraverso tre generazioni. Però non voglio scrivere un romanzo storico, voglio solo raccontare una serie di vicende private, incastrate però in una vicenda pubblica.

Però la mia domanda voleva essere anche un tentativo di capire altro. Se il tuo percorso di riappropriarsi di una storia pubblica derubata già negli Ottanta, risenta di una nuova situazione e sia dunque termometro di mutamenti culturali in corso. Del resto tu stesso hai più volte sostenuto che con le Torri gemelle è caduto anche il postmodernismo. La mutata percezione della realtà ha interagito con la tua attività di narratore?

Ho la sensazione in effetti che da quindici anni, insomma dalle Torri Gemelle in là, e poi diciamo con la crisi economica, la vita pubblica è ritornata a invadere la vita privata; e questo certamente ha spinto me, ma anche molti altri, a rimettere questa questione che sembrava dimenticata al centro. Sì, questo posso confermarlo.

Insomma senza le Torri Gemelle l’avresti potuto scrivere L’uso della vita?

Forse quello sì, ma quello che sto scrivendo ora forse no. Quello sì perché nasce in tempi lontani: i primi appunti de L’uso della vita, e anche di I salici sono piante acquatiche, risalgono a quando facevo l’analisi ed ero scioccato dal pensiero debole, e dal fatto che gli intellettuali, che fino a poco tempo prima sostenevano il primato dell’economia politica, erano di corsa passati nel giro di quattro o cinque anni a sostenere il primato del linguaggio, della poesia e della leggerezza. Ecco mi aveva scioccato con quanta rapidità una generazione di intellettuali era passata da un campo ad un altro, da una filosofia ad un’altra, dal sostenere il primato del rapporto degli uomini fra di loro a sostenere invece il primato del rapporto tra l’uomo e il verbum. Ecco quest’ultimo dato mi ha sconvolto e mi ha turbato sentir parlare per un decennio di angiologia, perché gli angeli sono il tramite di questo rapporto. A me vedere per esempio una rivista come «Contropiano», anzi gli esponenti di questa rivista, passare rapidamente dal citare Marx al citare Nietzsche e Derrida mi ha scioccato. E quindi L’uso della vita e I salici sono piante acquatiche (il loro nucleo originario) nascevano da una reazione viscerale a questa situazione e dall’agitazione che questo nuovo assetto culturale aveva portato in me. Per L’età estrema e il romanzo attualmente in gestazione hai ragione tu: risentono maggiormente di un cambiamento di clima culturale, e dunque sono centrati sul rapporto stretto tra pubblico e privato nell’età contemporanea.

Ti faccio un’ultima domanda. Io vedo nei tre romanzi anche un’evoluzione della scrittura: se il primo romanzo era sicuramente molto coraggioso e univa registri e stili diversi, e soprattutto generi di scrittura diversi, il secondo romanzo aveva un alto tasso di letterarietà: sembrava avere come modelli non dico la narrativa degli anni Trenta, ma un modello di scrittura alta, forse proprio in contrapposizione con la scrittura sciatta che girava in quegli anni. Il terzo romanzo invece sembra più disposto ad abbassare il tasso di “aulicità”, per avere una prosa più diretta. È un percorso nel quale ti riconosci?

Sì, verissimo. Il perché non lo so, ma probabilmente è dovuto al fatto che all’inizio scrivevo come uno che di tanto in tanto scriveva poesie: quelle di tanto in tanto, magari una all’anno, le ho sempre scritte. Il tasso anche lirico era quindi più presente; e in più non avevo nessuna esperienza della narratività. Poi passando a un piano più narrativo, come quello sul Sessantotto, ovviamente è cambiato anche il linguaggio: però L’uso della vita è nato anche perché erano cinque anni che non riuscivo a scrivere nulla, nemmeno saggi. E quindi ha contribuito al suo stile anche la nuova fluidità e immediatezza di scrittura: mi piaceva e l’ho scritto rapidissimamente in cinque mesi, mentre a scrivere gli altri ho penato molto anche in termini di tempo. Il terzo romanzo l’ho scritto in un attimo, e mi son divertito molto: quindi questa fluidità è dovuta anche a questa situazione eccezionale. Però io penso che se uno vuole scrivere narrativa è su quella linea lì, del libro del Sessantotto, che deve muoversi: insomma un linguaggio più quotidiano, e meno liricità. Devo dire che ora quando mi sfugge un’espressione un po’ lirica la correggo (quando me ne accorgo), mentre prima la cercavo: c’è una bella differenza.

Hai detto che il quarto romanzo è appunto la storia di tre generazioni, ma il quinto su Renzi lo facciamo?

Non so, non mi pare sia un personaggio che possa ispirare i letterati. Forse, più che un romanzo basta un tweet.

[la trascrizione dell’intervista è stata effettuata da Giulia Falistocco e Michela Rossi, che qui ringraziamo sentitamente]


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L'autore

Massimiliano Tortora
Massimiliano Tortora
Massimiliano Tortora insegna Letteratura italiana contemporanea presso l’Università di Torino. È direttore de “L’Ellisse. Studi storici di letteratura italiana” e redattore di “Allegoria”. Coordina con Annalisa Volpone il "Centre for European Modernism Studies". Ha pubblicato saggi e volumi su Svevo, Tozzi, Montale, Bassani, Ungaretti.