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Flaminia Gambini intervista Telmo Pievani

Sabato 17 ottobre alle ore 16, 45, presso il Teatro Comunale degli Arrischianti di Sarteano (http://www.sarteanoliving.it/it/1/voce/35-news-e-eventi/994-premio-di-ecologia-umana), verrà consegnato il Premio Internazionale per l’Ecologia Umana a Telmo Pievani per il progetto scientifico del Giardino della Biodiversità.

Telmo Pievani è docente presso l’Università degli studi di Padova, dove ricopre la prima cattedra italiana di Filosofia delle Scienze Biologiche. Filosofo della biologia ed esperto di teoria dell’evoluzione, è autore di 152 pubblicazioni nazionali e internazionali nel campo della filosofia della scienza fra le quali: Homo sapiens e altre catastrofi (Meltemi, 2002); Introduzione alla filosofia della biologia (Laterza, 2005); La teoria dell’evoluzione (Il Mulino, 2006 e 2010); Creazione senza Dio (Einaudi, 2006, finalista Premio Galileo e Premio Fermi); In difesa di Darwin (Bompiani, 2007); Nati per credere (Codice Edizioni, 2008, con V. Girotto e G. Vallortigara); La vita inaspettata (Raffaello Cortina Editore, 2011; finalista Premio Galileo; Premio Serono Menzione Speciale 2012); Homo sapiens. La grande storia della diversità umana (Codice Edizioni, 2011, con L.L. Cavalli Sforza); Introduzione a Darwin (Laterza, 2012); La fine del mondo. Guida per apocalittici perplessi (Il Mulino, 2012); Anatomia di una rivoluzione. La logica della scoperta scientifica di Darwin (Mimesis, 2013). Insieme a Niles Eldredge, è stato direttore scientifico del progetto enciclopedico “Ecosphera – Il futuro del pianeta” di UTET Grandi Opere (2010). Ha curato il volume ottavo (“Le scienze e le tecnologie”) dell’enciclopedia “La Cultura Italiana” di UTET Grandi Opere (2010), diretta da Luigi Luca Cavalli Sforza. Insieme a Niles Eldredge e Ian Tattersall ha curato l’edizione italiana rinnovata della mostra internazionale “Darwin. 1809-2009” (Roma-Milano-Bari 2009-2010). Insieme a Luigi Luca Cavalli Sforza è curatore del progetto espositivo internazionale “Homo sapiens: la grande storia della diversità umana”. Collabora con “Il Corriere della Sera” e con le riviste “Le Scienze”, “Micromega” e “L’Indice dei Libri”.

Tra pochi giorni lei verrà premiato dal concorso “Le terre e il cielo di Spineto” in quanto responsabile dell’allestimento del Giardino della biodiversità dell’Università di Padova. Ci parli di questo suo progetto. Di che si tratta? Quando e come è nato?

Si tratta di un science center di nuova generazione ospitato all’interno dell’Orto Botanico di Padova, gioiello cinquecentesco riconosciuto come Patrimonio Mondiale dell’Umanità dall’UNESCO in quanto più antico Orto Botanico universitario del mondo. Il Giardino della Biodiversità nasce dalla riqualificazione di un’area limitrofa che si trova proprio accanto a Prato della Valle. Un grande edificio-serra, costruito secondo le più moderne tecnologie di bioedilizia, ospita migliaia di piante organizzate secondo i principali biomi della Terra, dalla foresta tropicale umida ai deserti. I visitatori entrano e fanno letteralmente il giro del mondo passando per diverse sezioni climatizzate, con umidità, luminosità, riciclo di aria e di acqua accuratamente controllati. Tra un ecosistema e l’altro, ammirando piante provenienti da tutto il mondo, i nostri ospiti percorrono lunghi corridoi allestiti da me e dai professionisti dell’Università di Padova secondo una narrazione innovativa, per la prima volta di tipo antropologico dentro un Orto Botanico. Attraverso video, animazioni, modelli, exhibit interattivi, reperti, testi, grafiche, approfondimenti 2.0 su tablet, viene raccontata la lunga e affascinante storia di coevoluzione tra le piante e le popolazioni umane: noi abbiamo addomesticato le piante per migliaia di anni attraverso la selezione artificiale, trasformandole per i nostri fini; ma anche le piante hanno usato noi per diffondersi e viaggiare in tutto il mondo, e soprattutto hanno plasmato la nostra nicchia ecologica, per cui oggi la nostra vita è garantita dalle piante. Esse ci danno ossigeno, ma anche da mangiare e da vestire, ci danno il legno, la carta e la gomma, ci danno medicinali importantissimi (l’ultimo Premio Nobel per la scoperta di farmaci antimalarici ricavati dalle piante lo dimostra), e poi un’infinità di altre sostanze per farci belli, per alterare la nostra mente, per costruire strumenti musicali. Le piante insomma sono la nostra vita, anche se noi spesso non le vediamo perché abbiamo una visione animalo-centrica. Nell’ultima sezione dell’esposizione raccontiamo poi gli utilizzi delle piante per un futuro più sostenibile: bio-plastiche completamente biodegradabili, biocombustibili che non occupano terra perché ottenuti dalle alghe, esperimenti vegetali in assenza di gravità, e così via. Dall’inizio alla fine il tema di fondo è la biodiversità come motore della vita.

La sua è la prima cattedra italiana di Filosofia delle scienze biologiche. In cosa consiste questa materia?

Consiste nell’analisi e nella discussione dei grandi temi teorici che emergono dalle scienze della vita: come definire la vita, le specie, la biodiversità; le relazioni tra la specie umana e l’ambiente; le nuove biotecnologie e le loro implicazioni, anche etiche; gli aggiornamenti della teoria dell’evoluzione; e poi questioni metodologiche e inter-disciplinari. Io insegno, da filosofo della scienza, in un Dipartimento di Biologia, per la prima volta in Italia. È una bellissima scommessa di dialogo fra scienziati e umanisti.

Che rapporto ha lei con l’ambiente e l’ecologia?

Strettissimo, vista la disciplina di cui mi occupo. In particolare, mi impegno affinché i temi ambientali tornino al centro dell’agenda politica, dopo anni di dimenticanza a causa della crisi economica e anche culturale in cui ci troviamo. I dati, per esempio, sul crollo sistemico della biodiversità globale sono allarmanti e nessuno ne parla, benché siano stati pubblicati su Nature e Science, non su bollettini ecologisti locali. Stiamo spolpando il pianeta e impoverendo gli ecosistemi, al punto che presto i beni comuni e i servizi ecosistemi (finora gratuiti) saranno a rischio. Tutto ciò denota una tragica assenza di lungimiranza da parte delle classi politiche, ossessionate dai tempi brevi delle campagne elettorali e dal consenso facile. Oltre a ciò, credo che l’ambientalismo stesso debba fare una profonda riflessione interna sulle sue debolezze, diventando cultura diffusa, mostrandosi più inclusivo e costruttivo, e soprattutto abbandonando gli atteggiamenti irrazionali, emotivi e antiscientifici che spesso lo caratterizzano ancora. Penso alle assurde e anacronistiche paure sulle biotecnologie e sulla tecnologia in generale. Rifugiarsi nel mito del “naturale” non è la soluzione. È una posizione regressiva e conservatrice. L’ambientalismo scientifico del futuro deve invece fare affidamento proprio sulla ricerca scientifica (il più possibile pubblica) e sull’innovazione tecnologica, inquadrandole in un nuovo modello di sviluppo centrato sulla giustizia sociale e sull’equa distribuzione delle risorse.


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L'autore

Flaminia Gambini
Flaminia Gambini collabora con la rivista "La nuova ecologia"