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Costanza Lindi intervista Mario De Santis

Mario De Santis è nato nel 1964 a Roma e vive a Milano. È giornalista culturale, ha curato programmi radiofonici di libri e arte, attualmente lavora a Radio Capital. Cura e conduce, con Giancarlo Cattaneo e Maurizio Rossato, il reading-show di poesia “Parole Note Live”. Ha collaborato con il mensile “Poesia” e altre testate. Ha pubblicato i libri di poesia Le ore impossibili (Empiria, 2007), La polvere nell’acqua (Crocetti, 2012) e Sciami (Giuliano Ladolfi, 2015).

In quanto scrittore e giornalista, quindi personalità presente nel mondo letterario e nella sua diffusione tramite i media, come vedi l’esistenza attiva del ruolo del poeta nella realtà attuale? Qual è la risposta e la richiesta del pubblico secondo la tua esperienza?

Tutti conoscono la situazione difficile della poesia, per diffusione e per presenza nella scena pubblica. Come giornalista, non posso non notare la quasi totale assenza della poesia dalle pagine culturali, se si eccettuano le tre rubriche che – non sempre – La lettura, Tuttolibri e La Domenica del Sole24ore dedicano alla poesia e l’importante presenza quotidiana all’interno di Faherenheit di Radio 3. Il resto, sono presenze di recensioni e articoli, saltuari. Peggio ancora va con la presenza sulla scena pubblica dei poeti, quasi mai ascoltati – salvo anche qui saltuarie eccezioni, su questioni pubbliche. Per paradosso, certe figure di cabarettisti che si autodefiniscono poeti come Guido Catalano creano ulteriore confusione – qui non c’è nessuno snobismo, ma la debolezza testuale delle loro filastrocche ne fa sicuramente delle divertenti macchiette, ma certo non poesie – e non è certo la fama raggiunta – diverso il discorso sarebbe sulla Merini che pure ha contribuito a rinnovare, con la presenza televisiva e con testi scadenti, troppi cliché sulla poesia e sulla figura del poeta, specie per un’opinione pubblica che a scuola non la praticava o se la praticava la relegava nel dileggio del Vate che auto-praticava pompini o del poeta gobbo. Con Catalano siamo però al grado zero della forma, c’è più tasso figurativo e complessità testuale in tantissimi pezzi rap o di cantautorato, per questo se viene fatta dal comune di Milano la festa della poesia al Piccolo Teatro e testuali nel comunicato c’è la presenza “dei poeti Guido Catalano e Giancarlo Majorino” francamente mi pare un clamoroso errore di pseudo-giovanilizzazione della poesia – siamo d’accordo nel non essere rigidi, né snob, ma allora ripeto tanto valeva invitare J. Ax o Salmo o Clementino i cui testi sono sicuramente più densi di quelli di Catalano.

La richiesta del pubblico c’è, e la rete sta contribuendo moltissimo – forse anche qui in modo selvaggio e indiscriminato, mescolando nei 140 caratteri di twitter una valanga di “frasi” o “frasette” più o meno poetiche – citazioni di versi buttati lì un po’ a caso – ma sicuramente testimonia che qualcosa si è mosso, da questo punto di vista – purtroppo veniamo da un azzeramento quasi totale della capacità di leggere un testo non solo poetico – i dati diffusi da Tullio De Mauro lo testimoniano: solo il 20% degli italiani è in grado di comprende a pieno un articolo di giornale. Figuriamoci un testo poetico contemporaneo o del ‘900. Un disastro dell’umanesimo consumato nelle case degli italiani innanzitutto e continuato poi a scuola, nella scuola di massa. Tra quel 20% di lettori e di lettori di libri ” forti”, noto con la poesia invece una sorta resa in difensiva. In generale, nel pubblico c’è attesa di un qualche testo denso di “parole significative” – un po’ si collega al periodo di crisi, non nascondo fragilità emotive tra le motivazioni e anche un messianesimo sottile ed esistenziale che c’è, in questa pur visibile ripresa della poesia. Tuttavia non c’è quel pizzico di attività in più, da parte del pubblico che legge in queste persone pur ben disposte, nella ricerca di autori, né ricerca di libri di poesia. Ci si accontenta di quel che c’è già. Questo lo dico anche a partire da un’esperienza positiva che faccio come comunicatore ovvero lo show-reading live di “parole note” di cui però – se allargo la visione alla prospettiva ampia della società italiana come mi chiedi e dei media – vedo pure tanti limiti, primo tra tutti mancanza di curiosità verso il genere.

Quanta importanza ha la parola nel tuo lavoro di giornalista e quanta ne ha nel tuo ruolo di poeta?

Giornalismo e letteratura si dividono il terreno della lingua italiana. Io lavoro per la radio, quindi la parola orale e la costruzione della comunicazione usata in radio è diversa dal giornalismo scritto dove le tangenze con la letteratura sono più frequenti. La parola dunque ha un’importanza fondamentale, diciamo che la radio mi aiuta a tenere conto anche dell’importanza dell’uso di una lingua di senso comune e dell’importanza dell’uditorio, memore delle esperienze anche lavorative di Giudici, Sereni, Fortini, ecc., senza confondere però l’ambito della comunicazione con quello dell’elaborazione di un testo poetico che – lirica, post lirica che sia – resta per me quella legata al testo scritto, mentre per tutti gli altri ambiti – penso allo slam – andrebbe creata una categoria a parte, nonostante la poesia e la lirica abbiano avuto sempre il loro risvolto sia musicale che performativo.

Nella tua prima raccolta “Scami” (Giuliano Ladolfi, 2015) l’uomo appare come parte di un insieme che vive nella frenesia del ronzio quotidiano. Quando il poeta, a tuo avviso, prende atto di ciò e riesce ad emergere dal suo sciame?

Il mio punto di vista è quello di una soggettività che tende ad annullarsi nello sciame. Ne è parte, il poeta non è diverso, per condizione umana, ontologicamente. In più, anche se lo dice, il suo Io è una singolarità biologica tra le altre. Se da un testo si può elaborare un discorso, la condizione che si arriva a definire non è dissimile da quella che può essere elaborata a partire da una riflessione sul soggetto, sul suo “abitare” il mondo, sul suo costituirsi o sfaldarsi rispetto all’esistenza e alla sua storia che fa la filosofia o la sociologia antropologica applicata al contemporaneo. Quello che ha sempre fatto il poeta però è offrire come gli altri artisti un’elaborazione differente, rispetto a quella filosofica o politica, un discorso di senso attraverso forme, in questo caso linguistiche. Con in più una condizione: non emergere ma essere parte e semmai trascinare il lettore dentro lo sciame.
Se invece per “emergere” intendi un poter avere una presenza differenziata, una posizione da cui parlare, rispetto agli altri, ritorniamo al discorso di prima: mentre oggi un artista del mondo figurativo-performativo situazionista può mobilitare e incidere sulla realtà (vedi l’operazione di Christo) o avere un livello altissimo di comunicazione (Cattelan intervistato dal New York Times) grazie alla particolare condizione privilegiata del suo mercato artistico – così un regista cinematografico, un romanziere, un regista di teatro, al limite anche un musicista – un poeta oggi rispetto a questi, dicevo, specie se italiano non emerge affatto. Ma forse questo gli permette di essere nella sua invisibile condizione di umile fantasma tra fantasmi, clandestino tra clandestino, la più sincera voce dell’allerta, dello sciame.

Quali sono le differenze di rapporto con il pubblico nel tuo lavoro di giornalista e nella tua veste di scrittore e poeta?

In parte ho già detto alcune cose. In particolare però vorrei citare l’esperienza di Parole Note – che nasce da una trasmissione di Radio Capital curata da Maurizio Rossato e che si basa su un reading con basi musicali elettroniche di poesie della grande lirica del ‘900: Neruda, Salinas, Eluard, Merini, Szymborska, ecc. La trasmissione è diventata un format live, con video, frammenti di cinema, lettura dei testi e basi poste come fosse un dj set. Naturalmente, forti anche del fatto che il seguito degli ascoltatori è affettuoso e fidelizzato, la cosa che sorprende è che a dei reading di poesia arrivano 400 – 600 persone che ascoltano per un’ora e mezzo testi di poesia e ne restano molto colpiti. Una sorta di fruizione potenziata, però è un modo per sdoganare la poesia, utilizzandola in modo spettacolare, ma restando fedele al suo testo – differenza della banalizzazione cabarettistica che dicevo prima. E quando incontro poi gli ascoltatori dal vivo, molti sapendo che scrivo mi chiedono della poesia contemporanea, delle cose che scrivo io, in qualche modo il terreno si riesce a seminare, sollecitando anche la lettura di cose recenti, tuttavia il lavoro da fare è enorme. Anche in ascoltatori lettori forti di libri di narrativa, persone che leggono uno/due libri a settimana, la poesia è del tutto assente. Di questa strage, di questa dissipazione di un genere qualcuno dovrebbe rispondere. Se la poesia italiana fosse un monumento – e lo è, la poesia italiana è fondazione di una lingua e di una coscienza per questo paese che è stato “Italia” sei secoli prima che lo fosse nei fatti, sarebbe come se avessero distrutto la Cappella Sistina. Oggi ci lamentiamo dei talebani che distruggono le statue in Afghanistan, ma di questa distruzione perpetrata in modo sistematico da scuola, mass-media, istituzioni e pure dallo snobismo ottuso di molti poeti italiani, coccolati nei loro tranquilli privilegi “borghesi” si sarebbe detto una tempo – ma diciamolo, anche oggi, mica son cambiate le cose più di tanto – e qualcuno dovrebbe rispondere, in più come comunità dovremmo tutti collettivamente un po’ vergognarci. Se non altro per il livello a cui siamo giunti, rispetto ad una tradizione fondante di una cultura occidentale tutta, basti pensare a Dante. Il Papa oggi tanto si scusa a nome della Chiesa per aver partecipato a crimini storici. Bè paradossalmente prima o poi un Presidente della Repubblica italiana – dico una boutade ma neanche tanto – dovrebbe pubblicamente chiedere scusa agli italiani a nome degli italiani medesimi per questo omicidio-suicidio di una tradizione altissima di poesia. Buttiamo a mare il chiaro di luna, alla fine ci vengono meglio i proclami che i poemi.

Nella tua raccolta “La polvere nell’acqua” (Crocetti, 2012) l’estrema delicatezza delle immagini rappresentate permette al lettore di immergersi nella morbida palpabilità della polvere ed essere estremamente attento al dettaglio fragile delle cose. Con quale intento ti approcci al lettore affrontando tematiche tanto incentrate sull’umano?

Qui voglio dirlo in poche parole: voglio creare uno sgomento. Ma mostrando come dopo il disastro, cadono filamenti come su un campo di stelle. Da questi filamenti ripartire, non tornare. La poesia è uno slittamento malinconico, ma non è mai un ritorno conservativo. L’umano è quel che resta dopo la disumanità, quindi un post-umano necessariamente, detto con un aggettivo molto in uso nella sci-fi e nella body art. L’umano è quel che condividiamo anche con creature non umane. La nuda vita.

Ti è mai capitato di affiancare poesia e musica prima dell’evento di Umbria Poesia?

Con i miei testi raramente, con Parole e Note sì, come ho già raccontato. Io sono per un uso anche di multimedialità nel reading, anche se crea qualcosa di differente – lo dico anche a partire dalla mie, più complesse – o magari solo eccessivamente complicate – in ogni caso io personalmente prediligo si leggano nel silenzio mentale. Tuttavia, se devo leggere in pubblico, preferirei altre modalità. E un altro atteggiamento anche solo di “posa” nel leggere fisica, di uso della voce – vedi Mariangela Gualtieri – per il resto i reading di poesia sono – posso dirlo? – al 80% noiosi, gli “slam” più degli altri.

(in collaborazione con www.umbriapoesia.it)

 


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L'autore

Costanza Lindi
Costanza Lindi
Costanza Lindi è laureata in Lettere Moderne con una tesi in Critica Letteraria, cofondatrice dello studio editoriale settepiani. Pubblica nel 2017 con la casa editrice kammer la silloge "Accordatura della stasi" e nel 2018 "Cerchi e polsi" per Ladolfi editore. Dal 2018 si avvicina all’arte del collage, realizza due plaquette illustrate e con lo pseudonimo in.distanza è presente in etsy.com e instagram. È tra i fondatori, nel 2019, della casa editrice pièdimosca di Peuriga.