Interventi

“Heaven”. Per un’apologia non richiesta di paradisi mai perduti

C’è un archivio del cosiddetto senso comune stratificato, o piuttosto fossilizzato, che assegna alla Musica classica – Musica d’arte, o come altrimenti la si voglia definire – lo status di monumento ai (suoni) caduti.
Aura solenne, polvere copiosa, cercasi vitalità. Tanto che qualcuno, un paio di lustri fa, ha avuto la brillante e molto originale idea di evocare lo spirito del Titano della Musica accostandolo ad un cantante pop per corroborare una tesi tanto mal posta quanto subdola nella sua apparentemente ingenua superficialità: la Musica classica non piace ai giovani perché non ha ritmo. Testualmente: Nei giovani manca l’innamoramento nei confronti della musica classica proprio perché manca di ritmo.

Ora, chi stigmatizza la Musica di Beethoven misurandola con quella del rapper Jovanotti, è un giovane. O comunque un tipo giovanile, a dispetto del suo oltre mezzo secolo d’età. E dunque va ascoltato. Vero è che una rondine non fa primavera; ma è pur vero che i numeri della fruizione della Musica classica non sono rappresentati, oggi, da un pubblico giovane; così com’è altrettanto vero che nei Conservatori di Musica italiani le iscrizioni ai corsi tradizionali sono tutt’altro che in crescita. Questo è un dato incontrovertibile, tanto spietatamente evidente agli occhi di tutti che è impossibile negarlo. Premessa maggiore accordata. Non altrettanto, però, si può dire per la premessa minore (Beethoven non ha ritmo) del fresco sillogismo di Allevi, dritto dritto, facile facile.
Eccolo risolto, dunque – con buona pace di un secolo di dibattito culturale su L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (mutuando un felice titolo di Benjamin) – il tema della fruizione della Musica classica oggi: i più non si avvicinano alla grande Musica? Sappiamo finalmente il perché. Va da sé, infatti secondo il giovanile pianista ascolano, che se le nuove generazioni non ascoltano Musica Classica, è perché manca di ritmo.

Ipse dixit. Se ne faccia una ragione il buon Titano Beethoven con il suo martellante e incisivo motivo dell’incipit della Quinta Sinfonia, che di quel ritmo ossessivo (il Destino che bussa alla porta con tre colpi brevi e uno lungo) ha fatto un tema escatologico universalmente noto, usato ed abusato nei contesti più vari. E pazienza se Stravinsky gestiva con tale disinvolta maestria proprio il ritmo, tanto da farci avvertire ancora oggi troppo ardita e “moderna” la sua poliritmia su partiture datate ormai all’inizio del secolo scorso. Con largo, larghissimo anticipo sulla nascita dei giovani, o giovanili, cantautori folk, jazz, pop, rap, rock… (in ordine alfabetico) la cui vitalità ritmica non osa tuttavia avventurarsi quasi mai oltre un prudente e cauto 4/4.
E perché mai, dunque, con il suo complesso e vivacissimo laboratorio ritmico Stravinsky (ma anche Varèse, Bartòk, Ligeti, Reich, e l’elenco sarebbe lungo) non alletta i nostri giovani?
Forse, semplicemente perché di cotanta abbondanza non se ne danno formulette pronte all’uso. Perché non se ne danno pillole.
E devono essere brevi, meglio ancora se edulcorate, le pillole che oggi piace ai più sgranocchiare.

Il macigno, insomma – che per chi ama la Musica classica è piuttosto una montagna incantata – sta tutto e sempre lì. Possente e insuperabile. Se ne estraggono ciottoli, in qualche raro caso pepite; ma il convitato di pietra della tradizione colta occidentale s’impone comunque come riferimento diretto o indiretto, con la sua intatta maestà e un po’ di soggezione, a chiunque voglia far Musica. E allora una domanda sorge spontanea: perché mai, dunque, musicisti classici, che hanno calcato teatri prestigiosi, inciso dischi con le musiche di paludati compositori in parrucca e suonano su strumenti costruiti secoli fa, quando l’Europa veniva scossa dalle rivoluzioni; perché mai, dico, questi sacerdoti laici dovrebbero scendere dalla montagna incantata e suonare Musica jazz, pop, rock o rock prog?
O perché, invece, non dovrebbero?


 

La risposta, infatti, è semplice ed è dettata dall’esperienza. Nonostante quell’archivio fossilizzato del senso comune releghi la Musica classica in una torre d’avorio oltre le nuvole, nella realtà dei fatti il reciproco scambio, l’osmosi naturale tra Musica d’arte e Musica d’uso, tra teatro, club e stadio, tra violino, chitarre, banjo e basso elettrico – volendo tracciare dicotomie e confini più teorici che reali – è costante e più frequente di quanto non s’immagini.
La prima Scuola di Vienna, presidio insuperato della forma musicale classica, non disdegnava di nutrirsi di melodie popolari sulle quali costruire architetture sinfoniche e liriche destinate a superare il tempo; e, più ancora apertamente, le Scuole Nazionali romantiche avevano fatto delle tradizioni musicali popolari la loro precipua identità.
Ma vale anche la reciproca: e cioè che la “Musica che piace ai giovani” s’ispiri o vada direttamente a rubacchiare pepite dalla montagna incantata dell’immenso repertorio classico.

Capita a volte di sentire queste nostre (pacate) considerazioni scodellate in salse ben più sapide, condite con quel gusto malizioso che tende a misurare ogni scelta artistica con l’ammiccamento a quella logica di mercato che strizza l’occhio al pubblico per moltiplicare le vendite. In breve, compositori ed interpreti di Musica classica sarebbero colpevoli di rifarsi a modelli folk/jazz/pop/rap/rock/etc…giusto per rinfrescarsi il trucco ed ampliare la platea della fruizione; dall’altra parte, nondimeno, la sua antagonista, la Musica più leggera – come la definivano alcuni, tanti anni fa – quando si trova a corto d’idee, di figure, ma anche di incisi melodici e temi musicali, sa sempre a quale porta bussare.

Vano e fuorviante sarebbe, qui, lavorare di acribia per sentenziare quale piatto della bilancia va a pesare di più. Interessante, invece, e magari più divertente, è disegnare gli imprevedibili percorsi della Musica che svolazza libera di qua e di là, sopra e sotto, e perfino prima e dopo dei generi musicali definiti. Perché se non è mai mancato il musicista folk-jazz-pop-rock con o senza pedigree accademico, che puntualmente trova modo di omaggiare la grande Musica creando soluzioni che s’impongono con immediata fortuna, oggi non manca neppure il musicista classico che suona repertorio accademico in “modalità stadio”, con l’enfasi scenografica, cioè, e la conseguente apparecchiatura di luci e fumi usualmente riservata agli eventi pop, senza sconti neppure su catene, anelloni papali, tute in lattice con tutto quel corredo di accessori che ricorda tanto l’ heavy metal degli anni d’oro.
E poi ci sono le operazioni di raffinato rimpallo, o meglio, progressivo affinamento linguistico ed espressivo tra le due sponde nominali della Musica, in mezzo alle quali tuttavia si apre un oceano vivo di note, che sguazzano e giocano facendo democratiche capriole in barba alle etichette e ai diritti d’autore, condensandosi a volte in un capolavoro del passato, altre in una sfida del presente, e ancora, in una partitura vuota, pronta per essere scritte in futuro.

Ed è sempre lo stesso oceano che lambisce le varie sponde, basta lasciarlo fluire, e specchiarsi sulla sua superficie. E’ successo che con il mio gruppo, l’UmbriaEnsemble, dopo diversi anni di esperienze considerate massimamente classiche, con ruoli di primo piano in grandi e famose Orchestre, tournée di concerti in tutto il mondo – dalla Cina, all’India, al Sudamerica, Nordamerica, Giappone, Nordafrica, Sud Est asiatico, per non citare ogni singolo Paese europeo, più volte visitato – è successo che il naturale e fisiologico desiderio di navigare sempre un po’ più oltre le terre note, ci portasse a sfidare le Colonne d’Ercole. E a superarle. Quando ebbi l’idea di chiedere al compianto Sergio Piazzoli – geniale talent scout musicale e visionario patron di Rockin’ Umbria, raffinata kermesse musicale unica nel suo genere per qualità e coerenza artistica – una lista di titoli per farne un CD, avevo già messo in conto di ricevere in risposta uno sberleffo o, quantomeno, una risata. E invece no. L’entusiasmo di Sergio mi travolse, e travolse anche la nostra Musica rimescolando tanto bene le carte da ricevere, tutti noi, una sana iniezione di entusiasmo, energia, ricerca e sfida, condite da infinito amore e quel pizzico di incoscienza che dà slancio ai muscoli di chi deve saltare steccati – resi tali da un’opinione pubblica il più delle volte ignara delle sue stesse ragioni.

Nacque così Heaven. Scelsi questo nome un po’ perché era il più ricorrente nei songs della tracklist; ma soprattutto perché se guardi il cielo non vedi gli steccati. Tutta la Musica, del resto, nasce e risuona sotto lo stesso, unico cielo.
Pochi mesi dopo Sergio ci lasciava. Un malore improvviso, nella notte; e lasciava un vuoto immenso, mai più colmato, nella città di Perugia e nell’ambiente musicale che lui, più di altri, viveva e sentiva come sfaccettato, complesso e in continua evoluzione: ma unitario.
Perché parlo di costruttivo rimpallo, quando le sponde musicale dell’oceano Musica dialogano? Pensando al nostro CD, Heaven, il percorso è un po’ ciclico, in effetti, o meglio, è come la spirale che ci raccoglie nell’austera grafica di copertina. Il nostro omaggio al RockProg, nato dall’incontro tra UmbriaEnsemble e Sergio Piazzoli, tra musicisti classici ed un importante figura del Rock, in sé già contiene la posizione che i titoli scelti per il CD sintetizzano in Musica. Perpetuum Mobile di Penguin Café Orchestra, per dirne uno, si apre con un classicissimo, “severo” contrappunto.

Contaminazioni? No, non più, non oggi. Le contaminazioni avvengono tra isole; qui, tutti immersi come siamo in un continuum sonoro che volenti o nolenti, coscienti o incoscienti, ci avvolge tutti, sempre e ovunque, anche e soprattutto quando non sappiamo cosa stiamo ascoltando (o subendo all’ascolto). In questa società per azioni (non sempre confessate ma sempre ben ponderate) del continuum sonoro, uno dei maggiori azionisti è il mondo della pubblicità. E non c’è minestrone o crema di bellezza che non si sia aggiudicata quale propria colonna sonora una Sinfonia di Mozart, Beethoven, Schubert o Smetana (e qui ci fermiamo perché l’accoppiata Rossini/gastronomia ci porterebbe troppo lontano).
Siamo immersi piuttosto in una koinè, direi, dove tutto è possibile e, con ciò stesso, estremamente difficile da realizzare in prospettiva duratura.
Piace una volta di più sottolineare la (mia) posizione più generale per cui condividere, aprire e diffondere NON è, ipso facto, svalutare. E, una volta ancora, sgombrare il campo – giusto per chiarezza – dall’insostenibile assioma secondo cui il prodotto musicale diffuso, divenuto patrimonio globale, sia inevitabilmente qualcosa di scadente; e, all’opposto, che il prodotto musicale di nicchia, anche solo per questa sua esclusività, sia automaticamente garanzia di qualità.
Non è così. Leggiadri quanto sterili minuetti settecenteschi sono giustamente ignoti ai più e presto dimenticati (anche perché francamente di nessun interesse), mentre alcuni temi mozartiani sono patrimonio dell’umanità ormai da generazioni. Ieri forse consapevolmente, oggi magari attribuendone la paternità ad un’aspirapolvere. Ma non importa, perché non è l’epoca, lo stile o la paternità che conta, nella Musica. Conta la sua capacità di arrivare a dialogare con le regioni più remote di noi stessi, delle persone di ogni tempo e ogni luogo che da questo intimo dialogo possono in ogni momento, e senza preavviso, iniziare ad ascoltare e ad ascoltarsi; a scoprirsi nuovi, diversi.
A volte rinascere. O magari, semplicemente nascere.

info@umbriaensemble.it


 

 

L'autore

Maria Cecilia Berioli
Maria Cecilia Berioli è violoncellista e Direttore Artistico di UmbriaEnsemble